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Che anno sarà per l’homebrewing in Italia? I possibili trend del 2024

Con il 2024 inizia il mio undicesimo anno come homebrewer. Se penso a quante cose sono cambiate dal giorno della prima cotta, quasi non ci credo. Fortunatamente la passione per questo hobby è rimasta quella di un tempo, se non addirittura aumentata. Sono ancora qui a ragionare sulle nuove cotte da mettere in cantiere quest’anno, gli ingredienti da acquistare, gli articoli da postare sul blog. Rispetto a qualche anno fa, penso molto meno – se non per nulla – al miglioramento del mio impianto, che dopo diversi anni credo sia arrivato finalmente a un buon livello di consolidamento, sia per la produzione del mosto, sia per la fermentazione. Forse, e ripeto sottovoce forse, le spese per l’attrezzatura sono arrivate a uno stop. Sarà così? Vedremo. Intanto proviamo a immaginare come sarà questo 2024 per l’homebrewing in Italia.

I sistemi All In One sono tra noi per restare

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Molto è cambiato nell’attrezzatura per homebrewer da quando iniziai a fare birra in casa – nemmeno troppo tempo fa, nel lontano 2012. All’epoca adottai da subito la tecnica del BIAB (Brew In A Bag), un approccio nato in Australia che si era progressivamente diffuso in tutto il mondo grazie alla sua praticità. Bastava utilizzare una sacca in poliestere (all’epoca molti homebrewer acquistavano un certo tipo di tende dell’Ikea e le convertivano a sacca), metterci dentro i grani macinati, tenerli a mollo in un pentolone e rimuoverli prima della bollitura. La comodità era unica, tuttavia questo approccio veniva fortemente criticato dai veterani che usavano ancora sistemi a tre pentoloni ingombranti e scomodi da gestire. Ricordo benissimo che in alcuni forum venivo chiamato “quello che fa la birra col calzino”. Il calzino era, appunto, la mia sacca BIAB.

Con il tempo, quasi tutti hanno capito che questo metodo di produzione non ha particolari controindicazioni, a eccezione della ridotta efficienza – che però, per chi fa birra in casa, non è un gran problema. Il BIAB con il tempo si è ulteriormente evoluto nei sistemi All In One, che al posto della sacca – bruttina e non comodissima, se vogliamo essere sinceri – montano un comodo cestello inox con fori sul fondo. Oggi non conosco praticamente nessun homebrewer che non utilizzi sistemi AIO (tranne me, ironicamente, che partii proprio con il BIAB e ne fui un gran sostenitore da subito). I sistemi AIO si sono molto evoluti rispetto ai primi modelli usciti anni fa, i quali presentavano diversi problemi tra cui la fastidiosa tendenza a bruciare le cosiddette “farine” che si depositano sul fondo della pentola durante l’ammostamento.

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I modelli disponibili oggi sono piuttosto moderni e hanno risolto molti dei problemi che affliggevano i primi sistemi arrivati in Italia. Non credo che la tendenza ad acquistare sistemi AIO come impianti di produzione casalinga si ridurrà in questo 2024, anzi. Sono abbastanza convinto che la maggior parte dei produttori casalinghi continuerà ad acquistarli e ad utilizzarli. Continueranno probabilmente ad uscire modelli migliorati e più performanti che risolveranno quei piccoli problemi che alcuni di questi sistemi ancora si portano dietro. Ma gli AIO sono qui per restare. E resteranno. Viva la birra con il calzino!

Anche la contropressione non scherza

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Non scorderò mai un post che scrissi nel 2017 sul mio blog, dal titolo: Ossidazione, la nuova psicosi collettiva. Una lunga disamina dell’approccio di produzione in contropressione con tanto di pro e contro analizzati in base a grafici e dati scientifici raccolti da diversi articoli in giro per il web. Il mio articolo si concludeva con la frase “Non credo mi vedrete mai mettere in piedi un sistema di imbottigliamento in contropressione”. Fortunatamente ebbi la buona intuizione di utilizzare il verbo “credo”, lasciando un piccolo spiraglio aperto prima di sbattere la porta. Aggiunsi anche che “non è escluso che un giorno non mi metta a fermentare nei fusti jolly”. Come era forse prevedibile – solo gli stolti non cambiano idea – oggi fermento nei fusti Jolly da 19 litri e utilizzo, ormai da diversi anni, un approccio in contropressione. C’è da dire che non fermento in pressione, come molti fanno, e che a volte ancora utilizzo i vecchi secchi in plastica rifermentando in bottiglia alcuni stili. Ma i trasferimenti di birra da un contenitore all’altro li gestisco sempre spingendo la birra fuori dal fermentatore con anidride carbonica.

Perché, obiettivamente, utilizzare la contropressione fa la differenza. E non solo nella produzione di birre luppolate. Questo, ovviamente, non l’ho capito solo io. Non sono stato nemmeno il primo a capirlo, tra gli homebrewer italiani. È un trend che va avanti da decine di anni, ma che solo da qualche anno, anche grazie alla spinta di alcuni produttori casalinghi più noti come Davide Cantoni di Rovid Beer, ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio tra gli homebrewer.

Se però la filosofia alla base di questo metodo è solida e può portare effettivi miglioramenti nelle birre prodotte in casa, in pratica ha una curva di apprendimento non proprio immediata. Se non la si affronta con criterio, si rischia di fare più danni che altro. Ed è quello che succede a molti homebrewer, convinti che questo approccio rappresenti una comoda scorciatoia per la produzione di ottime birre. Purtroppo non è così, anzi. Se usata male, la contropressione è solo una buona scorciatoia per stancarsi presto di questo hobby, visto che lo rende piuttosto complicato, costoso e non garantisce affatto – di per sé – un miglioramento qualitativo della birra prodotta.

Detto ciò, sono sicuro che anche nel 2024 molti nuovi homebrewer imbracceranno bombole di anidride carbonica, fermentatori isobarici e sistemi di imbottigliamento in contropressione/isobarico. Questo trend verrà spinto, come è stato negli ultimi anni, da nuove “diavolerie” che arriveranno sul mercato a costi abbordabili. Tutti i maggiori siti italiani che vendono materiale per homebrewing hanno ormai una ampia parte del catalogo dedicata a chi ha adottato l’approccio in contropressione. Ecco, se proprio dovessi formulare un auspicio, spero che i rivenditori inizino a fare un po’ di pulizia nella parte del catalogo dedicato alla contropressione togliendo accessori totalmente inutili, razionalizzando l’offerta e soprattutto presentandola in un modo comprensibile a chi ci capisce ancora poco. Speriamo.

Poveri Kveik, nessuno si ricorda più di loro

Dei lieviti Kveik scrissi già a luglio dell’anno scorso sul mio blog, esponendo le mie tante perplessità su questi ceppi di origine nord-europea che iniziarono a spopolare in Italia più o meno nel 2020, anche se erano già diffusi in alcuni circuiti di appassionanti già da molti anni. L’opera che contribuì maggiormente alla crescita esponenziale dell’entusiasmo verso i Kveik fu senza dubbio il libro di Lars Garshol “Historical Brewing Techniques”, disponibile anche in italiano con il titolo “Tecniche Tradizionali di Birrificazione”. Il libro racconta la storia di questi ceppi così particolari, innestata nelle tradizioni contadine dei paesi scandinavi da secoli. Oltre ad essere un libro scritto molto bene, si tratta davvero di un racconto interessante, a tratti quasi commovente. Mi è piaciuto moltissimo, consiglio davvero di leggerlo.

Detto ciò, l’entusiasmo verso l’utilizzo di questi ceppi, al di fuori del loro contesto di origine, non mi ha mai convinto appieno. Senza entrare nei dettagli e volendo essere estremamente sintetici, trovo che – nel migliore dei casi – se applicati a metodi di produzione diversi da quelli delle tradizioni scandinave, questi lieviti non diano particolari contributi alla birra. Anzi, in molti casi detraggono da quelli che dovrebbero essere i tratti principali di alcuni stili, tra cui la pulizia organolettica. L’unico vero vantaggio evidente dei ceppi Kveik è quello di riuscire a produrre birre bevibili, senza evidenti difetti, anche se lasciati fermentare a temperature in cui i “normali” lieviti darebbero vita a produzioni con difetti evidenti che le renderebbero probabilmente imbevibili.

Non mi ha stupito quindi che il trend di adozione di questi ceppi, specialmente tra i produttori casalinghi con maggiore esperienza e dotati quindi di almeno una camera di fermentazione in casa, si sia nel tempo fortemente ridotto. Lo scorso anno non si è parlato praticamente per nulla dei lieviti Kveik, sebbene alcuni rivenditori ne abbiano messi a catalogo di nuovi. Credo che verranno presto dimenticati, tornando a costituire il centro di quello che è il loro mondo d’origine: le farmhouse scandinave. Ecco, semmai metterei in calendario un viaggio al Norsk Kornølfestival 2024: questo sì che è un festival a cui varrebbe la pena partecipare, dal vivo, almeno una volta nella vita.

Basta NEIPA e Keller: è l’anno delle lager Ceche

Penso ce ne siamo resi conto un po’ tutti: il 2024 sarà, molto probabilmente, l’anno delle Lager ceche. Dopo la East Coast americana con le sue NEIPA, dopo la Franconia con le sue Keller, è arrivato il momento della nuova moda. C’è stato un tentativo di nuovo trend con le Cold IPA, ma non è andata benissimo. Invece, le Lager ceche sembrano arrivate per restare.

Siamo tutti schiavi, chi più chi meno, delle tendenze della birra artigianale. Io per primo. Potrei mettere le mani avanti dicendo che in realtà provai a produrre in casa una lager ceca già nel lontano 2015 e che all’epoca ero già stato diverse volte a Praga, ma mentirei. Nel senso: sono tutte cose vere, ma la vera consapevolezza riguardo a questi stili è arrivata, almeno per me, piuttosto recentemente. Non più di un paio di anni fa, stimolato dagli amici Daniele Cogliati e Angelo Ruggiero che da ben prima di me si sono interessati a questo affascinante mondo (io sono sempre stato più vicino al mondo inglese).

Inevitabilmente, i trend del mondo craft hanno un filo diretto con l’homebrewing. Ed ecco che molti produttori casalinghi – tra cui mi inserisco anche io – si sono lanciati nella produzione di questi stili. Diversi, per molti aspetti produttivi sostanziali, dalle Lager tedesche e in particolare da quelle della Franconia, decisamente “trendy” fino a qualche tempo fa. Non c’è niente di male in tutto ciò, sia chiaro, ma ammetto che all’ennesimo post di viaggi a Praga dei miei contatti social – oltre a una sana invidia – ho provato anche un filo di stanchezza. Non che mi sia passata la voglia di tornare a Praga, ma al pensiero di trovarmi circondato da “carissimi” italiani a fare le pulci al diacetile… beh sì: mi è passata. Scherzo! Ne vedremo delle belle, secondo me, anche in termini di nuovi lieviti dedicati a questi stili diretti agli homebrewer.

La specializzazione dei concorsi

Un altro trend a cui credo molto e in cui sinceramente spero, è quello della specializzazione dei concorsi per homebrewer. Con “specializzazione” non intendo necessariamente concorsi mono-stile, ma almeno concorsi dedicati a una sottocategoria di stili (Inghilterra, Belgio, Birre ad alta OG, etc…) o anche concorsi generalisti ma gestiti come fanno in molte competizioni all’estero, ovvero con tavoli di giuria focalizzati su stili che siano almeno vicini tra loro per provenienza geografica, storia, caratteristiche organolettiche.

Personalmente, come giudice, trovo la focalizzazione nei concorsi molto stimolante. Lo sforzo richiesto per evidenziare sottili differenze e similitudini tra stili vicini aumenta la profondità di conoscenza del giudice e aiuta anche nella stesura della scheda valutazione che l’homebrewer riceverà. Credo, ma potrei sbagliarmi, che anche gli homebrewer apprezzino quei concorsi maggiormente focalizzati e meno generalisti. Potrei sbagliarmi, ma ho fiducia che la sempre maggiore consapevolezza sugli stili e la crescente attenzione nella gestione dei concorsi porterà a una maggiore attenzione ai dettagli e a una più diffusa focalizzazione. A beneficio di tutti: organizzatori, giudici e homebrewer.

Il boom dei giudici BJCP

Per quanto possa essere contestato – ed è giusto che sia così, per molti aspetti – il BJCP (Beer Judge Certification Program) sta acquisendo finalmente uno slancio anche in Italia. Rispetto ad altre certificazioni (penso ad esempio al Cicerone) è molto più accessibile, almeno per i primi livelli. Con tutti i suoi difetti (e ne ha, ne sono ampiamente consapevole) vanta sicuramente più autorità a livello internazionale di molte altre certificazioni di degustazione che si possono ottenere in Italia. Questo non significa che un qualsiasi giudice BJCP sia migliore di un giudice che possiede altre (o nessuna) certificazione, ma sicuramente si tratta di un programma di studio gestibile da remoto come autodidatta con tanto materiale valido a disposizione, il che non guasta.

Come organizzatore, in Italia, degli ultimi due Tasting Exam (l’esame di assaggio), ho registrato un interesse crescente verso questa associazione rispetto a quanto lo fosse qualche anno fa. Questo anche perché molti pensano che una volta presa la certificazione base, ovvero una volta passato il Tasting Exam (che non è particolarmente ostico da passare con un voto medio-basso) si aprano le porte del paradiso (ovvero delle giurie internazionali, i disegnini su Facebook con gli aeroplanini, tanti amici, belle bevute, grandi viaggi a sbafo). Mi spiace deludervi, ma non è così. Non si apre proprio un bel niente. Non è sufficiente assaggiare e descrivere (magari anche relativamente male) sei birre a un esame per essere chiamati a fare il giudice in giro per il mondo.

Questa, per come la vedo io, non dovrebbe essere la motivazione dietro alla scelta di diventare giudice BJCP. Il programma nasce per formare una comunità di giudici che contribuisca ad elevare il livello dei concorsi per homebrewer, in tutte le loro sfaccettature: assaggio, compilazione delle schede di degustazione, gestione dei concorsi, formazione dei giudici. Lo spirito non dovrebbe essere andare in giro a scovare difetti nelle birre di mezzo mondo, quello lo fa chi studia per entrare nei panel di degustazione. Fare il giudice nei concorsi – soprattutto in quelli per homebrewer – è un’altra cosa.

Quindi: bene che il BJCP prenda piede in Italia; bene che si facciano più esami; bene che ci siano più concorsi e più giudici certificati BJCP. Che non si pensi però che il BJCP possa risolvere d’emblée i problemi dei concorsi per homebrewer in Italia. Se le competizioni e la selezione dei giudici non vengono gestite bene a monte (compreso dare possibilità ai nuovi arrivati di far parte delle giurie, salvo poi valutarne attentamente l’operato), per certi versi il BJCP potrebbe anche peggiorare la situazione. Come sempre, non esiste la bacchetta magica per risolvere i problemi. Ma il BJCP potrebbe essere uno degli strumenti da utilizzare. Sono sicuro che piano piano ci arriveremo. Spero.

Francesco Antonelli
Francesco Antonellihttp://www.brewingbad.com/
Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. È giudice certificato BJCP (Beer Judge Certification Program).

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