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La birra artigianale italiana sta perdendo la partita più importante

La cosa che mi rende triste è che qui (a Eurhop ndr) ci sono 70 birrifici che avrebbero tutti la possibilità di mandare una persona a leggere questi dati e prendere coscienza del lavoro da compiere. Non ce n’è uno. Questo è l’aspetto che non funziona della birra artigianale, questo è il motivo per cui noi oggi abbiamo delle difficoltà.

Queste parole sono state pronunciate da Teo Musso a termine dell’incontro “Birra artigianale: analisi ed opportunità di mercato”, una tavola rotonda organizzata dal Consorzio Birra Italiana nell’ambito di Eurhop. L’evento si è tenuto sabato 8 ottobre a mezzogiorno – occhio all’orario – e rientrava tra gli appuntamenti collaterali del festival capitolino. Sulla carta il dibattito si preannunciava molto interessante, perché intendeva analizzare i limiti del mercato della birra artigianale italiana partendo dai dati del settore e coinvolgendo nella discussione, oltre al già citato fondatore di Baladin, figure provenienti da grandi aziende birrarie: Davide Daturi, senior consultant beverage, già AD di Dibevit; Stefano Baldan, AD di Brewrise; Simone Battistoni, brand ambassador di Guinness. Punti di vista diversi dal solito, accompagnati da un’attenta analisi del segmento artigianale: elementi che avrebbero dovuto convincere tutti i birrifici a essere presenti, nonostante la natura di Eurhop sia poco adatta ad approfondimenti del genere. Eppure neanche l’orario tranquillo ha aiutato, segno che nel settore continua a esserci poco interesse per certe iniziative. E questo è solo uno dei problemi.

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La tavola rotonda si è aperta con la presentazione della ricerca del Consorzio Birra Italiana, esposta dal moderatore Carlo Schizzerotto (direttore dello stesso consorzio). Le prime slide hanno permesso di ricostruire lo sviluppo del comparto dal 1994 a oggi, con il boom che tutti conosciamo. Secondo i dati raccolti, oggi in Italia sono attive 1.085 unità produttive, cioè birrifici e brewpub (escluse dunque le beer firm), con almeno un produttore presente in ogni provincia italiana. In 28 anni hanno cessato l’attività 251 unità produttive, per un tasso di mortalità d’impresa vicino al 19% e comunque leggermente sotto a quello di altri settori produttivi. Dal grafico relativo alla crescita delle aziende produttrici il 2008 sembra l’anno di svolta: è in quel momento infatti che la curva dei birrifici attivi si innalza sensibilmente, per rallentare leggermente (ma rimanendo decisamente in attivo) un decennio dopo.

Molto interessanti sono le slide che applicano la curva di Rogers al segmento della birra artigianale, confermando che proprio il 2008 è stato l’anno della definitiva esplosione del fenomeno in Italia – che poi sia anche l’anno di nascita di Cronache di Birra è una pura coincidenza, sia chiaro. Da quel momento non solo il numero di birrifici è cresciuto considerevolmente, ma è successo anche qualcosa nel mercato generale della birra. Nel 2009 infatti il settore fu colpito dalla crisi Lehman Brothers cominciata l’anno precedente, poi cominciò a riprendersi lentamente fino a segnare nuovi record storici a partire dal 2015. Nello stesso periodo cominciò anche la crescita inarrestabile dei consumi pro capite, che in soli sette anni aumentarono di oltre il 15% nonostante la pandemia, fino al recente primato del 2021 (35,2 litri a persona). Inutile poi citare il cambiamento delle abitudini di acquisto, che negli ultimi anni si sono decisamente spostate sui prodotti premium e super premium.

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Sebbene possa sembrare un’affermazione scontata (ma non lo è), il boom della birra artigianale sembra aver avuto un impatto importante sul mercato generale della birra, spingendolo verso numeri mai sperimentati in precedenza. Tuttavia la sua fetta di mercato negli ultimi tre lustri è rimasta pressoché ferma al 3%, suggerendo quindi che di questo cambio di visione da parte dei consumatori (e del mercato nel complesso) abbia goduto principalmente l’industria. Ovviamente ci è riuscita affollando gli scaffali con birre crafty o prodotti super premium, trovando peraltro spazio libero perché operante in canali non coperti dalla birra artigianale (grande distribuzione innanzitutto, ma anche un’ampia parte di horeca). La birra artigianale ha cambiato le regole del gioco, ma poi è rimasta a bordocampo, ancorata alle fragili e limitate dinamiche da cui era partita.

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La verità è che il movimento artigianale non si è evoluto, con risultati al di sotto delle attese. Durante la tavola rotonda Teo Musso ha spiegato che intorno al 2005 era convinto che la birra artigianale italiana avrebbe raggiunto il 10% del mercato e che se non ci è riuscita è solo colpa dei suoi protagonisti. Quella del 10% è forse una stima fin troppo ottimistica, ma che all’epoca ci fossero aspettative ben precise è stato confermato da Davide Daturi. L’ex AD di Dibevit – la controllata di Heineken che nel 2017 acquisì il birrificio Hibu – ha infatti commentato così le dichiarazioni di Teo:

Quando Heineken ha preso alcuni microbirrifici, ha seguito proprio questa logica, perché ci si aspettava una crescita 20-25, per un totale di 2 milioni e mezzo di ettolitri di birra artigianale. È quel 10% citato da Teo. Purtroppo questi numeri non sono arrivati.

Ci sarebbe molto da dire sull’opportunità di molte acquisizioni avvenute in quel periodo in Italia, così come sarebbe interessante capire la provenienza di certe stime. Ma al di là di qualche punto percentuale in più o in meno, è evidente che negli ultimi anni qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto.

Secondo Teo ciò è accaduto perché molti birrifici hanno rinunciato a sviluppare un’identità italiana di birra, rincorrendo ciecamente le mode provenienti dall’estero. Per Davide Daturi i microbirrifici italiani sono giustamente concentrati sul prodotto, ma trascurano la parte commerciale: non ascoltano i consumatori, non cercano fidelizzazione e ampiamento del bacino, snobbano la grande distribuzione. Per Stefano Baldan ci sarebbero tutti gli elementi per crescere molto, perché c’è una massa di consumatori ben predisposti alla birra artigianale; per farlo però bisognerebbe essere uniti, aspetto che è spesso assente. Margini di crescita confermati anche da Simone Battistoni, che vede possibilità di sviluppo con la narrazione e il legame col territorio.

A nostro avviso però c’è un limite strutturale. Che il pubblico sia ben predisposto nei confronti dei prodotti dei microbirrifici è evidente: a distanza di anni c’è ancora interesse, curiosità, voglia di scoprire birre diverse. Ma gran parte di quel pubblico è semplicemente irraggiungibile. Lo è per il solito motivo: la birra artigianale in Italia continua ad avere una reperibilità limitatissima, confinata a pochi luoghi ad hoc come tap room, locali specializzati e qualche ristorante fuori dal coro. È assente in una fetta importante di horeca, è assente quasi totalmente dalla grande distribuzione. Come si può pensare di incrementare quel 3% con un canale di vendita così ridotto, peraltro ormai totalmente saturo? Il problema principale del settore rimane questo. Non è una questione di prezzo, né di comunicazione, né di strategia. È che semplicemente in Italia o conosci quei pochi posti in cui bere e acquistare birra artigianale, oppure come consumatore sei tagliato fuori.

Purtroppo questa banalità fatica a passare. Tutti vorrebbero scavallare il 3% del mercato, ma nessuno ha interesse a farlo davvero, a parte qualche eccezione. Si resta cristallizzati sulle dinamiche di una limitata comfort zone (ammesso che poi sia così confortevole) e urlare allo scandalo appena un birrificio prova qualche via di vendita alternativa. Ignorando nel frattempo cosa sta succedendo là fuori. La tavola rotonda organizzata dal Consorzio Birra Italiana ha analizzato i limiti della birra artigianale in Italia: il primo limite però è stata proprio l’assenza dei suoi protagonisti in sala.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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12 Commenti

  1. Questa analisi è perfetta. Aggiungerei che una delle cause della crescita limitata è che la maggior parte dei locali sono ancora gestiti da generazioni non cresciute con la cultura della birra artigianale.
    Inoltre qualche “nuova leva” che sarebbe predisposta a tuffarsi nel meraviglioso mondo cede subito alle lusinghe di “sconto a fine anno e impianto in comodato” offerto dalle aziende commerciali.
    Infine esiste una grande pigrizia commerciale che continua a far proporre il “tiramisù” , “la panna cotta” e le birre di massa perché le nostre birre vanno “motivate, raccontate e trasmesse” e sinceramente tanti non hanno voglia di sbattersi.
    Siamo un popolo di pigri e restii ai cambiamenti

  2. Non fa una piega, esserci sarebbe stato sicuramente meglio. Però c’è anche da dire che la grande distribuzione non so se sia la soluzione di tutti i mali, per tanti motivi.
    Se vendessi alla grande distribuzione perderei gran parte dei clienti ingrosso che servo direttamente, me l’hanno anche già detto: “non vendo quello che si trova al supermercato, non ha senso” e hanno anche ragione se vogliamo. C’è poi il fatto che per operare con la grande distribuzione serve essere preparati: sapere e gestire le penali per la mancata consegna di un prodotto (d’estate non è difficile restare senza qualche referenza), i prezzi, le quantità, probabilmente una linea di birre (o etichette) dedicata.
    Se non sono piccoli supermercati di paese non è che ci si improvvisa perchè “basta vendere”, a volte richiedono anche delle certificazioni specifiche.
    Sarebbe già un bel passo essere uniti e muoversi come un unico fronte, ma per l’indole tutta italiana ad essere individualisti la vedo difficile, almeno in tempi brevi.

    • Ma sì la gdo non è l’unica soluzione e allo stato attuale nemmeno la più percorribile o quella che fornisce migliori garanzie. Ma nell’intervento si è parlato del 10%, che è una percentuale quasi simile a quella raggiunta negli USA. E lì non ci sono certo arrivati solo grazie a qualche locale o beershop. È questo che intendo.

    • Non per polemica, ma chi parlava consigliando la GDO è già presente in GDO.
      La bellezza di un artigiano è differenziarsi dall’industria, sia per marketing, sia per prodotto che per canale di acquisto/vendita.
      Nessuno si aspetta di trovare alcuni tipi di PASTA in GDO, o alcuni VINi o alcuni SALUMI ecc.
      L’industria e chi lavora per lei, è affascinato dal nostro settore e vuole definitivamente scardinare i nostri punti di forza, che oggi sono qualità, storia e limitazione del prodotto.
      Per concludere: noi vendiamo un prodotto, molte aziende vendono denaro mascherando l’operazione finanziaria in una vendita di merce… basta sapere come funzionano i sconti anticipati della birra e del mondo del caffè, cosa che NON troviamo in quasi nessun altro settore.
      Speriamo di rimanere una piccola fetta di mercato, ma di qualità e tornando a parlare di prodotto e produttori e meno di altro.

    • Sinceramente più che la GDO (che oggettivamente non è il canale adatto al momento per la vendita di prodotti sensibili a luce e calore come la birra artigianale) credo sia intelligente affidarsi a distributori affidabili (premiando chi lavora seriamente e con una giusta gestione di magazzino con celle e splitter),piuttosto che ostinarsi a vendite dirette che tante volte costano più in termini di logistica ed errori di posizionamento commerciale di quanto portino.
      Fare la guerra all’industria e poi andare in direzione della GDO mi sembra un po’ una mancanza di elasticità mentale.

  3. Articolo interessante e che fa riflettere.
    Come al solito facile evidenziare problemi e limiti, piu` difficile trovare le soluzioni.
    Non si e` parlato di vendita e promozione online?
    In teoria dovrebbe essere una strada obbligata se si vuole raggiungere clientela piu` ampia mantenendo il controllo (parlo da estraneo al settore)

    Saluti a tutti

  4. Il problema, a mio avviso, sta nella mancanza da parte di tanti birrifici di capacità commerciali e comunicative. Chiaro che servano anche capitali ma a volte basterebbe stringere accordi a livello locale.
    La GDO non è la strada da percorrere, salvo il prodotto vada su scaffali di piccoli supermercati locali ma ancora meglio in botteghe o simil negozi (di prodotti locali, panifici, salumerie ecc).
    Altro problema riguarda la ristorazione, mal preparata e svogliata in taluni casi, altri che mirano al facile guadagno immediato (vendo la tennent’s alla spina che mi costa meno).
    In questo caso serve un unione di intenti per proporre maggior birra artigianale ma a un prezzo inferiore. Chi spenderebbe 6 euro per una 0,33 in lattina in una normale pizzeria? Nessuno al di fuori dello sfegatato.
    Altro problema da risolvere è la reperibilità di tantissime birre…alcuni birrifici propongono spedizioni gratuite sopra gli 80 90 euro, altri se compri 40 euro ti mettono 12 15 euro di spesa che incide troppo.

  5. […] Come abbiamo visto in passato la nascita di nuovi marchi brassicoli è un fenomeno che in Italia si è molto ridimensionato negli ultimi anni. I motivi sono diversi e la mente va subito alla pandemia e all’aumento dei prezzi degli ultimi anni. In realtà ci sono anche (e soprattutto) motivi endogeni, come la fine della fase modaiola del nostro settore e l’elevata saturazione del mercato, che obbliga a ponderare bene le strategie d’ingresso nel mercato, supportandole con i giusti investimenti. Ciononostante le novità non mancano e oggi vi presentiamo quattro nuove realtà che si sono affacciate nel nostro ambiente in tempi più o meno recenti, comunque sempre circoscritti agli ultimi mesi. Chi tra essi garantirà un ricambio di qualità al nostro settore? I presupposti sono interessanti in tutti i casi menzionati, ma sarà possibile rispondere con precisione alla domanda solo nel prossimo futuro. […]

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