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Nuove birre da Babylon, Altotevere, Vulture, Sguaraunda e Birrificio dell’Etna

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Cominciamo la panoramica di oggi sulle nuove birre italiane di Babylon, che è senza dubbio uno dei birrifici più attivi tra quelli aperti di recente in Italia. Ultimamente il produttore marchigiano ha annunciato un paio di novità, tra cui la sua prima collaborazione internazionale realizzata con i brasiliani di Daoravida. Come forse ricorderete proprio dal Brasile, e in particolare dallo stato di Santa Caterina, arriva uno degli stili “provvisori” introdotti dal BJCP la scorsa estate: quello delle Catharina Sour, birre assimilabili a Berliner Weisse più forti del normale e aromatizzate con frutta esotica. Una specialità con la quale lo stesso Babylon si confronta da sempre – la linea Erasmus è dedicata proprio a creazioni di questo tipo – e che ha perciò creato una sorta di affinità elettiva con i colleghi brasiliani. Il risultato è la Aruake Malabar (4,8%), acidificata con lattobacilli e caratterizzata dall’aggiunta di goiaba (guava) e cocco. Il due frutti lavorano in maniera complementare: il primo enfatizza l’acidità marcando l’aroma, il secondo bilancia con note dolci molto persistenti.

Esiste una definizione di terroir nella birra?

Non capita di rado di ascoltare il termine “terroir” associato al mondo della birra. Ci sono birrifici che ostentano questa espressione come un loro vezzo, se non addirittura come l’architrave della propria filosofia produttiva, intendendo la predisposizione a produrre birre associate alla rispettiva zona di origine. Ci sono workshop a tema che indagano il terroir di alcune produzioni artigianali, concentrandosi sulle regioni di provenienza e sugli ingredienti utilizzati. C’è poi il fenomeno – giovanissimo in Italia – della coltivazione del luppolo, che spesso si prefigge come obiettivo ultimo (e aggiungerei utopistico) la creazione di una varietà autoctona in grado di esprimere un “terroir birrario”. Insomma questa parola è spesso utilizzata a sproposito ed è giusto chiedersi quanto abbia senso ricorrervi per la nostra bevanda. Esiste un terroir nella birra? Oppure è una forzatura ampiamente evitabile?

Aperte le iscrizioni a Birra dell’Anno 2019: tutte le novità del concorso di Unionbirrai

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Lunedì scorso Unionbirrai ha ufficializzato l’apertura delle iscrizioni all’edizione 2019 di Birra dell’Anno. Si tratta del più importante concorso nazionale sulla birra artigianale, al quale possono partecipare tutti i produttori rientranti nella relativa definizione legislativa. Esiste dal 2005 ed è strutturato come molte iniziative analoghe: i birrifici sono chiamati a iscrivere le proprie birre assegnando ognuna a una delle categorie previste dal regolamento, che poi vengono valutate da una panel di giudici italiani e stranieri; per ogni categoria viene stilato un podio e premiate le rispettive produzioni. Il contest prevede inoltre l’attribuzione del titolo di “Birrificio dell’anno” in base ai piazzamenti ottenuti nelle varie categorie. Rispetto ad altri concorsi, la particolarità di Birra dell’Anno è di concentrarsi esclusivamente su produzioni nazionali, fornendo dunque un valido affresco della scena brassicola italiana.

Tre nuovi libri dedicati alla birra

Gli articoli di Cronache di Birra incentrati sulle novità editoriali di settore non sono molto frequenti: i libri dedicati alla nostra bevanda escono con il contagocce e spesso conviene rivolgersi alle pubblicazioni in lingua straniera. È perciò quasi confortante ritornare sull’argomento dopo “soli” sette mesi, presentando altre tre letture inedite che sono da poco disponibili in libreria (o in canali di vendita alternativi). Come vedremo gli argomenti trattati sono molto diversi tra loro: un paio di libri si concentrano su scene birrarie circoscritte a una determinata zona d’Italia (pur in maniera diversa) e un altro affronta il tema da un punto di vista storico.

Nuove birre da Hammer, Croce di Malto, Eternal City Brewing e altri

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In questo inizio di novembre il birrificio Hammer cala una coppia di novità con le quali apriamo la panoramica di oggi sulle nuove birre italiane. La prima si chiama West Coast Double IPA (7,5%) e come molte creazioni inedite del produttore lombardo è momentaneamente iscritta nella gamma “intermedia” denominata Workpiece. Come il nome suggerisce si tratta di una Double IPA brassata sul modello della West Coast americana, dalla quale il birraio Marco Valeriani trae da sempre ispirazione: malto Pils (con un tocco di Cara), luppoli statunitensi (Citra e Simcoe), lievito American Ale e del destrosio per snellire il corpo. Profilo pulito, grande intensità aromatica e gustativa, facilissima da bere nonostante il contenuto alcolico. Sarà presentata venerdì 9 e sabato 10 novembre presso la tap room di Villa D’Adda (BG).

Birra doppio malto: cos’è e perché non ordinarla al pub o in birreria

Come ben sappiamo intorno alla nostra bevanda si sono sviluppati nel tempo tantissimi falsi miti, alimentati spesso da informazioni mendaci, da divertenti equivoci e soprattutto da molta superficialità. Correggere questi errori è importante, ma bisogna evitare di combattere la superficialità con altra superficialità. Sappiamo ad esempio che la storiella delle IPA nate appositamente per le colonie britanniche in India è fuorviante, ma lo è altrettanto affermare che questo stile non ha niente a che fare con il paese asiatico. Allo stesso modo sento ripetere spesso che la birra “doppio malto” non esiste, rischiando però di aumentare la confusione invece di ridurla: cosa dovrebbe pensare il neofita che trova scritto su tante etichette effettivamente “doppio malto”? Sebbene su questo punto in molti si siano espressi, ritengo importante tornare sull’argomento per chiarire eventuali dubbi.

Cambia la definizione di “craft beer”: dentro birre al THC, sakè e tè fermentati

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Come ormai saprete in Italia esiste una legge sulla birra artigianale, che ne stabilisce i confini sulla base di vari criteri. Negli Stati Uniti è in vigore qualcosa di simile: una definizione per certi versi analoga, espressione però non della legge federale ma della Brewers Association, organismo che riunisce i produttori di birra. Poiché è l’associazione a decidere cosa è craft e cosa no, può effettuare modifiche e correzioni in maniera snella, senza dover passare attraverso la burocrazia o la politica. Non è un caso che la definizione americana sia stata modificata già tre volte dalla sua nascita (2007), più che altro per assecondare i cambiamenti di un mercato in continua evoluzione. In questi giorni si è diffusa la notizia secondo cui è in atto una nuova revisione, con importanti ripercussioni sul concetto stesso di “craft beer”.

I militari USA hanno bevuto tutta la birra di Reykjavik in un fine settimana

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Come riporta Mondofox, in questi giorni i pub e i locali di Reykjavik sono stati invasi da un esercito di 6.000 soldati statunitensi, che hanno prosciugato le riserve di birra della capitale islandese. Dal 25 ottobre è infatti in corso nei paesi scandinavi la più grande esercitazioni militare della Nato, che proseguirà fino al 7 novembre e che vede la partecipazione dei 29 paesi membri della famosa organizzazione internazionale. Le truppe americane hanno soggiornato per un intero weekend a Reykjavik, rilassandosi nel tempo libero con ettolitri di birra.

A quanto pare la carenza di birra è derivata dalla predilezione dei militari per le produzioni artigianali: i marchi industriali più diffusi sono stati pressoché ignorati. Questo aspetto ha impedito ai publican di rimpinguare sufficientemente le scorte, così nonostante gli ordini di emergenza non è stato possibile smarcare tutte le richieste.

Altro che zombie e vampiri, talvolta sono le birre i veri mostri di Halloween

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Ci siamo, tra poche ore scatterà la mezzanotte e, volenti o nolenti, ci troveremo a festeggiare Halloween per l’ennesima volta. Complice il ponte del primo novembre, quello che state leggendo è l’ultimo post della settimana per Cronache di Birra. La mia idea era di scrivere qualcosa a tema per celebrare la festività, ma l’operazione è più difficile del previsto se non si vuole incappare nello scontato pezzo sulle Pumpkin Ale o nell’inflazionata panoramica sulle birre a tema. Così ho pensato a una soluzione molto semplice: prendere i più celebri mostri di Halloween e trasportarli nel mondo birrario, cercando qualche elemento in comune con il nostro settore. Alla fine penso di avercela fatta, anche se non mancano le forzature 🙂 . Ma fa parte del gioco, quindi beccatevi questo articolo a tema senza farvi troppe domande. Ci risentiamo lunedì prossimo, buoni festeggiamenti.

False friends: quando i nomi degli stili birrari creano malintesi

Uno dei motivi alla base del fascino della birra è la sua straordinaria varietà: è il primo aspetto che colpisce chi si avvicina a questo mondo, perché spesso si ignorano le decine di tipologie in cui si divide il patrimonio brassicolo internazionale. Quando negli anni ’70 Michael Jackson inventò il concetto di “stile birrario” diede uno straordinario impulso alla divulgazione della cultura birraria, perché permise di studiare la bevanda dividendola in categorie, assegnando a ognuna di esse un’origine geografica precisa e sottolineandone lo stretto legame con elementi di natura storica, sociale e culturale. Nel tempo gli stili birrari si sono moltiplicati e sono nate variazioni e sottostili, che hanno reso ancora più ricco il panorama brassicolo internazionale. Sebbene la loro codifica sia un ausilio prezioso allo studio, ci sono situazioni particolari in cui il nome di uno stile può creare equivoci e malintesi. Nel pezzo di oggi proviamo a fare chiarezza dividendo questi casi in quattro grandi gruppi – appunto perché non ci piacciono le categorie 😛 .

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