In questi giorni nella comunità internazionale della birra sta tenendo banco la vicenda relativa a Ballast Point, birrificio americano che a fine 2015 fu acquistato con una mega operazione da Constellation Brands, la multinazionale che detiene il marchio Corona. Ebbene, la scorsa settimana Ballast Point ha incassato, in un colpo solo, l’addio del fondatore Jack White e di altri tre top manager: il responsabile commerciale Earl Knight III, il direttore operativo Yuseff Cherney e l’amministratore delegato Jim Buechler. Un terremoto che è fin troppo facile collegare a precise scelte del nuovo proprietario e che rappresenta l’ultima tappa di una trasformazione in atto da tempo. Alla faccia delle dichiarazioni di ambo le parti, che non più tardi di nove mesi fa giuravano che niente sarebbe cambiato e che Ballast Point avrebbe continuato a operare in totale autonomia.
Chi è abituato alle strategie delle multinazionali, indubbiamente non rimane sorpreso di fronte a certe dinamiche: al di là delle comunicazioni di facciata, la grande industria prima o poi finisce per insinuarsi nella gestione dei marchi che controlla, cancellandone l’indipendenza. Questo processo può realizzarsi in maniera diversa in base alla filosofia della multinazionale di turno: può essere rapida e aggressiva, come nel caso di Ballast Point, oppure più morbida e oculata, come in altre fattispecie. Talvolta un’invasione più leggera permette a un produttore di mantenere la propria identità e un certo legame con il passato, ma la totale autonomia diventa ben presto una chimera.
Un articolo pubblicato ieri su The Full Pint riassume le trasformazioni avvenute in Ballast Point negli ultimi mesi e propone alcune possibili evoluzioni della situazione. Come vedremo, molti aspetti sono comuni ad altre acquisizioni analoghe, con la differenza che i cambiamenti – molti dei quali radicali – si sono concretizzati in un tempo relativamente breve. Il caso del ricambio totale dei vertici è emblematico: nonostante l’acquisizione di Constellation Brands, credo che in pochi avessero immaginato una così repentina dipartita di tutto il top management di Ballast Point. E questo conferma come operazioni del genere possono incidere profondamente nella vita aziendale di un birrificio. Chi crede il contrario o è troppo ottimista, o eccessivamente ingenuo.
Ma se il rimescolamento dell’organigramma è l’ultimo stadio di una profonda trasformazione, cosa è accaduto nel frattempo in Ballast Point? Questo è ciò che l’autore del pezzo ha notato nei passati nove mesi:
- Sul mercato sono state lanciate varianti “fruttate” delle birre base. La più conosciuta è la Grapefruit Sculpin, sorella minore della ben più nota Sculpin Ipa, alla quale si sono aggiunte Watermelon Dorado, Pineapple Sculpin e Mango Even Keel. Oltre a fare molto “alcolpops”, queste birre ricorrono a estratti di frutta, utilizzati per allungare la shelf life e ridurre i costi. La risposta del pubblico a queste novità sembra piuttosto tiepida, per usare un eufemismo.
- I prezzi delle birre Ballast Point sono calati drasticamente. Se questa notizia può far felici appassionati e consumatori, è preoccupante da un punto di vista aziendale. Anche perché le variazioni sono state decisamente pesanti: inizialmente un six pack di lattine costava all’ingrosso 17 dollari, ora, dopo graduali ritocchi al ribasso, ha raggiunto (e talvolta superato) il limite dei 10 dollari.
- Parallelamente al calo dei costi, è aumentata la freschezza dei prodotti disponibili sugli scaffali (intesa come tempo passato dall’imbottigliamento).
- La Sculpin Ipa appare come un vago ricordo di quella che aveva fatto innamorare tanti appassionati, compreso l’autore del pezzo. Il motivo è da ricercare probabilmente nei costi della ricetta originale, non più sostenibili a causa dell’aumento di produzione.
- Infine, come già analizzato, tutto il management pre-acquisizione ha lasciato l’azienda. Che sia una scelta di Constellation Brands è tutto da dimostrare, ma chiaramente è strano che ruoli così importanti subiscono contemporaneamente lo stesso destino, considerando anche che erano l’anima del birrificio.
Come vi sarete accorti, alcune delle conclusioni espresse nell’articolo sono poco più che congetture, ma nel complesso restituiscono un panorama piuttosto chiaro: dall’acquisizione in poi, Ballast Point ha mostrato una serie di cambiamenti assai radicali. E il tutto è avvenuto in appena nove mesi: evidentemente l’enorme cifra sborsata per l’operazione (un miliardo di dollari) ha spinto Constellation Brands a non pazientare troppo prima di imporre le proprie regole all’interno del birrificio californiano.
Il caso Ballast Point è importante, perché le trasformazioni sono state così repentine da non lasciare dubbi sugli esiti di certe acquisizioni. Modifiche più lente e subdole sarebbero passate quasi inosservate agli occhi dei consumatori, che magari non si sarebbero neanche accorti del cambio di direzione impresso al loro birrificio preferito. E se snaturare un’azienda e le sue birre è un grave peccato, lo è ancora di più ricorrere a soluzioni produttive che implicano l’uso di estratti, succedanei, conservanti e altre diavolerie tipiche dell’industria.
Per questo di fronte alle acquisizioni dell’industria mi sento più vicino a chi esprime preoccupazione per il futuro di un birrificio (ex) indipendente, rispetto a chi si esalta per le “enormi possibilità di sviluppo” che è in grado di garantire una multinazionale. Credere di poter mantenere autonomia quando si è deciso di venderla, quell’autonomia, è un po’ come mentire a se stessi.
Ciao,
io estenderei molto il discorso… è un pensiero mio che si fa sempre più solido non so….
Cioè a me sembra, in qualunque campo, di vedere il management, che sia impresa pubblica o privata, formato da benemeriti imbecilli incompetenti che prendono decisioni insensate.
Lo noto ogni giorno sempre di più, nella esperienza di vita di tutti i giorni come dalle notizie che leggo o i servizi televisivi che ogni tanto mi capita di vedere.
Questo articolo non è altro che un esempio concreto: che senso ha acquisire una azienda (che funziona) e “stravolgerla” e soprattutto stravolgerne i prodotti? Nessuno.
Eppure lo fanno, e qualcuno ora commenterà che se lo fanno si sono fatti i loro conti ma sono assunzioni che non hanno nè capo nè coda.
Da questo punto di vista molto ma molto più intelligente fare quello che fa ad esempio Moretti, che diversifica tirando fuori le birre al chinotto, cedro e quant’altro con il proprio marchio; funziona? non funziona?
Non lo so ma di sicuro la ritengo una scelta più intelligente di quella fatta dalla multinazionale descritta nell’articolo.
Ciao
Carlo
Non mi sentirei di demonizzare in termini assoluti il ruolo dell’industria.
Ci sono certo scelte che lasciano perplessi visto che, in questo caso, mi pare stiano facendo delle porcate dal punto di vista qualitativo. Immagino però avranno fatto le loro valutazioni commerciali arrivando alla conclusione che questi prodotti possano vendere di + (stiamo pur sempre parlando di imprenditori che puntano a massimizzare il profitto… non credo che uno si svegli la mattina e decida di sputtanare un brand sul quale ha investito fior di quattrini solo per un capriccio).
In altri frangenti mi mi sembra che una gestione industriale del craft non abbia condotto a controindicazioni. L’anno scorso mi è capitato di bere la Oatmeal Stout e la Belgian Strong di Goose Island (AB-Inbev) e mi sono piaciute (anche se non so come erano prima dell’acquisizione): l’impressione in ogni caso è stata più che positiva, tanto che il loro “brewpub” (sarebbe più corretto definirlo taproom credo) è una delle meta che ho messo nell’itineriario della mia visita a Chicago di questa estate.
Come ho scritto nell’articolo ci sono fattispecie abbastanza diverse tra loro in base alla filosofia della multinazionale di turno. Mi pare di aver letto in giro che AB Inbev nei confronti di Goose Island è stata molto più morbida proprio perché precedenti operazioni più invasive con altri marchi ex craft si sono rivelate controproducenti. Il problema è che, prima o dopo, i nodi vengono al pettine.
mi autorispondo per integrare. mi sono concesso un paio di ballast point (big eye Ipa e california amber) e le ho trovate davvero molto buone (specie la Ipa). sui prezzi non ho visto questo grande calo: al William’s di Minneapolis (posto mostruoso: 70 spine e 304 bottiglie da praticamente ogni stato USA) le bottiglie viaggiano a 6,35$ mentre le Summit stanno a meno di 6 oboli (anche se io ho preso le spine….). piccolo OT sto andando a st. louis e ho puntato la taproom di schlafly basandomi sulla guida di MJ e ratebeer. se qualcuno ha suggerimenti sono ben accetti.
Ricordiamoci che Costellation e’ una boutique di vini e spirts entrata nella birra con l’acquisizione di Corona per i soli US un due tre anni fa. Corona fuori USA e’ di Inbev. La nostra amata bevanda gli da soddisfazione economica ma non e’ che la conoscano tanto… Da qui le stranezze tipo il miliardo pagato per Ballast
Non so se ho colto il senso dell’articolo (forse no), ma mi pare di capire che l’industria “cattivona” abbia acquistato il tenero birrificio artigianale di turno, facendone scempio in men che non si dica.
Non mi risulta però che l’acquirente abbia puntato una 357 Magnum alla testa della proprietà (et management, of course). Voglio dire: c’è ANCHE chi a venduto. Che poi, però, se ne va (a godersi i soldini, perhaps?). Su questi ultimi nulla da dire? Gli fregava del prodotto? Gli fregava dei consumatori? NO. Gli fregava dei soldini PRESI da chi acquistava le birre, e poi la società. Parola di Adam Smith: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio (ohilalà!) o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro interesse personale”.
Orbene: siamo in un libero mercato, c’è chi acquista e chi vende. Liberamente. Su chi sia più fesso, ardua è la sentenza, perlomeno per me ed il dubbio me lo tengo, ma che i colpevoli stiano solo da una parte e gli innocenti solo dall’altra, gliene corre di birra, ma tanta.
Il consumatore ha, da sempre, una sola arma: la scelta.
Saludos!
PS. Non c’entra assolutamente nulla, ma la famiglia “olandese” Elkann sta vendendo la Magneti Marelli alla Samsung: chi è “il bastardo”, qui? O non c’è? Patriottismo o mercato? Altro? Arbore direbbe: meditate gente, meditate.
Porsi domande tipo “chi è il bastardo” o “chi sono i colpevoli” presuppone un ragionamento per schieramenti che non è nel mio modo di pensare, né nell’obiettivo di questo articolo
[…] Beh, è quasi inutile sottolineare che nel corso degli ultimi 12 mesi l’Italia è stata protagonista di una delle acquisizioni più eclatanti di sempre: il passaggio del 100% di Birra del Borgo nelle mani di AB-Inbev. Una novità per il nostro movimento, ma che è ormai diventata una triste consuetudine nei maggiori mercati di birra artigianale. È inutile riassumere per l’ennesima volta tutti i birrifici internazionali coinvolti in questo fenomeno, semmai è più interessante capire come il controllo di una multinazionale possa trasformare (in negativo) la vita di un importante marchio craft: a tal proposito vi consiglio di leggere un recente post sul caso Ballast Point. […]