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La birra transgender segna il definitivo declino creativo di Brewdog?

Risale a qualche giorno fa l’ultima trovata di Brewdog: l’annuncio della prima birra transgender al mondo, battezzata No Label. Ma cosa significa questa definizione? Fondamentalmente niente: tanto per cambiare l’obiettivo del birrificio scozzese è far parlare di sé, partendo da presupposti di tipo brassicolo per costruire una storia dai toni sensazionalistici. In questo caso l’espediente è l’impiego di luppoli che prima del raccolto hanno cambiato sesso (da femmine a maschi), utilizzati da Brewdog:

Per enfatizzare che, proprio come gli umani, la birra può essere qualsiasi cavolo di cosa desidera essere, e ne va orgogliosa.

Se mentre scorrete le parole la vostra espressione sta diventando sempre più interrogativa, è assolutamente normale. La domanda è: ma stiamo parlando di birra o cosa? E l’impressione è che ormai da tempo Brewdog abbia smesso di trattare aspetti prettamente brassicoli per concentrarsi esclusivamente su notizie ad effetto. Il marketing aggressivo e scandalistico è stato lo strumento vincente che ha trasformato un piccolo birrificio della Scozia in un gigante della birra; ora però è evidente che Brewdog è diventato schiavo di sé stesso e dell’unico modo che ha di relazionarsi con i suoi interlocutori.

La No Label non è dunque una birra, è principalmente un mero strumento di promozione. Per fortuna con un obiettivo secondario ammirevole: tutti i ricavati dalla vendita della birra saranno donati all’associazione Queerest of the Queer, che si batte da anni per la comunità LGBT. Ma il proposito non cancella le perplessità su un’operazione che, per ragioni diverse, non è piaciuta nemmeno ad alcuni esponenti della comunità a favore della quale è ideata: c’è chi ha criticato il linguaggio utilizzato, troppo approssimativo, e chi vi ha visto un goffo tentativo di riscattarsi dalle critiche ricevute in passato dalla stessa Brewdog per una campagna che avrebbe leso la dignità dei senzatetto e dei trans.

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A noi questi discorsi interessano il giusto e preferiamo concentrarsi sulla birra e sulle scelte del birrificio. Un birrificio che – usando un’espressione cara a un famoso birraio italiano – sembra aver “saltato lo squalo” ormai da tempo. Costretta a fare i conti con la maschera che si è costruita in questi anni, Brewdog appare assolutamente a corto di idee. La birra transgender non è che l’ultimo improponibile artificio di un processo creativo che ha consumato sé stesso e che si è progressivamente allontanato da concetti puramente brassicoli. Ormai l’immagine di Brewdog non è più legata a quanto accade in sala cotta, ma a ciò che viene deciso negli uffici del marketing per conquistare titoloni sui giornali e “mi piace” su Facebook.

Ma se il punto di non ritorno di Happy Days ha coinciso con il salto dello squalo da parte di Fonzie, in quale momento è invece cominciato il declino di Brewdog in termini di credibilità? Personalmente ricordo che quando i prodotti del birrificio scozzese giunsero in Italia, vennero accolti con un certo interesse e con giudizi nel complesso discreti. A giugno 2009 noi Domozimurghi Romani organizzammo una serata Brewdog al Cantine Blues e in quell’occasione bevvi una delle migliori Golden Ale di sempre, la Trashy Blonde. Quasi un anno prima allo Stout & Porter Fest ospitato dal Bir&fud, la Paradox fu eletta migliore birra della manifestazione. Ma era un’epoca diversa: Brewdog era ancora lontana anni luce dagli eccessi di oggi (da tutti i punti di vista) e faceva parlare di sé solo per le sue birre.

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Se non sbaglio il primo caso di attenzione mediatica arrivò con la Tokyo (era luglio 2008), che finì sotto le luci dei riflettori a causa del suo tenore alcolico elevato. In realtà era una “semplice” Imperial Stout da 12% di alcol (quindi niente di sconvolgente), però attirò le critiche dei neoproibizionisti finendo sulle pagine del Daily Mirror, del The Sun e del Financial Times. La vicenda ovviamente portò più vantaggi che rogne a Brewdog, al punto che i due fondatori probabilmente mangiarono la foglia e iniziarono a cavalcare la tattica del sensazionalismo.

A inizio 2009 arrivò un’altra grana dal grande richiamo mediatico: le autorità del Regno Unito decisero di bandire la Speedball dagli scaffali dei supermercati. Brewdog aveva battezzato la birra col nome di un famigerato mix di cocaina ed eroina, sperando evidentemente di ottenere un effetto del genere. La birra cambiò nome (Dogma), ma intanto l’azienda scozzesse acquisì ulteriore visibilità. E ormai il dado era tratto: Brewdog cominciò a ragionare su ricette sempre più assurde – come una IPA prodotta in mezzo all’oceano per riproporre il gusto delle antiche IPA – e sul modo di stuzzicare l’opinione pubblica. Personalmente la prima volta che storsi la bocca fu con la How to Disappear Completely, definita “Imperial Mild”. Dentro c’era tanta immagine e poca sostanza: vagonate di luppolo (198 IBU), provocazione (come si può definire “Imperial” una Mild?), risposta alle accuse dei mass media (3,5% alc.).

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E poi cominciò la tediosa lotta alla birra più alcolica del mondo, nella quale Brewdog trovò come rivali i tedeschi di Schorschbrau. Per alcune settimane i due birrifici si alternarono come detentori dell’inutile primato, finché fortunatamente la sfida perse d’interesse. L’episodio fu un trionfo di sensazionalismo: gradi alcolici sparati senza senso, siparietti in costume dal dubbio gusto, slogan da terza media. Probabilmente fu quello il momento in cui Brewdog saltò lo squalo

Nel frattempo cambiarono le ricette (in primis quella della Punk Ipa), furono adottate le lattine, aprirono i primi Brewdog Bar e arrivò persino la serie televisiva con protagonisti i due fondatori. La birra in quanto tale passò sempre più in secondo piano per lasciare spazio ad altre questioni (in particolare la guerra contro l’industria). Le trovate di marketing si susseguirono senza soluzione di continuità ma parallelamente persero di mordente: personalmente smisi di scrivere di Brewdog salvo in casi eccezionali.

Brewdog rappresenta un caso di studio senza precedenti: è l’azienda con il ritmo di crescita più rapido di tutto il settore enogastronimico del Regno Unito. È forse l’unico caso al mondo di birrificio craft realmente mainstream: a dirla tutta non è nemmeno più un birrificio, ma un brand trasversale sempre meno legato al suo settore di origine. Ha avuto anche i suoi meriti in passato – e probabilmente sono più di quanto si voglia ammettere – ma al momento attuale sembra malinconicamente privo d’identità e schiavo di sé stesso.

E per voi quando è cominciato il declino di Brewdog?

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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12 Commenti

  1. Altrove ho letto che hanno scelto come stile la Kölsch poichè è uno stile “a metà tra Ale e Lager”…ora però, secondo questa strana logica (che è solo marketing, ovviamente), urge sapere chi tra Ale e Lager corrisponde ad un maschio normale e chi ad una femmina normale ahah 😀

  2. Sull’argomento, segnalo questa recensione di Martyn Cornell del libro Business for Punks recentemente pubblicato da James Watt e soprattutto la frase con cui Martyn chiude l’articolo “Ironically, considering it has always been an accusation made about the consumers of mega-brand beers, BrewDog drinkers really are drinking the marketing first, and the beer second.” https://www.linkedin.com/pulse/best-selling-business-advice-from-brewdog-martyn-cornell

      • Secondo me è vero se si parla di BrewDog drinkers convinti, fans veri e propri. Comunque il punto per me è proprio “negli ultimi anni”. Sono partiti da una accusa e in quella, secondo me, sono alla fine inciampati. Ormai si tengono come ultimo paletto solo il “non vendersi a una big corporation” e forse il “non fare advertising in TV”, ma di paletti veri, dogmi forti e “watticismi” autentici ne avevano decisamente molti di più agli inizi.

  3. Personalmente penso semplicemente che su alcune etichette (Punk Ipa) abbiano abbassato notevolmente la qualità (l’ultima che ho bevuto sembrava tutt’altra birra). Per altre (Jack Hammer) sono rimasti piu o meno gli stessi. Quindi staranno ragionando….Una Punk Ipa prodotte a cataste perchè è un brand riconosciuto, qualche altra cerchiamo di lasciarla cosi com’è. Il profitto inizia ad avere realmente un suo valore. E ora come ora, anche loro hanno un peso specifico sull’economia brassicola della Gran Bretagna

  4. Mi ricorda lo “stile” Red Bull..
    Non si può fare niente, ormai chi vuole vendere deve investire moltissimo sul marketing e molto spesso ne risente il prodotto finale!

  5. “Non di sola birra vive il birrificio”.

    Comunque se guardiamo alla produzione di Brewdog esce una birra nuova (che sia solo un esperimento, solo una cotta o solo un cambio di qualche ingrediente da una birra nota) ogni mese, con tanto di newsletter, offerte speciali sul sito ecc ecc.

    Se da un lato può far storcere il naso ai “puristi” penso che il marketing (dall’etichetta alle campagne social) sia fondamentale per portare avanti la produzione di un birrificio.
    Quanti birrifici, con birre magari sopra la media, sono costretti a chiudere semplicemente perchè non sanno vendere il loro prodotto?

    Detto questo, per me Brewdog a volte esagera, come detto da te, Andrea. La birra transgender non è nient’altro che una trovata pubblicitaria, sono d’accordo.
    Ma la pubblicità e il marketing danno la possibilità di sperimentare, di non porsi limiti (come hanno sempre fatto) senza doversi fare i conti in tasca tutti i mesi.

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