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Il mercato della birra craft e la maledizione dell’hype

Dopo aver commentato i risultati di sabato e aver stilato delle classifiche non ufficiali, concludiamo l’ampia parentesi dedicata a Birra dell’anno di Unionbirrai con alcune riflessioni emerse dal concorso. Oltre a rappresentare un’esperienza straordinaria, partecipare come giudice a un’iniziativa del genere permette di scoprire dinamiche non sempre evidenti dall’esterno, capaci di sviluppare una maggiore consapevolezza sullo stato della birra artigianale in Italia. Anche quest’anno gli spunti non sono mancati: lunedì vi ho spiegato come l’edizione 2018 del concorso abbia confermato l’ottimo lavoro di tanti giovani progetti partiti con il piede giusto, aspetto che contribuisce ad aumentare il livello qualitativo nel settore. Però non è tutto rose e fiori e gli assaggi di Birra dell’anno – più che i risultati finali – hanno evidenziato qualche ombra sul modo in cui sta evolvendo il mercato. Possiamo riassumere il tutto con una parola inglese che nel nostro mondo sentiamo ripetere sempre più spesso: hype.

Il termine può essere tradotto (in maniera non propriamente fedele) come un’attesa o un interesse spasmodico per un particolare prodotto di mercato, spesso creato ad arte tramite specifiche strategie di marketing. Il moderno mercato internazionale della birra craft è sempre più esposto a questo fenomeno e un esempio abbastanza chiaro lo abbiamo avuto con le New England IPA: da sottostile di nicchia proprio di una piccola regione degli Stati Uniti, si è rapidamente trasformato in un caso planetario. Con velocità impressionante è stato reinterpretato dai birrifici di mezzo mondo e ricercato con ossessione dalla comunità internazionale dei beer geek. Ha trovato in Instagram un veicolo perfetto per le sue caratteristiche visive e i birrifici pionieri della tipologia sono diventati ricercatissimi ovunque. Le discussioni intorno alle NE IPA si sono consumate nel giro di pochissimi mesi e la loro ascesa ha in parte modificato la scena mondiale della birra artigianale.

L’ennesima consacrazione del fenomeno è arrivata con la categoria 17 di Birra dell’anno, dedicata espressamente ed esclusivamente alle New England IPA. Personalmente avevo espresso qualche perplessità su questa scelta, perché pensavo che l’Italia brassicola proponesse ben poche incarnazioni della tipologia per poter coprire in maniera soddisfacente un’intera categoria del concorso. Alla fine invece le produzioni iscritte sono state 14: un numero decisamente esiguo rispetto ad altri stili, ma tale da giustificarne la valutazione a parte. E il fato ha voluto punirmi per la mia diffidenza 🙂 : al mio tavolo è capitata proprio la finale secca delle New England IPA, che ho accolto con curiosità e grande interesse.

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Oggi sapete che il podio finale è stato di altissimo livello: prima la NEIPA DDH Amarillo di Crak, seconda la Velvet Suite di MC77, terza la NEIPA DDH Mosaic ancora di Crak. In effetti durante gli assaggi si sono rivelate tre birre ottime per la categoria in questione, capaci di stagliarsi ampiamente dal resto del gruppo. Ecco, il problema era dopo il podio: delle 14 birre iscritte, la qualità media era ampiamente deludente nonostante i soliti alti e bassi. In molti casi non parliamo semplicemente di leggeri difetti o principi di ossidazione, ma di ricette che avevano poco da spartire con la tipologia delle New England IPA: alcune birre erano totalmente prive di note tropicali e resinose, altre clamorosamente watery (laddove è invece richiesta una corsa vellutata), altre semplicemente molto opalescenti senza altre adesioni allo stile.

Togliendo dunque il podio e un paio di altre produzioni, la categoria delle NE IPA mi ha abbastanza inquietato. L’impressione che ho avuto è che molti birrifici abbiano deciso di produrre birre del genere senza conoscere a fondo lo stile di riferimento. Uno stile non facile da replicare, che nelle sue migliori incarnazioni gioca su equilibri delicati e che richiede un’ottima conoscenza della chimica e degli ingredienti di base. Per replicarlo al meglio occorre molto studio, occorre aver assaggiato le versioni autentiche del New England, occorre confrontarsi con i colleghi e con il mercato. Insomma, occorre dedicare molto tempo alla ricetta ed evitare il tentativo di cavalcare la moda del momento senza idee chiare. Invece c’è quel maledetto hype che è lì, come una morsa letale che bisogna cercare di allentare il prima possibile. Almeno per chi vi rimane vittima e non riesce a liberarsi dagli umori mutevoli del mercato.

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Tutta questa considerazione non nasce certo solo dalla categoria 17 di Birra dell’anno. A Rimini ho avuto l’occasione di assaggiare la semifinale delle White IGA e anche qui non ne sono uscito particolarmente sereno. Il numero di Italian Grape Ale è aumentato a dismisura negli ultimissimi anni, tanto che Unionbirrai ha deciso di suddividere la relativa categoria in due diverse (White e Red in base all’uva utilizzata), entrambe passate per uno screening prima della finale. L’impressione è che questo ampliamento numerico non abbia coinciso con un innalzamento della qualità media, anzi: in passato giudicare le IGA mi aveva lasciato decisamente soddisfatto, quest’anno invece sono rimasto deluso. Anche qui sembra che molti produttori vogliano lanciarsi rapidamente in una tipologia molto in vista, quando invece sarebbe auspicabile uno studio approfondito e un ottimo affiatamento con il fornitore del mosto di vino.

Questa voglia di “esserci a tutti i costi”, di mettere una tacca sperando che da sola porti vantaggi automatici, è spesso controproducente. I risultati della categoria 17 lo dimostrano: se ci si vuole lanciare nella tipologia delle New England IPA è bene farlo con dedizione, analisi e un confronto costante. Non è un caso che sul podio siano saliti due birrifici che da tempo si stanno confrontando (con successo) con questo stile. L’improvvisazione è inutile e deleteria, oltre che moralmente rivedibile per il consumatore finale. Attenzione però, perché è un discorso rivolto non solo ai produttori, ma a tutti gli attori della filiera: è inutile che un distributore spinga un birrificio a creare una NE IPA se non è specializzato in questa tipologia; è controproducente per un publican voler inserire necessariamente una “juicy” se sul mercato non sono disponibili prodotti di cui fidarsi; è ridicolo che un consumatore corra dietro alla prima birra estremamente opalescente, senza neanche riconoscerne l’adesione allo stile di appartenenza.

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L’hype è una brutta bestia, con risvolti spesso negativi. Chiaramente è lecito cercare di cavalcare l’onda, ma bisogna farlo con cognizione di causa: se non si sa usare una tavola da surf, la brutta figura è assicurata. In passato il mercato italiano ha concesso di commettere errori senza subire gravi ripercussioni, ma oggi è diventato troppo competitivo per perdonare i passaggi a vuoto. La soluzione? Cercare di resistere all’attrazione dell’hype e seguirlo solo quando ci si sente particolarmente sicuri. E nel frattempo continuare a concentrarsi con tranquillità sulle mille altre possibilità che concede il settore della birra artigianale. Sarà forse un caso che molte delle finali più interessanti di Birra dell’anno siano state quelle relative alle basse fermentazioni?

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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