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Nuove birre italiane (parte II), con Pasturana, Dada e altri

Dopo la doverosa parentesi di ieri, riprendiamo il discorso delle nuove birre italiane che avevamo iniziato martedì scorso. Come detto, ho dovuto spezzare il post in due parti data la quantità di informazioni ricevute negli ultimi tempi. Oggi dunque andremo alla scoperta di altre creazioni inedite, partendo dal birrificio piemontese Pasturana, che ha in serbo ben due novità, accomunate dall’impiego di uve del ricco territorio del Monferrato. Si tratta della Fil Rouge e della Filare!, che, insieme alla “vecchia” Filo Forte Oro, andranno a comporre il progetto Grape Beers. Come avrete capito, questa gamma parallela esalterà l’incontro tra la birra e l’ingrediente base del vino: un matrimonio tra due mondi diversi, ma che in Italia i birrai stanno celebrando sempre più spesso.


La Fil Rouge (6,5% alc.) è denominata “birra rosé al Brachetto” e naturalmente è brassata con l’aggiunta di vinacce esauste di Brachetto passito di Strevi, zona tipica degli “aromatici”.  Al gusto è morbida e acidula, con aromi fruttati e un finale secco, molto dissetante. La Filare! (4,5% alc.) nasce come birra con malto Pils e Carapils, alla quale è stato unito mosto vergine di Cortese di Gavi (Cadepiaggio) dopo la normale fermentazione. Successivamente avviene una nuova fermentazione con lievito da vino e una rifermentazione in bottiglia o fusto. Il risultato è una birra secca, non amara ma acidula e molto attenuata, di facile bevuta e dissetante.

Con questi altri due nuovi prodotti si rafforza una volta di più l’idea di codificare un vero e proprio stile, di cui l’Italia è necessariamente porta bandiera. Uno stile che, come detto, celebra l’incontro tra la birra e il vino e che ormai conta tanti rappresentanti sul territorio nazionale. Chissà che il nome di questa tipologia non diventi proprio Grape Beer.

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Dal Piemonte ci spostiamo in Emilia Romagna, dove il birrificio Dada ha da poco lanciato la sua nuova Knockout. Si tratta di un’American Ipa da 6,1% alc. e 60 unità d’amaro, nata per sperimentare una luppolatura in cui le aggiunte di luppolo fossero concentrate tutte nelle fasi finali. Dopo alcuni aggiustamenti alla ricetta, la Knockout è stata messa regolarmente in commercio a seguito del grande seguito ottenuto all’ultimo IBF di Milano (migliore birra del festival).

Questa la descrizione che ne fa il produttore:

Birra ambrata con riflessi rubino, la schiuma è fine e persistente di color crema, al naso spiccano con una certe prepotenza gli aromi freschi, agrumati e resinosi dei luppoli utilizzati (Columbus e Simcoe) ed una leggera nota alcolica. In bocca si ripropone il sapore resinoso dei luppoli, ma il complesso profilo dei malti utilizzati (Pale, Monaco, Crystal 75L, Aromatic, Special B) le impedisce di diventare eccessiva e coprente, donando alla birra una certa eleganza. Il corpo è medio e il finale è dominato dai luppoli. Birra dai sapori forti e decisi!

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Impossibile non segnalare l’etichetta, come sempre completamente fuori di test e caratterizzata dall’ormai classico stile “collage”.

Il marchio Aleph Beer ha invece annunciato qualche giorno fa il rilascio della sua nuova Castaway, prodotta in collaborazione con i danesi di Fano Bryghus. Si tratta di una White IPA, che altro non è che una moderna India Pale Ale prodotta con una percentuale di frumento e avena in aggiunta al malto d’orzo. Non abbiamo molte indicazioni al riguardo, ma possiamo aspettarci una IPA massicciamente luppolata, con un corpo morbido e leggermente citrico. Se la birra vi incuriosisce e sarete presenti, la troverete sulla crociera Un Mare di Birra. Certo, con un nome così è tutt’altro che di buon augurio 😛 .

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Chiudiamo infine con un nuovo progetto piemontese, che risponde al nome di Antagonisti. Si tratta di una beer firm nata dall’iniziativa di Enrico Ponza e Fabio Ferrua, già attivi (come segnala Birrazen) presso il birrificio La Piazza. La loro prima birra si chiama Bulan ed è una Saison da 5,6% alc. che cerca di sposare la tradizione brassicola del Belgio con la creatività italiana. E’ caratterizzata da freschi aromi e profumi di frutta e fiori derivanti dal tipico lievito belga utilizzato.

Sarà presentata ufficialmente il 23 giugno dalle 18,00 a Costiglione di Saluzzo (CN) e quindi disponibile per tutta l’estate nel paese di Melle (CN). Cronache di Gusto svela che la birra è prodotta presso il birrificio Soralama di Vaie.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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13 Commenti

  1. Perché le birre con qualcosa di vitivinicolo diventino uno stile riconosciuto, ci devono essere pratiche di utilizzo ed ingredienti uguali, sennò si finisce come le birre alla castagna, dove ci sono “784 metodi di utilizzo della castagna” (cit.)
    Quindi… mosto?, mosto cotto?, uva?,vinacce?,botte esausta?
    Troppe cose…per uno stile.

      • Diventa stile una birra per il fatto d’avere un successo tale da essere reinterpretata, cioè personalizzata pur mantenendo le caratteristiche proprie dello stile stesso, da più produttori. Un simile successo si ottiene quando la tipologia piace al maggior numero dei consumatori, indipendentemente dalla loro competenza in merito e quando tutto ciò dura per decenni.

        Non mi sembra che all’orizzonte s’intraveda nulla di tutto ciò. Qui si replica e reinterpreta ognuno ad minchiam, semplicemente per moda e perché è molto più facile mettere un po di mosto d’uva in una birra, che replicare uno stile vero, con caratteristiche certe.

  2. La Filare! (4,5% alc.) nasce come birra con malto Pils e Carapils, alla quale è stato unito mosto vergine di Cortese di Gavi (Cadepiaggio) dopo la normale fermentazione. Successivamente avviene una nuova fermentazione con lievito da vino e una rifermentazione in bottiglia o fusto.

    Contando doverosamente anche la maturazione questa birra ha ben 4 fermentazioni. Solo in Italia: 4 fermentazioni, 3 luppoli, ingredienti e metodi enologici, solo in Italia, per fortuna.

  3. L’Italia, grazie alla propria Storia, contiene un insieme di tradizioni e culture diverse che incrociandosi hanno dato vita ad eccelenze ed unicità che il resto del mondo ci invidia: vedi l’arte, vedi la cucina, vedi i politici..ah no quest’ultimo esempio è sbagliato! Inoltre da sempre nel mondo ormai globalizzato si riconosce la forza competitiva di chi fa ricerca e sviluppo. Noi oggi abbiamo birrifici che incrociano la cultura birraria con quella vinicola(elemento di unicità ergo vantaggio competitivo) sperimentando e ricercando come nessun’altra nazione così facilmente potrebbe fare…e qui ci si lamenta?! Mah! Io da consumatore mi limiterei a recitare la mia parte: innanzitutto prima assaggio e poi giudico, dopo ancora scelgo se ribere ergo ricomprare, o meno. E la storia di un prodotto si fa da se.. Cheers

    • Bisognerebbe capire il significato della parola birra, in realtà ci sono due significati applicabili al termine. Il primo significato del termine è Europeo o ancora meglio un significato civile, birra bevanda moderatamente alcolica ottenuta dalla fermentazione di cereali ed amaricata con luppolo, eventualmente aromatizzata con spezie, frutta, ecc.

      Questo termine implicitamente include degli ingredienti e ne esclude altri e sintetizzato si dovrebbe leggere: birra = stili.

      Poi c’è un secondo significato del termine molto più ampio e globalizzato, nel quale rientra la birra di banane fatta dalle tribù Africane, fermentata in zucche vuote, interrate per mantenerne la temperatura.

      Bisogna solo decidere a quale dei due significati appartiene il termine birra per ognuno di noi. Si sa che a prescindere nell’Italia birraria le zucche vuote non mancano. Sul fatto d’assaggiare posso anche concordare, solo che se mi si dice che dovrei assaggiare, ad esempio, una Ale so cosa aspettarmi.

      Conosco le caratteristiche che deve avere e quelle che assolutamente non dovrebbe avere, ci sono dei parametri.

      Ma se non si sa bene cosa sia perché c’è del mosto d’uva e/o altri ingredienti non ben definiti ed in effetti trattasi di birra in senso lato, vedi senza stile d’appartenenza, l’assaggio non può diventare un obbligo, visto che non ci sono parametri per poter giudicare, eventuali pregi e difetti da rilevare.

      Molto spesso i difetti di una tipologia sono le caratteristiche peculiari di un’altra, mentre in questi casi n’ze sa. A questo aggiungi i prezzi per l’assaggio ed i formati da 75 cl, che non invogliano a farne.

      Comunque a brassare così, cioè senza avere difetti da evitare e caratteristiche da rispettare, sono capaci tutti. Sarebbe come una partita di calcio senza regole, non parleremmo più di calcio, ma di qualcosa simile al rugby. Possiamo allora ancora parlare di birra dando un significato civile o Europeo a questo termine?

  4. E ieri sera qualcuno mi ha detto sottovoce, cercando di non creare imbarazzo “shhh la birra era un po’ calda”… Un po’ calda? Una Admiral Ale spillata a 8° sarebbe calda?
    “… si, guarda non fa nemmeno condensa sul bicchiere…”

    Dunque? voi vi impegnate tanto ad inseguire il sogno di creare “uno stile italiano”, vi lasciate travolgere dal vortice della spasmodica ricerca della territorialità e poi, dopo tanta fatica, dopo anni di prove e di ricerca (si vabbè), chi serve la vostra birra nei locali è costretto a darla a 6°…

  5. Se posso [sulle birre con aggiunta di mosto d’uva], secondo me per codificare uno stile non basta rilevare delle caratteristiche comuni a più produzioni: gli stili birrari classici sono nati sì dall’estro dei birrai, ma definiti spesso da “privazioni” [es. il Reinheitsgebot tedesco, le condizioni di viaggio delle India Pale Ale verso le indie, l’acqua di Burton etc…] e condizioni particolari che ne hanno plasmato lo sviluppo in un certo senso piuttosto che in un altro.

    In Italia, paradossalmente, quello che manca è un limite. Se si vuole davvero creare uno stile nuovo [e qui ci sarebbe da chiedersi a quanti interesserebbe farlo], bisognerebbe che qualcuno ritenuto [bisognerebbe capire da chi, forse guardando quale tra queste birre è più apprezzata dai consumatori?] “all’avanguardia” nella produzione di “birra con mosto d’uva” si facesse carico di impostare una didattica a livello nazionale, con i birrai che imparerebbero a fare questo stile come lo fa lui, per ottenere certe caratteristiche viste come pregi ed evitarne altre da percepire come difetti [cito Appassionato, pur discostandomi in parte], e dando a ciascuno la possibilità di personalizzare sulla base data [e le variabili possibili sarebbero comunque tantissime].

    E’ un po’ come quando si deve dare una nuova lingua ad una nazione, la prima cosa che si fa è insegnarla nelle scuole. Gli stili non sono forse i linguaggi della birra? Il personaggio illustre citato prima da me farebbe un po’ la parte che il “volgare fiorentino” ha fatto per l’italiano [la lingua in cui stiamo scrivendo su questo blog]. Che ne pensate?

    • Giusto, solo che chi decide il successo di uno stile è il mercato e per mercato non s’intende la nicchia degli appassionati, ma la massa.

      Se un birraio producesse una di queste birre ed avesse molto successo, gli altri lo seguirebbero a ruota ed avverrebbe lo stesso processo che è avvenuto in passato per tutti gli altri stili.

      L’originale, cioè quella birra che ha ottenuto un successo indiscusso, sarebbe il riferimento per le reinterpretazioni degli altri e su questa base avverrebbe la valutazione.

      C’è da chiedersi questi tipi di birra potranno mai avere , quel genere di successo?

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