Quando ho mosso i primi passi nel mondo dell’homebrewing, ho cercato di farmi un minimo di cultura tecnica prima di iniziare a produrre. Ho letto diversi libri e individuato fonti di informazioni affidabili in rete, sistematizzando quello che apprendevo strada facendo. Più studiavo e più mi rendevo conto di non sapere, e la cosa mi innervosiva parecchio – sono pure sempre un ingegnere! Sembrava che su alcuni temi non esistessero risposte nette e precise, nemmeno chiedendo a fonti autorevoli: a un certo punto ero convinto di aver trovato la risposta definitiva, per poi scoprire subito dopo che qualcun altro, da qualche altra parte, in qualche altro momento, aveva sostenuto esattamente la tesi opposta. Ma come, mi chiedevo, la produzione della birra non si basa su ferree leggi chimiche? Con il tempo ho imparato che la risposta è che sì, certo, la produzione si basa su leggi chimiche, ma il punto cruciale resta la valutazione del risultato finale. E la birra, come il cibo o come il vino, è un prodotto difficile da valutare in modo oggettivo.
A parte pochi elementi caratterizzanti, come per esempio la limpidezza e la tenuta della schiuma, la valutazione della birra passa per l’apparato sensoriale di ciascuno di noi, il che rende illusorio qualsiasi processo di oggettivazione. Ci si prova, per carità, e sicuramente esistono diversi approcci validi per oggettivare il processo, ma le variabili in gioco sono talmente tante da rendere impossibile una valutazione diretta causa-effetto. C’è qualcuno che ci prova costantemente, come il team di Brülosophy, mettendo a confronto due birre prodotte partendo da ingredienti identici con un’unica variabile modificata: e, guarda un po’, il 90% di questi esperimenti (che consistono in assaggi alla cieca delle birre prodotte) non rileva alcuna differenza tra una birra e l’altra.
Insomma, chi entra nel mondo dell’homebrewing deve abituarsi all’idea di non avere risposte certe nella maggior parte dei casi. L’unica strada è provare le diverse strade valutando personalmente quella che si ritiene più vicina alle proprie inclinazioni. Chi non vuole perdere tempo a bollire il mosto per tre ore, può non farlo. Chi non ha dieci ore da dedicare alla cotta, può fare birra nella metà del tempo e anche meno. Insomma, a ognuno la propria strada. Oggi volevo toccare alcuni di questi temi su cui io stesso mi sono battuto negli anni, caldeggiando un approccio rispetto ad un altro; per poi scoprire inevitabilmente, a parte casi rari, che la verità non è da nessuna parte. La risposta è dentro di noi, come diceva qualcuno, epperò è sbagliata.
Decozione
La decozione è una variante produttiva che risale alla tradizione brassicola del centro-europa. Durante l’ammostamento, una parte dell’impasto viene prelevato dal tino e portato a bollitura per qualche minuto, per poi essere riversato nuovamente nel tino di ammostamento. Come molti altri aspetti della produzione, questa pratica è nata probabilmente da un’esigenza specifica: l’impossibilità di misurare la temperatura di ammostamento. Durante questa fase di produzione, infatti, gli enzimi dei malti riducono gli amidi in zuccheri semplici. Questa conversione può avvenire solo in un range specifico di temperatura che si muove all’incirca tra i 62°C e i 72°C. Temperature superiori disattivano gli enzimi, temperature inferiori non li attivano proprio. Senza il lavoro degli enzimi, l’amido non viene convertito in zuccheri semplici e il lievito non fermenta. Quindi niente birra.
Prima dell’invenzione del termometro, l’unico metodo per portare l’impasto di malto e acqua a una temperatura ben definita era la miscelazione con una parte dello stesso portata a bollitura. La temperatura di bollitura infatti è sempre la stessa, la miscelazione garantiva un innalzamento controllato della temperatura di ammostamento. Come effetto collaterale, la bollitura di una parte dei malti migliorava la solubilizzazione degli amidi distruggendo però al contempo gli enzimi dei malti bolliti. Poco male: una volta miscelati i malti bolliti con il resto, ci pensavano gli enzimi residui a lavorare sugli amidi. Si dice anche che senza questa particolare cottura (la bollitura, appunto) sia impossibile replicare il profilo organolettico tipico delle migliori lager tedesche o delle pilsner ceche. E qui scatta la diatriba: c’è chi afferma che le differenze organolettiche tra una birra prodotta con decozione e una prodotta senza non siano avvertibili e c’è invece chi, ovviamente, giura e spergiura il contrario.
L’unico aspetto incontestabile è che la decozione è un processo che porta via un sacco di tempo: bisogna prendere una parte dell’impasto durante l’ammostamento, metterlo in un’altra pentola, farlo bollire stando attenti a non bruciarlo (e questo non è per niente facile), rimetterlo nel pentolone e pregare di aver fatto bene i calcoli sui volumi per raggiungere la temperatura desiderata. Conviene sbattersi così tanto? Dipende. C’è chi predilige l’aspetto romantico della produzione, sognando di impersonare Josef Groll mentre nel 1842 brassa la prima Pilsner, traendo godimento fisico dalla replica del processo in se’ (se poi serve o non serve ad esaltare il profilo organolettico, poco importa). Non mi stupisce che dopo tutta questa fatica dichiari di percepire quel sottile aroma di malto che si sprigiona dal boccale, ma chi non lo direbbe dopo aver passato 12 ore davanti ai pentoloni? L’unica strada è provare e valutare di persona. Io sarò poco tradizionalista e poco romantico, ma la decozione ancora non l’ho mai provata.
BIAB vs metodo classico
Il tema della limpidezza ha sempre diviso gli homebrewer, soprattutto quando ci si riferisce alla limpidezza del mosto che viene portato in bollitura. Qui si crea la divisione tra i sostenitori dei due tra i più diffusi metodi di produzione casalinga: il classico sistema allgrain a tre tini e il suo cugino di primo grado Brew In A Bag (BIAB). Molti sono gli aspetti che differenziano questi due approcci alla produzione, ma quello che fa più discutere è che applicando il secondo metodo, il BIAB, si porta in bollitura un mosto torbido. Questo, a detta dei molti detrattori di questa tecnica, produrrebbe tutta una serie di effetti negativi non ben identificati sulla birra finita. Davide Bertinotti, uno dei padri fondatori della scena homebrewing italiana, notoriamente storce il naso di fronte a questo metodo.
Dalla sua, il BIAB ha come enorme vantaggio la compressione dei tempi di produzione (si possono ridurre anche di diverse ore) e la semplificazione notevole dell’attrezzatura necessaria. Tra gli svantaggi si cita spesso la possibile torbidità del prodotto finito, una scarsa tenuta della schiuma e una minore stabilità organolettica nel medio/lungo periodo. Saranno veri? E chi può dirlo. Anche in questo caso troverete detrattori accaniti di questa tecnica e grandi sostenitori (e non parlo dell’homebrewer sfigato di turno, ma di personaggi influenti in questo mondo che hanno opinioni diametralmente opposte). Senza volermi necessariamente schierare (viva il BIAB!), mi limito a dire che ho assaggiato birre notevoli prodotte con entrambi i metodi. E che illustri sostenitori e praticanti del BIAB hanno bazzicato le classifiche alte del campionato annuale MoBI per gli homebrewer.
Bolliture infinite
In genere il ciclo produttivo della birra prevede una bollitura che può andare dai 60 ai 90 minuti. Lo scopo principale di questa fase è l’estrazione dei composti amaricanti dal luppolo, ma gli effetti collaterali positivi sono molteplici: quasi completa sterilizzazione del mosto, volatilizzazione degli aromi indesiderati (tra cui il DMS, l’aroma di mais bollito), la denaturazione di alcune proteine che si trasformano in proteine utili a sostenere la schiuma e la precipitazione di altre sul fondo della pentola (chiarificazione e pulizia della birra). Con bolliture più lunghe di 90 minuti non si ottiene un’amplificazione di questi effetti (tranne forse la sterilizzazione completa del mosto per via l’uccisione delle spore, che comunque sono innocue se finiscono nella birra).
In molti però sostengono che per produrre un’autentica scotch ale o un barley wine sia necessaria una lunga bollitura del mosto (dalle 2 alle 3 ore). Questo prolungamento della bollitura porterebbe alla formazione dei composti aromatici di Maillard (note tostate e caramellate) che caratterizzano questi stili di birra. Da un punto di vista chimico è abbastanza chiaro che qualcosa succede (il mosto infatti si scurisce leggermente) ma quanto gli aromi prodotti in questo modo siano caratterizzanti nel prodotto finito è tutto da discutere. Tra l’altro, l’aggiunta di una piccola quantità di malti tostati in ricetta potrebbe facilmente produrre aromi del tutto simili (le razioni di Maillard avvengono anche durante la tostatura del malto d’orzo). Vale la pena allungare la bollitura di una o due ore quando si produce birra in casa? Già seguendo il processo standard si passano dalle 5 alle 10 ore davanti ai fornelloni, chi è quel matto che si mette ad allungare ancora di più i tempi? Ovviamente lo si fa se ne vale la pena, ma il risultato in questo caso è tutt’altro che evidente.
I travasi
Travaso sì o travaso no? Ma travaso da dove a dove? Perché? Di cosa stiamo parlando? Partiamo dalla definizione: nella produzione di birra, e in particolare in ambito casalingo, si definisce travaso lo spostamento della birra completamente o parzialmente fermentata da un fermentatore a un altro. Perché si fa questo travaso? Principalmente perché con il travaso ci si lascia dietro una parte dei composti solidi che durante la fermentazione si sono depositati sul fondo del fermentatore: lievito, residui di luppolo e altri composti organici (proteine, polifenoli, etc etc). È indubbio che a lungo andare questi depositi, precipitati sul fondo in grande quantità a seguito delle fermentazione primaria, potrebbero apportare aromi indesiderati alla birra (aromi solforosi derivanti dall’autolisi del lievito, per dirne una, o astringenza da polifenoli). Il punto è: quanto dura questo lasso di tempo dopo il quale si iniziano a correre dei rischi? Per alcuni è una settimana, per altri due, per altri ancora un mese.
Chiaramente, e ormai credo non vi stupirete di ciò, non esiste una indicazione precisa valida a prescindere. Per fortuna però negli ultimi tempi molti homebrewer si sono resi conto che i testi che consigliano travasi dopo una o due settimane sono vecchi, e che nelle nuove edizioni questo tempo medio è stato esteso a un mese circa. Pensate che solo cinque anni fa, quando entrai nel mondo dell’homebrewing, questo tema era ancora molto controverso (all’epoca scrissi un post che suscitò un acceso dibattito). Al solito, c’era chi giurava e spergiurava di aver sentito aroma di autolisi da lievito nelle birre non travasate dopo due settimane, ma anche chi non travasava e dichiarava di produrre birre ottime. A chi dare ragione? Ad oggi molto è cambiato, per fortuna, e questo aspetto è meno controverso. Sono tutti più o meno d’accordo che meno si travasa meglio è, soprattutto nell’ottica di evitare infezioni e ossidazioni (e perdite di tempo, aggiungo io); a meno che non si tenga la birra nel fermentatore per più di 4/6 settimane, cosa che accade di rado (più che altro nelle produzioni molto alcoliche). Visto? Almeno una controversia possiamo definirla quasi risolta (adesso attendo con ansia il primo che mi contesta nei commenti).
Nel complesso forse ne siamo usciti con più dubbi di quanti ne avessimo prima di avventurarci in questo viaggio, ma io vi avevo avvertito. Naturalmente i temi controversi non sono solo questi, ma come prima selezione ci può stare. Ve ne vengono in mente altri? Avete qualche certezza da condividere?
Ciao! Un altro tema controverso: hop bag si o hop bag no?! Luppolo in pellet o in coni?
Grazie, e complimenti.
Mauro!
Eh eh, così andiamo un po’ sul tecnico… 🙂
Grande Francesco! Se parlassimo di sanificazione poi ci sarebbe da scrivere un articolo a parte: c’è chi usa tecniche da sala operatoria e si vanta di non aver mai avuto un’infezione…poi al primo accenno di gushing va in depressione e inizia a guardare male l’amico che imbottiglia nel pollaio e non ha mai avuto un problema. Hai ragione tu: bisognerebbe valutare oggettivamente le birre prodotte con i diversi metodi perché un sacco di amici mi dicono che fanno birre buonissime senza correggere il ph, sanificare le bottiglie, misurare la OG, idratare il lievito, ossigenare il mosto ecc ecc… Chissà perché però queste birre senza un difetto non le fanno mai assaggiare a nessuno! ahahahahah
Con tutto il rispetto per l’autore, ma l’articolo sopra si basa su considerazioni errate. In primo luogo la birrificazione non è un processo puramente chimico, ma micro biologico e pertanto a differenza di un processo chimico dove 1 + 1 fa 2, è governato dalla legge del caos, dato dalle innumerevoli variabili presenti.
Inoltre io in tutte le cose che faccio, tengo sempre presente una basilare regola di vita: per fare le cose, tutte le cose, ci sono 1000 sistemi, di cui 999 sono comunque sbagliati e solo uno è quello giusto. Pertanto chiedersi a cosa serva la decozione o le bolliture prolungate o le mille altre questioni che ci possiamo porre, presuppone una scarsa conoscenza del tema, normalmente insita in ambito hobbistico.
Per sapere queste cose, non è che ci si debba affidare ai consigli dell’esperto di turno o pseudo tale o sposare una o l’altra delle varie scuole di pensiero. Esistono nel mondo delle scuole accreditate, che rilasciano delle belle lauree e li s’insegnano le procedure corrette e si spiegano i perché di tali procedure. Dici di essere ingegnere, per diventarlo ti sei affidato ad internet o sei andato in una scuola dove rilasciavano lauree di quel tipo? Quindi perché il fare birra dovrebbe essere diverso? Perché credi che esistano questioni ancora oscure, dopo 6000 anni di storia birraria?
Poi è perfettamente comprensibile, che l’home brewer non abbia accesso a questo tipo di informazioni, ma che si affidi al marasma di tutto ed il contrario di tutto, che troviamo in internet.
Ma andiamo nel concreto, prendendo ad esempio la decozione. Questa procedura veniva un tempo adottata dalla totalità dei birrifici o perlomeno da quelli mittel europei, tempo in cui il costo di produzione era maggiormente rappresentato dal costo delle materie prime e non come oggi dal tempo, dalla manodopera e dall’energia utilizzata.
S’impiegava la decozione per sfruttare il più possibile le materie prime, cioè per estrarne tutto il disponibile, perché energia e manodopera erano costi, allora trascurabili. Ad ogni modo la decozione, rispetto all’infusione, consente di estrarre dal malto un maggior numero di destrine.
Queste sono zuccheri che non vengono metabolizzati dal lievito e pertanto rimangono nella birra sotto forma di gusto corposità, pastosità. Questo si può naturalmente ottenere semplicemente mettendo più malto. Più malto immesso, più destrine estraggo, ma mettere più malto significa immettere anche più zuccheri fermentescibili ottenendo inevitabilmente più alcool.
La decozione è un sistema, che caratterizza le birre prodotte con questa antica tecnica, per il fatto che le stesse pur mantenendo una bassa gradazione alcoolica a favore della massima facilità di bevuta, hanno un corpo che diversamente è possibile trovare solo in birre di gradazione molto superiore.
Come esiste un perché della decozione, Così esiste un perché di tutte le tecniche impiegate e se una birra richiede una lunga bollitura, c’è un perché e la stessa birra prodotta col metodo giusto e col metodo sbagliato non può avere che caratteristiche profondamente diverse.
Altro insegnamento di vita che tengo sempre presente è che tra un lavoro ottimo ed uno discreto la differenza sta nei particolari e la birrificazione rientra in questa definizione. Diverso invece il fatto di accorgersi di detti particolari. Normalmente sfido chiunque a non riconoscere la stessa birra prodotta per decozione o in infusione, se non hai il palato asfaltato si sente eccome. Ovvio che poi ci sono particolari e tecniche che incidono meno rispetto alla scelta tra decozione ed infusione, rientrando nella categoria: apporto sfumature.
E qui bisogna essere bravi per riconoscerle, solo che l’home brewer medio, ma aggiungerei anche il consumatore e un buon numero di birrai, non sa distinguere i difetti nelle birre, non conosce bene gli stili e le loro peculiarità. Infatti sono sempre più convinto che per fare birre, a qualsiasi livello, la prima cosa da imparare è bere. Naturalmente non nel senso della quantità, ma nel senso di riconoscere uno stile e i pregi e i difetti dello stesso.
Poi esiste l’escamotage, se non ho il tempo di fare la decozione, aggiungo malto destrine, no, non è la stessa cosa. L’escamotage o il compromesso non producono lo stesso effetto, magari ci si avvicinano, ma non raggiungono lo scopo. A prendere le scorciatoie sono capaci tutti, ma allora non si spiega come mai, molti birrifici ancora oggi, insistono a eseguire processi di cottura anche di 16 ore filate, per ottenere ciò che solo così è possibile ottenere e nemmeno si sognano di adottare una scorciatoia, che magari ti fa risparmiare decine di migliaia di euro l’anno, ma ti fa perdere volumi di vendita.
Tornando all’inizio, Francesco si sta basando su un tipo di valutazione errata, tipica di chi non dispone di tutte le informazioni necessarie e tratta dai ragionamenti che troviamo nei forum birrari, non è questo ne il metodo ne la fonte per avere le risposte che cerchiamo.
Parla con un mastro birraio uscito da una scuola birraria e ti spiegherà il perché e il percome dei dubbi che attanagliano gli home brewer. Questo lo scrivo, con il massimo rispetto per chi si sforza di fare cultura birraria.
Aggiungerei anche che questo tipo di ragionamento e di conclusioni, del tanto cosa cambia, tanto chi se ne accorge è il motivo per il quale abbiamo molte birre mediocri e poche fantastiche e che molti problemi che riscontro giornalmente nelle birre che assaggio e proprio dovuto al salto degli step, sport al quale molti birrai sono votati, perché tanto non se ne accorge nessuno. Io me ne accorgo e sicuramente non sono il solo. La birra dovrebbe essere a prova di esperto e non semplicemente contando su una base ignorante non in grado di distinguere.
Io sapevo(letto sul libro di Ray Daniels) che per aumentare la produzione di maltodestrine o “zuccheri complessi” basta effettuare la fase principale del mash a temperature più alte per ridurre la capacità degli enzimi di scindere le molecole.
Comunque brulosophy fa esperimenti molto interessanti e dubito che i cosiddetti “laureati della birra” abbiamo effettuato le stesse prove.
Un esempio banale che mi viene in mente è il tipo di contenitore per la fermentazione. Scommetto che le sue doti sopraffine le permettano di scoprire anche se una birra è fermentata in inox o pet.
Per fortuna nel corso degli anni le cose sono cambiate e avverranno ancora altre “rivoluzioni” nel mondo birraio. Comunque non penso che nel mondo accademico ci siano segreti nascosti da secoli, il problema è non porsi dubbi ed andare avanti con “perché così si è sempre fatto!” bagnandosi di certezze divine.
I migliori birrai non lo sono diventati grazie ad un foglio di carta, ma attraverso l’esperienza e questa si traduce in centinaia di prove eseguite per capire cosa funziona e cosa no. Ma l’esperienza è individuale, il web sta permettendo la condivisione e il confronto quindi prima o poi attraverso questo scambio si arriverà a definire se alcune variabili incidono o meno sul risultato finale.
Come sempre in questi casi, c’è chi non avendo a disposizione altre informazioni, diverse dal marasma internet, non riesce a distinguere tra una scuola professionale ed un forum d’appassionati.
Cioè per qualsiasi altro settore la cosa è risaputa, nessuno auspica l’arrivo di medici fai da te, ma se parliamo di birra, una laurea in merito è spesso mal vista da qualcuno. Non sia mai che un laureato in una materia, possa saperne di più di uno che smanetta con secchi e pentole.
Ray Daniels ha ragione, infatti la decozione consiste proprio in questo, ma in modo estremizzato.
Scrivi che Brulosophy fa esperimenti interessanti e dubiti che i cosiddetti laureati della birra abbiano effettuato le stesse prove. Questa frase è un concentrato di non conoscenza e del non sapere come funziona una qualsiasi scuola. Le scuole e gli insegnamenti che impartiscono, sono un enorme archivio di esperimenti compiuti in 6000 anni di storia birraria, compiuti da tutti i popoli di tutte le epoche. In pratica tutto ciò che di buono è uscito dagli esperimenti svolti nei millenni è ciò che si insegna nelle scuole.
Questo serve non per smettere di sperimentare, tutt’altro, serve invece a non ripetere esperimenti già fatti, i quali esiti sono stati catalogati ed archiviati, con tanto di risultati positivi o negati che siano. Il lavoro di Brulosophy è bellissimo ed interessantissimo, ma è del tutto inutile a chi ha accesso all’immenso archivio di sperimentazioni, costituito dalle scuole birrarie.
Oltretutto i “laureati della birra” sono i mastri birrai, non esseri leggendari di cui qualcuno giura avvistamenti. Le mie doti sopraffine, come le chiami, derivano da corsi di degustazione svolti all’estero e consentono di riconoscere la tipica ossidazione che affligge, non tanto la fermentazione in plastica, ma derivata dai travasi che con questi si eseguono, che non vengono invece eseguiti in serbato d’acciaio dove invece si spurga e non si ossida.
Comunque conosco un mastro birraio, che al semplice assaggio ti dice in che tipo di serbatoio è stata fermentata una birra, se fermentatore o unitank, tanto per dire. Non è che se una cosa non riesce a noi, sia del tutto impossibile, cerca e troverai quasi sempre un professionista, che ritiene quelle cose da noi catalogate come improbabili, come l’assoluta normalità.
Scrivi anche di esperienza, ci sarebbe da scrivere dei trattati sull’esperienza, ma permettimi di chiarire qualche concetto a riguardo, in merio all’esperienza. Se uno parte da zero, caso normale in ambito casalingo, sperimenta, sperimenta e cerca di capire, senza avere nozioni in merito, sui risultati.
Chiediti: è in grado, qualcuno che parte da zero di giudicare la bontà o meno di una procedura, rispetto ad un’altra? Su che basi sperimenta, uno che non ha idea di come funzioni e delle leggi che regolano, la cosa sulla quale sta eseguendo esperimenti?
Ecco perché è fondamentale, avere una base teorica, che consenta di capire cosa effettivamente si stia facendo e che raccolga tutte le sperimentazioni fatte in precedenza e che non hanno portato i risultati sperati, per evitare d’imboccare inutilmente vicoli cechi, già percorsi da altri e concentrarsi invece sul fattibile in luogo dell’inutile.
Quando si consegue il pezzo di carta, come lo definisci, anche se parliamo di una laurea e non di un kleenex, non si esce dalla scuola e si entra nella sala cottura di un birrificio. Chi consegue questa laurea, verrà infatti assunto come mastro birraio apprendista e i suoi compiti saranno la pulizia dei pavimenti, la sanitazione dei serbatoi, lo scarico e lo stoccaggio delle materie prime.
Dopo qualche anno, quando il mastro birraio titolare, andrà in pensione ed il suo mastro birraio assistente diventerà titolare, lui potrà diventare assistente, coadiuvando il titolare nella produzione e quando anche questo titolare andrà in pensione, lui potrà finalmente diventare titolare e produrre birra. Nelle fabbriche di birra sono infatti presenti almeno tre mastri birrai laureati e prima che il nuovo assunto possa produrre, ci vorrà qualche decennio d’ESPERIENZA. Nel settore artigianale invece vediamo gente che dopo dieci cotte a casa, condivise con parenti ed amici, apre un birrificio e produce, oltre naturalmente a pretendere di sperimentare.
Ora dimmi chi detiene l’esperienza, tra i due casi? Il web se da una parte è una fonte inesauribile di informazioni è una fonte inesauribile di disinformazioni, cioè da informazioni sbagliate, scritte da elettrauto, commercialisti, falegnami, maniscalchi e fabbri, appassionati di birra.
Il web oltre alla condivisione, sta permettendo il diffondersi di informazioni completamente sbagliate, scritte da chiunque. Prima del web ciò non avveniva, le cose o le sapevi, perché avevi studiato o semplicemente non le sapevi. Questo senza nulla togliere la web, ma non si diventa medici con wikipedia.
Nelle birre come nella vita ci sono sempre diverse strade per raggiungere l’obiettivo, la cosa che conta è sapere la differenza delle diverse vie e dove si vuole andare. A volte ( non sempre ) decidere in modo alternativo fa fare un passo in avanti come qualità, metabolizzata la tecnica di va a cercare se si può replicare in altro modo. È questa curiosità che ha portato alla nascita dei nuovi stili. Passo dopo passo.
Salve a tutti…io credo che l’unico metodo oggettivo x confrontare seriamente in dato processo si possa sviluppare in vari punti
1 fare ina doppia cotta della stessa birra con lo stessi materiali DEGLI STESSI LOTTI
2 COOSCERE molto bene i processi produttivi (es Decozione e infusione )
3 far fare delle analisi visive olfattive gustative e di stabilità a CHI veramente ne sa,non da gente improvvisata
LA DOMANDA È. …QUANTI HB LO FANNO?
Brassa e fai quello che vuoi, è il bello del HB.
Ciao Ilaria! No, il travaso non serve nella maggior parte dei casi, anche con tempi di permanenza più lunghi. A tal proposito, ti consiglio di leggere questo: https://brewingbad.com/2014/02/la-psicosi-collettiva-del-travaso/.
Se la fermentazione dura circa 2 settimane, è necessario fare il travaso oppure si può fare tutto in un fermentatore?
Io sono un’amante delle birre torbide e quindi la limpidezza non sarebbe un problema. Mi chiedevo però se anche con una fermentazione relativmaente breve si rischia di compromettere il sapore se non si fa il travaso.
Ciao! 🙂
Ciao, leggo con piacere questo genere di articoli. Mi sono sempre enormemente rotto i cojones a travasare, due volte, ogni cotta. Ma mi sono anche sempre chiesto perchè si parlasse di problemi di ossidazione quando, appunto, si ritenevano nacessari due travasi che ossidano alla grande, salvo poi adottare accortezze a mio modo di vedere trascurabili rispetto l’ossidazione già avvenuta.
Ho iniziato a brassare dopo molti anni, da poco, e mi sono reso conto di come adesso sia esattamente l’opposto: tutti che fermentano in isobarico. Se non imbottigli in contropressione con vuoto non sei nessuno. Più leggo in giro, e più mi sale l’ansia: sembra che lasciare un dito di aria in un Keg significhi compromettere il prodotto in modo irrimediabile.
Sapete cosa vi dico? Che io continuo a fare di testa mia, faccio errori, sbatto la testa, e tendo di correggere con tempi e risorse compatibili a quello che è un Hobby, con il quale dobbiamo prima di tutto divertirci e poi, se possibile, fare della buona birra.
Probabilmente non ho il palato così fine, e sono di bocca buona, ma io tutti sti problemi di ossidazione, senza fare travasi e lasciando un po d’aria nei Keg, non li sento. Devo ammettere che mi passa un po la voglia di condividere la passione come altri homebrewer sul Web, dove più che passione mi sembra di assorbire ansie.
Guarda Mirco, io sono assolutamente d’accordo con te. Anche per me questo rimane un hobby, e come tale lo lascio evolvere secondo le mie disponibilità economiche, di spazio e di tempo. Sono passato da poco ai trasferimenti in contropressione ma gradualmente, sempre nell’ottica di non complicarmi eccessivamente la vita e di lasciar valutare al mio palato piuttosto che al “sentito dire”. Miglioramenti ne ho ottenuti, soprattutto in certi stili, ma devo dire che molto è dovuto al fatto che ho sempre cercato di produrre minori volumi, con meno fatica ma più spesso possibile. E di assaggiare molto. Senza pregiudizi verso un modo di fare birra o l’altro. Per me, la birra e la socialità rimangono sempre al centro di questo hobby, la componente “ingegneristica” è solo funzionale all’obiettivo. Poi ovviamente c’è chi si diverte più a “smanettare” che a fare e bere birra, e va assolutamente bene anche quello. Solo che non è il mio modo di vedere questo hobby, e nemmeno l’unico possibile. A ognuno il suo. Buona birra!
Visto che hai lanciato la palla la colgo al balzo…. rispetto al travaso: ho avuto problemi di gushing nelle prime birre che ho prodotto con il metodo all grain. Nelle altre avendo effettuato il travaso questo problema sembra risolto. È vero che le cause del gushing possono essere molteplici però fra queste c’è la presenza di “corpi estranei “ nella birra. Pur essendo d’accordo che il travaso causa ossidazione ti permette di eliminare questi “corpi estranei”
Ciao Pietro, indubbiamente i corpi estranei possono agire da punti di nucleazione e favorire il gushing, ma la birra deve esse già parecchio carbonata di suo altrimenti l’effetto è blando. Poi, dipende quali corpi estranei: pezzi di luppolo più o meno grandi possono avere questo effetto, il lievito ad esempio meno. Il travaso non aiuta particolarmente a rendere la birra più limpida, esistono modi per evitare di portarsi dietro il fondo anche senza travaso coem ad esempio sifonare dall’alto o inclinare il fermentatore leggermente all’indietro in fase di cold crash, in modo che i residui si depositino lontano dal rubinetto. A ogni modo, se una birra è fatta bene e non sovracarbonata, anche qualche pezzetto di luppolo al suo interno non genera gushing.