A ottobre 2013 pubblicai un articolo in cui riprendevo la notizia della nascita del primo birrificio trappista americano. Chiaramente mi riferisco alla Spencer Brewery dell’abbazia St. Joseph di Spencer (Massachussets), che all’epoca portò in doppia cifra il numero di produttori trappisti attivi sul pianeta. Nella famiglia dei birrifici che possono fregiarsi del famoso bollino esagonale, Spencer ha sempre rappresentato una realtà sui generis, e non solo per essere l’unico al di fuori del continente europeo. In particolari negli ultimi mesi ha iniziato a caratterizzare la sua gamma per tipologie tradizionalmente non associate alla cultura brassicola trappista: a inizio anno lanciò una Russian Imperial Stout; recentemente invece ha annunciato la prima IPA trappista al mondo. Un passaggio che molti, considerando le caratteristiche del mercato americano, avevano ritenuto praticamente scontato.
Come riporta Beer Advocate, a detta degli stessi protagonisti la Spencer Trappist IPA (7,2%) rappresenta una novità assoluta per le tradizioni della birra trappista e una sfida dura ma affascinante. Se escludiamo la già menzionata Russian Imperial Stout, in effetti fino a oggi le birre dei frati cistercensi della stretta osservanza hanno sempre tratto ispirazione della cultura belga. E ovviamente non è un caso, poiché la maggior parte dei birrifici trappisti è concentrata in Belgio ed è da lì che arrivano i migliori prodotti con l’esagono in etichetta: inutile menzionare nomi come Westvleteren, Orval, Westmalle e Rochefort.
Anche i birrifici aggiuntisi di recente nel novero dei trappisti hanno seguito gli insegnamenti della scuola belga. L’austriaco Engelszell partì nel 2012 con una Belgian Ale e una Quadrupel, mentre l’olandese De Kievit produce una sola birra appartenente allo stile delle Tripel. Sempre alle Tripel – sebbene sia aromatizzata con eucalipto – si ispira l’unica creazione dell’italiano Birrificio Tre Fontane, così come la Cardeña del neo-trappista San Pedro de Cardeña in Spagna. In aggiunta, le prime produzioni dello stesso Spencer furono dettate dalle tradizioni birrarie del Belgio: la birra di debutto (Spencer Trappist Ale) fu una Belgian Ale, cui seguì una natalizia ispirata alle classiche kerstbier.
Questa costante si spiega anche per un altro motivo. Le varie comunità trappiste sparse per il mondo sono solite mantenere legami piuttosto stretti e supportarsi a vicenda, che nel caso della produzione birraria significa condividere il proprio know how (e spesso anche birrai e alcuni ingredienti, come il lievito). Una delle prime difficoltà con cui si dovranno scontrare i monaci di St. Joseph sarà quindi la mancanza di un aiuto da parte di altri birrifici trappisti, perché fino a oggi nessuno di loro ha mai creato un’India Pale Ale.
Questo aspetto ha spinto i frati a investire molto tempo nella fase progettuale, realizzando 15 cotte di prova sull’impianto di produzione e assaggiando una miriade di IPA presenti sul mercato per concentrarsi su aroma, amaro e note agrumate e resinose. Il risultato sarà un profilo aromatico distintivo nel mercato delle IPA, leggermente modificato per andare incontro ai loro gusti.
Un altro ostacolo è arrivato dal tipo di processo produttivo, che è relativamente diverso da quello di birre di stampo belga. Secondo il birraio Larry Littlehale alcuni passaggi, come la fase di dry hopping, sono risultati particolarmente ostici, mentre altri aspetti (rifermentazione, imbottigliamento) hanno introdotto diverse novità rispetto alle metodologie consolidate dai frati.
La sfida più difficile, però, sarà probabilmente rappresentata dal confronto sul mercato con migliaia di altre IPA, molte delle quali di ottima fattura. La scelta di Spencer è particolare: ha preferito seguire uno stile più mainstream, con tutti i rischi ad esso associati, invece che continuare nella sua strada meno immediata, ma identificata da tipologie più caratterizzanti a livello di immagine. Una strategia commercialmente comprensibile, ma che spesso proprio per questo rimane lontana dalle logiche e dalla filosofia dei birrifici trappisti. O forse è semplicemente il desiderio di inserire in gamma un legame con la realtà brassicola di provenienza.
Per il momento l’unica sicurezza per noi appassionati italiani (ed europei) è che per assaggiarla al massimo della sua forma bisognerà viaggiare negli States. Triste regola “fisiologica” che vale praticamente per ogni birra proveniente dall’America.