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Cosa ci ha detto davvero la puntata di Report sulla birra artigianale in Italia

Da alcuni mesi il mondo della birra artigianale italiana era in attesa della puntata di Report – la trasmissione di inchieste giornalistiche in onda su Rai 3 – dedicata proprio alla nostra bevanda. Un’attesa mista a curiosità e timore, considerando come in passato il programma aveva raccontato alcuni settori enogastronomici nazionali, come quelli relativi al vino, alla pizza e al caffè. La puntata, andata in onda domenica sera, ha in parte sciolto le riserve della vigilia: la birra artigianale ne esce bene, o quantomeno meglio della controparte industriale, fortemente criticata da diversi punti di vista. L’indagine di Report non è esente da imprecisioni, ma nel complesso è stata costruita sulle opinioni di molti veri esperti del settore, ben conosciuti all’interno dell’ambiente birrario italiano.

Dicevamo delle imprecisioni. Ecco, a noi non interessa soffermarci troppo su questo aspetto, perché è quasi inevitabile che un programma mainstream finisca per commettere qualche sbavatura. Si potrebbe far notare quanto sia fuorviante citare la CO2 insieme ai quattro ingredienti base della birra – come se fosse un ingrediente a sua volta – o che il Reinheitsgebot non è più una legge vincolante per i birrai tedeschi da decenni, o ancora che bere dalla bottiglia non influenza il modo in cui l’organismo metabolizza l’alcol. Ma a parte qualche errore più o meno evidente, l’argomento “birra” è stato affrontato senza troppi “sfondoni”, anche grazie a una selezione degli intervistati tendenzialmente corretta. Più interessante, semmai, è capire come Report abbia scelto di raccontare la birra in Italia e su quali temi abbia preferito concentrarsi. La puntata può essere divisa in quattro parti, ognuna focalizzata su un macro argomento.

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Il servizio della birra

Memore probabilmente dei risultati ottenuti con il caffè, Bernardo Iovene, il giornalista di Report autore dell’inchiesta, ha deciso di dedicare il primo quarto d’ora della puntata al servizio della birra. I primi minuti sono stati quindi un susseguirsi di nozioni sulla corretta spillatura, sui modi per evitare un eccesso di CO2 nello stomaco – fin troppo ricorrente questo argomento – e sulla necessità di pulire regolarmente gli impianti dei pub. Il tutto condito da passaggi più o meno scenografici, come il famigerato test della spatola lasciata cadere in un bicchiere privo di schiuma. Concetti dati per scontati da chi bazzica nell’ambiente, ma che evidentemente sono ancora sconosciuti al consumatore medio di birra.

Report ha quindi scelto di partire catturare i telespettatori con un aspetto di grande curiosità, che invece ai bevitori più smaliziati può sembrare banale. Ma ripensando al mio personale percorso di appassionato, all’inizio fu proprio il servizio ad attrarmi verso la birra artigianale. Aspettare minuti per una corretta spillatura, seguire tutte le operazioni al bancone e infine ricevere un boccale con una schiuma maestosa e compatta. Furono questi dettagli che in principio mi ammaliarono e mi spinsero a legarmi per sempre a questo mondo. Una ritualità che ha una sua importanza comunicativa fondamentale, ma che nel nostro ambiente si è persa col tempo. Si continuano a seguire le giuste metodologie per un buon servizio, ma semplicemente non si comunicano più come prima. Perché spesso non è richiesto: rispetto al passato, ora la birra artigianale si vende comunque senza troppe spiegazioni, alimentando una certa “pigrizia” comunicativa. E così ci siamo dimenticati di un aspetto che invece è fondamentale per attrarre i neofiti.

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La (tremenda) degustazione delle birre industriali

Nella successiva mezz’ora Report è andato all’attacco della birra industriale. L’ha fatto prendendo due strade distinte: in una ha sottolineato la pochezza gustativa di alcuni prodotti da supermercato, nell’altra ha approfondito un paio di mezzi scandali legati ai marchi di Heineken.

La “degustazione” delle birre industriali è avvenuta con il loro assaggio in presa diretta da parte di alcuni esperti del settore. Nello specifico sono stati interpellati Manuele Colonna, Luigi “Schigi” D’Amelio, Carlo Schizzerotto e Francesco Reale, che inevitabilmente hanno evidenziato i tanti problemi organolettici delle birre: Corona, Birra Moretti, Tennent’s Super, Ceres, Forst e altre ancora. Paradossalmente la Peroni ne è uscita quasi in maniera dignitosa, almeno fin quando non ha cominciato a scaldarsi: la birra nazionale per antonomasia – proprietà però del colosso giapponese Asahi – è stata valutata come il male minore dai quattro interlocutori.

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Durante la degustazione con Manuele Colonna e Carlo Schizzerotto si è toccato, ancorché marginalmente, il tema del marketing “crafty” della birra industriale. In particolare ci si è focalizzati sulla Birra Moretti Filtrata a freddo, tipico esempio di un prodotto che scimmiotta quelli dei microbirrifici utilizzando espressioni altisonanti quanto imperscrutabili – impossibile non pensare anche alla Raffo Lavorazione grezza. Nel caso di Birra Moretti si tratta di una versione in cui la microfiltrazione, che comunque è sempre effettuata a basse temperature, avviene a un grado centigrado. Insomma, è semplicemente filtrata “un po’ più a freddo” delle altre birre, con effetti irrilevanti sul (pessimo) profilo aromatico. Il tema delle birre crafty forse avrebbe meritato una maggiore approfondimento.

I guai di Birra Messina e Ichnusa

Il secondo attacco all’industria è stata la parte più realmente d’inchiesta della puntata di Report. Bernardo Iovene ha scelto di approfondire due vicende che hanno visto protagonisti altrettanti marchi attualmente controllati da Heineken: Birra Messina e Ichnusa. Della storia di Birra Messina abbiamo scritto tante volte su Cronache di Birra: lo storico marchio siciliano fu ceduto alla multinazionale olandese nel 1988, che poi decise di spostare la produzione in Puglia pur mantenendo il nome Birra Messina, fino alla chiusura dell’impianto originale. Heineken si attirò sia le ire dell’Antitrust per pubblicità ingannevole, sia quelle degli ormai ex dipendenti, lasciati senza un lavoro. Alcuni di loro, dopo alterne vicende, rilevarono l’impianto e fondarono Birra dello Stretto, prima di firmare qualche anno dopo un accordo proprio con l’odiata Heineken per produrre Birra Messina Cristalli di Sale nello stabilimento originario.

Report ha approfondito abbastanza bene la seconda parte della storia, ma ha un po’ tralasciato la prima, che è quella più importante per capire come Heineken abbia continuato a fare pubblicità ingannevole per diversi anni. Riuscendo poi, grazie all’ultimo accordo con Birra dello Stretto, a trovare un modo furbo per risolvere il contenzioso con l’Antitrust – nonché ripulirsi l’immagine nei confronti degli ex dipendenti di Birra Messina. Concetti che avrebbero meritato un approfondimento diverso e invece sono risultati buttati lì tra un confronto e l’altro con Ilaria Zaminga, responsabile della comunicazione di Heineken Italia.

Zaminga che ha anche dovuto delle spiegazioni in merito allo “scandalo fluoro” di Birra Ichnusa. La notizia scoppiò nell’estate del 2022, ma poi rientrò rapidamente tanto che su Cronache di Birra evitammo totalmente di scriverne. L’ipotesi è che Birra Ichnusa possa essere contaminata da alte percentuali di fluoro, derivanti dall’inquinamento causato dalla vicina fabbrica Fluorsid. Al momento si tratta però solo di illazioni, poiché le analisi compiute sulle bottiglie confezionate – e non direttamente sull’acqua, ma su questo torneremo – sono risultate contraddittorie, con valori molto diversi tra loro. Zaminga ha sottolineato che le metodologie di analisi utilizzate si applicano all’acqua e non alla birra, che invece ha altre sostante che possono interferire con i risultati. In passato Heineken aveva confermato la bontà della sua acqua, proveniente da pozzi ardesiani, e il ricorso a macchinari a osmosi inversa per il suo aggiustamento chimico. La vera “cattiva” della storia è l’ASL di Cagliari, che non fornisce le sue analisi sull’acqua. Analisi che servirebbero per risolvere la questione una volta per tutte.

La Craft Revolution

Così è stato definito, correttamente, il movimento della birra artigianale, alle cui evoluzioni è stata dedicata l’ultima parte della puntata di Report. Una mezz’ora durante la quale sono stati intervistati diversi importanti birrifici italiani, con cenni alla produzione e alla loro filosofia. Che ritratto ne è emerso? Quello di un movimento creativo, variegato e in partenza rivoluzionario, raccontato in parte ricorrendo purtroppo ai soliti cliché da “famolo strano” della birra artigianale: quindi non tanto come alternativa anche alla Lager dell’industria, ma come prodotto eccentrico, realizzato con ingredienti non convenzionali o ricorrendo ad affinamenti in botte.

Da un punto meramente narrativo, peraltro in linea con l’impostazione di Report, non poteva mancare una parte dedicata ai quattro “traditori” – così sono stati definiti tra il serio e il faceto – ossia i birrifici artigianali che in passato decisero di vendere alle multinazionali del settore. Sono stati intervistati tutti i protagonisti di quelle operazioni (Leonardo Di Vincenzo di Birra del Borgo, Raimondo Cetani di Hibu, Giovanni Campari di Birrificio del Ducato e Massimo Salvatori di Birradamare), che hanno sottolineato la differenza di visione tra l’industria e gli artigiani. Ne sono usciti bene: hanno avuto tutti la possibilità di illustrando le loro (condivisibili) motivazioni per le cessioni, spiegando cosa non abbia funzionato negli anni successivi.

Conclusioni

Cosa resta allo spettatore medio della puntata di Report sulla birra artigianale? Da dentro al settore è difficile rispondere a questa domanda. I microbirrifici sono stati raccontati in maniera corretta e sono i “buoni” della storia, in contrapposizione alle multinazionali del comparto brassicolo. Facile immaginare che l’utente tipo di Report ricorderà soprattutto la prima parte dedicata al servizio della birra, con quella spatola gettata nel bicchiere privo di schiuma che provoca un’eruzione di CO2 – sperando che nel frattempo dimentichi le stupidaggini dette sulla connessione tra metabolismo dell’alcol e spillatura. Del comparto artigianale gli rimarrà probabilmente l’idea di un fenomeno interessante, un po’ eccentrico e “buono, pulito e giusto”. E forse entrato in una fase crepuscolare: Sigfrido Ranucci ha spesso usato verbi al passato, veicolando tra le righe il messaggio di un’occasione persa.

La birra artigianale vive un momento di stagnazione e difficoltà, ma un prodotto televisivo come quello di ieri può incuriosire e risultare efficace per riaccendere una fiammella di interesse nei confronti del settore. Il problema però è sempre lo stesso: oggi lo spettatore di Report si alzerà e ricorderà quanto visto ieri in tv; gli verrà la voglia di provare una birra artigianale e, ancora una volta, non saprà semplicemente dove acquistarla. Cercherà nei bar e nei supermercati sotto casa e, nella migliore delle ipotesi, troverà una Ichnusa non filtrata o una Raffo Lavorazione Grezza. “Con quel nome deve essere per forza artigianale, o quantomeno avvicinarcisi” penserà. E passerà in cassa convinto di aver compiuto la scelta giusta. Il limite della birra artigianale in Italia è la reperibilità e lo sarà finché non cambieranno determinate dinamiche.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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6 Commenti

  1. Ciao Andrea,
    in realtà sappiamo che dovrebbero essercene 100 di articoli come quello di report per riaccendere l’interesse verso la birra artigianale!
    Nel tuo articolo hai toccato Un punto importante quando, in questo caso riferendosi alla spillatura, hai detto che non c’è più il piacere della comunicazione.
    Comunicazione che deve cambiare, deve arrivare al bevitore di Heineken, non a chi già bazzica l’ambiente, e quando la gente beve birra vuole rilassarsi e casomai farsi un paio di risate. Quello è il momento dove si può spiegare qualcosa in più

    • Ciao Vasco,
      rispetto al passato c’è molta più pigrizia. Non è solo un discorso di comunicazione, ma anche della voglia di organizzare eventi nei locali (e che tipo di eventi), per esempio.
      Però credo che bisogna anche superare questo assioma per cui qualsiasi limite dell’ambiente è colpa della comunicazione. Ci sono problemi ben più gravi che neanche la migliore comunicazione potrebbe risolvere.

  2. Ciao,
    sull’ultima considerazione non sono daccordo.
    Dire che il problema della birra artigianale sia la reperibilità quando ormai di microbirrifici (e pub o locali limitrofi a cui questi venndono il loro prodotto) è pieno lo stivale, mi sembra poco veritiero.
    A parte uno spettatore 70enne mezzo rincoglionito, non penso che uno spettatore medio non comprenda o non abbia intuito che come per cercare un vino di un certo tipo debba rivolgersi ad un’enoteca e non ad un supermercato, lo stesso valga per un certo tipo di birra, per la quale debba rivolgersi ad un pub e non alla gdo.
    Ciao
    Carlo

    • Quindi il telespettatore medio per bere una birra artigianale dovrebbe percorrere decine di chilometri per raggiungere uno dei cento-duecento pub indipendenti distribuiti sul territorio nazionale, rigorosamente però dopo le 18,30 perché prima sono chiusi. Direi che allora ‘sto 3% del mercato è quasi un miracolo.

      Che la reperibilità sia un problema non lo dico io, lo dicono tutti gli studi fatti negli ultimi 15 anni sulle abitudini dei consumatori italiani.

      • Ciao,
        magari ho una visione distorta dal fatto di vivere a Roma, ma da quel che ho potuto vedere anche fuori regione, diversi pub anche non indipendenti riservano spine a birre non industriali, per cui ritengo (magari sbagliando) che quantomeno per una bevuta al pub il problema della reperibilità sia relativo.
        Per quanto riguarda invece il fatto di non poterne trovare nella gdo o simili, insomma sotto casa, non credo sia un “problema” ma una caratteristica di un prodotto tuttora di nicchia con differenti costi di produzione e vendita al dettaglio che deve fare i conti con le dinamiche di mercato e il portafoglio dei consumatori.
        Ciao
        Carlo

        • Ciao Carlo,
          anche io vivo a Roma, che è un’eccezione e un’isola felice per la birra artigianale. I pub che hanno una o due linee artigianali sono aumentati, ma stiamo pur sempre parlando di pub: luoghi che si rivolgono, almeno in Italia, a un pubblico di nicchia, promuovendo un consumo molto monocorde in termini di occasioni di bevuta. Da appassionati, la difficoltà è mettersi nei panni di chi è un consumatore occasionale o un neofita totale. Se proprio vogliamo rimanere a livello di horeca, allora dovresti cercare di conquistare mercato in altri canali: pizzerie, ristoranti e bar, che sicuramente attraggono un pubblico più variegato. Se in pizzeria paghi una Peroni 6 euro, non credo che avresti problemi a spendere qualche centesimo in più per una buona birra artigianale.

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