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Quattro cose della birra artigianale italiana che (per fortuna) non ci sono più

Come abbiamo segnalato in una delle nostre ultime panoramiche sugli eventi birrari, ieri si è festeggiata la Giornata nazionale della birra artigianale, ricorrenza voluta da Unionbirrai per celebrare il nostro movimento. Oltre che una scusa per brindare, simili iniziative sono anche l’occasione per tracciare un bilancio del settore. Per una volta però vogliamo mettere da parte i dati di mercato e le tendenze del comparto, lasciando spazio a un’analisi molto più leggera su quali aspetti della birra artigianale italiana sono cambiati in questi anni. L’evoluzione è stata rapida e tumultuosa e ha lasciato dietro di sé molte convenzioni e consuetudini, alcune delle quali fortunatamente abbiamo messo nel dimenticatoio. Ma ogni tanto è utile riportarle alla mente per scoprire che, sebbene molte storture siano ancora presenti nell’ambiente, in quasi tre decenni sono stati compiuti diversi passi avanti. Anche quando hanno riguardato elementi apparentemente marginali.

Ecco, nell’elenco che segue non aspettatevi di trovare chissà quali problemi che il movimento è riuscito a superare in questi anni. Sono aspetti secondari, talvolta ironici, ma comunque capaci di influenzare il nostro rapporto quotidiano con la birra artigianale.

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Il superamento del formato da 75 cl

Oggi il formato più comune per la birra artigianale in bottiglia o in lattina è il 33 cl, accompagnato raramente da altre misure (37,5 cl o 50 cl). Eppure c’è stata un’epoca, anche piuttosto longeva, in cui le produzioni dei microbirrifici italiani erano disponibili quasi esclusivamente in bottiglie da 75 cl. Parliamo dei primi anni 2000, quando il modello di riferimento per tutti i produttori senza locale di mescita (cioè il 90% degli stessi) fu quello indicato in maniera visionaria, a partire dal 1996, dal birrificio Baladin (sito web): bottiglie dalle forme ricercate, etichette curate, stili vagamente ispirati alla cultura brassicola del Belgio e, appunto, formato rigorosamente da 75 cl. Oggi è difficile spiegare quanto quella impostazione abbia influenzato l’iniziale evoluzione della birra artigianale in Italia: anche solo immaginare una misura diversa sarebbe stata un’eresia. Com’è facile immaginare, un simile approccio ebbe ripercussioni anche sul modo in cui i consumatori si avvicinarono al nostro mondo.

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La situazione non sarebbe durata per sempre, così qualcosa cominciò a cambiare all’inizio degli anni ’10. Fu in quel periodo che alcuni birrifici decisero di puntare tutto su formati più piccoli, prediligendo quello da 33 cl. Probabilmente il caso più emblematico fu quello del lombardo Brewfist (sito web), che ebbe la fortuna di intercettare in quel preciso momento storico una nuova ondata di consumatori di birra artigianale. Era iniziato il periodo d’oro dei beershop romani, che in poco tempo invasero la Capitale attirando un pubblico di giovani consumatori: tra di loro si diffuse l’usanza di bere birra in piedi, fuori dal negozio. Chiaramente erano alla ricerca di un formato diverso dal 75 cl e così fu premiato chi per primo aveva compiuto scelte diverse in fase di confezionamento. La Spaceman di Brewfist divenne il simbolo di quella fase, una birra che crebbe un’intera generazione di appassionati.

Il superamento del formato da 75 cl ha democraticizzato la birra artigianale italiana, fornendo nuove occasioni di consumo e favorendo il rinnovamento della base dei bevitori. Oggi è un aspetto dato per scontato, ma all’epoca fu una conquista per il movimento nazionale, basti ricordare il clamore che inizialmente accompagnava la disponibilità di formati “piccoli”. La dittatura della bottiglia da 75 cl è finita da un pezzo e non possiamo che rallegrarcene.

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La scomparsa dei nomi con il suffisso -Ale

In inglese il termine “beer” si presta a diversi giochi di parole, ma lo stesso non può dirsi per l’italiano con la parola “birra”. Questo incredibile limite creativo ha convinto i birrai nostrani a trovare nel vocabolo inglese “Ale”, inteso come “birra ad alta fermentazione”, il migliore compagno di brain storming per l’ideazione dei nomi dei nuovi prodotti. Ed è così che è cominciato l’Armageddon: in pochi anni siamo stati invasi da birre battezzate con i nomi più disparati, ma sempre tassativamente, inesorabilmente terminanti in -Ale, da leggere all’italiana – quindi non “eil”, come se fosse inglese, ma proprio “ale”. Giochino divertente la prima volta, tollerabile la seconda, stucchevole di lì in poi.

Per restituire le dimensioni che prese a un certo punto il fenomeno è sufficiente ricordare che vanno inserite nel novero due tra le prime American IPA italiane: la ArtigianAle di Bi-Du e la ReAle di Birra del Borgo, i cui nomi presentavano entrambi quella fastidiosa “a” maiuscola. La trovata piacque ai due birrifici, che in successive occasioni replicarono lo stesso meccanismo: il produttore lombardo lanciò la TemporAle, la VirAle e la SuperanAle – un nome, quest’ultimo, che si è meritato un pezzo a parte – quello laziale la DucAle, l’ImperiAle, la CastagnAle, la SurreAle e altre ancora. Ma Bi-Du e Birra del Borgo non furono gli unici birrifici a lasciarsi ammaliare dallo stupendo suffisso: ricordiamo ad esempio la ComunAle di Birra Amiata, la TropicAle di Birrificio Emiliano, la SensuAle di Citabiunda, la CentesimAle di Karma, la PergolAle di Renton, l’AncestrAle di Alta Quota e via dicendo. Il caso più eclatante fu quello del Birrificio della Granda (sito web), che per i nomi delle sue prime creazioni ricorse sempre a quel vezzo (EssenziAle, SpirituAle, PassionAle, MentAle, RurAle, AbbaziAle).

Poi con l’evoluzione dell’approccio al marketing dei birrifici artigianali, quella strabiliante consuetudine cominciò a scomparire. Oggi ancora si incontra qualche birra che ricorre al suffisso -Ale, ma capita sempre più di rado, tanto che possiamo considerare il fenomeno completamente scomparso. Facile immaginare che nessuno ne sentirà la mancanza.

Il miglioramento dei siti dei birrifici

Per anni i siti web dei birrifici sono stati un tasto dolente del nostro settore. Caotici, inutilizzabili, graficamente arretrati: un trionfo di sciatteria e trascuratezza che li rendeva inutili tanto per i consumatori finali quanto per gli operatori del settore. Alcuni siti erano talmente brutti e sbagliati in termini di usabilità da essere diventati cult nell’ambiente, come il primissimo del birrificio Bi-Du. A essere onesti l’arretratezza era un problema comune a molti settori italiani, ma in quello della birra artigianale colpiva particolarmente in un momento in cui tanti curiosi erano interessati a sapere qualcosa in più su questo o quel produttore. Oppure ad acquistare direttamente la birra sui siti dei birrifici, ma è inutile specificare che praticamente nessuno era dotato di un ecommerce.

Anche in questo caso la situazione cominciò a migliorare quando i microbirrifici capirono che era necessario porre attenzione non solo alla produzione, ma anche agli aspetti relativi al marketing e alla comunicazione. I siti lentamente si rinnovarono, risultando più al passo coi tempi e in alcuni casi introducendo soluzioni tecniche interessanti. Poi con l’avvento della pandemia tanti produttori si trovarono costretti ad allestire, spesso in tempi rapidi, degli ecommerce. Una delle (poche) conseguenze positive di quel periodo fu quindi il raggiungimento da parte del settore di uno standard tecnologico minimo per soddisfare le aspettative dei consumatori. Oggi da questo punto di vista siamo anni luce avanti ad altre realtà, come quella belga.

Il calo drastico delle birre da lavandinare ai festival

Da anni ripetiamo che la qualità media della birra artigianale si è alzata tantissimo, ma chiaramente non esistono dati oggettivi a supporto delle percezioni personali. Ci sono però elementi che suffragano questa sensazione, come il numero di birre “da lavandinare” ai festival a tema. In passato, parliamo di 15 o 20 anni fa, andare a una manifestazione con birra artigianale italiana era una roulette russa: le produzioni davvero buone erano poche e spesso era facile ritrovarsi qualche mostro brassicolo nel bicchiere – con accezione negativa, ovviamente – il cui contenuto era destinato al lavandino dopo uno o due sorsi. Se avete buona memoria ricorderete le imprecazioni dell’epoca, che ricorrevano con una frequenza enormemente maggiore rispetto a quanto accade oggi. Sì certo, non è che ora ai festival si trovino opere d’arte a ogni bevuta, tuttavia gli appassionati con più militanza alle spalle ricorderanno la situazione dei primi anni duemila. Nulla di paragonabile a quella di oggi: non sempre il passato è migliore del presente.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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