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Le tendenze di un decennio di birra artigianale in Italia – Parte prima

Con la fine del 2019 si è concluso un intero decennio di birra artigianale, sebbene alcuni ritengano che anche il 2020 sia da considerare parte di esso. Questa non è la sede per certe digressioni, anche perché ci piace pensare che da alcune settimane siano cominciati gli anni ’20 del secolo corrente. Precisato questo, viene facile gettare l’occhio alle spalle e ripercorrere un intero decennio di birra artigianale in Italia, che personalmente ho avuto la fortuna di raccontare con scadenza praticamente quotidiana. Nel nostro paese il fenomeno è molto giovane e non poggia su una tradizione brassicola come in altre realtà: vien da sé che i 10 anni appena conclusi sono stati i più importanti per l’evoluzione del settore nazionale. Così l’idea è di ripercorrere questi due lustri andando a raccontare le tendenze che hanno caratterizzato la fantastica cavalcata della birra artigianale in Italia. L’articolo è necessariamente diviso in due parti: oggi ci occupiamo del quinquennio 2010-2014, nei prossimi giorni di quello 2015-2019.

2010 – Nel pieno del boom

I primi anni ’10 hanno rappresentato un momento di grande ascesa per la birra artigianale in Italia, sulla scia di una tendenza già iniziata qualche tempo prima. Il decennio si aprì in un periodo in cui il settore stava mostrando uno straordinario entusiasmo: il concetto di birra di qualità stava iniziando a raggiungere la massa, bisognava aggiornare costantemente il totale di nuovi birrifici attivi, si moltiplicavano le aperture di locali indipendenti così come le iniziative e gli eventi a tema. A questo fermento contribuì il crescente successo delle India Pale Ale di stampo moderno, brassate sul modello americano: la qualità delle produzioni italiane era altalenante – per usare un eufemismo – ma permise da una parte di allargare lo sguardo verso nuove realtà emergenti, dall’altra di avvicinare un pubblico relativamente giovane, favorendo il primo ricambio generazionale nei consumatori dal lontano 1996. In quei mesi a Roma vivevamo ancora l’età d’oro dei beershop, che da semplice “enoteche di birra” si erano trasformati in piccoli pub, capaci di diventare un vero e proprio fenomeno sociale urbano.

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Come accennato, quel fermento durò per gran parte del decennio e divenne ancora maggiore negli anni successivi, prima di andare incontro a un fisiologico rallentamento. A quei tempi la birra artigianale sembrava essere la classica gallina dalle uova d’oro: era in grado di attirare automaticamente l’interesse delle persone, alcune delle quali sperarono di trovare nel settore un nuovo El Dorado. La situazione idilliaca non sarebbe durata per sempre, ma le tendenze che si svilupparono nel corso del decennio furono spesso figlie del grande interesse con cui si aprirono gli anni ’10.

2011 – La birra agricola

Una delle conseguenze di tanto successo fu l’interessamento del mondo politico al fenomeno della birra artigianale. Con una mossa inaspettata, a settembre del 2010 arrivò un decreto ministeriale che definì la birra un prodotto agricolo. Fu l’inizio della nascita della birra agricola, quella cioè prodotta con almeno il 51% di materie prime (quindi sostanzialmente orzo) coltivate in loco. Il 2011 fu l’anno in cui le conseguenze di questa novità trovarono una decisa concretizzazione: sul mercato si affacciarono molte aziende agricole con impianto di produzione e diversi birrifici storici italiani cambiarono status per sfruttare i vantaggi della nuova disciplina. La produzione di birra agricola infatti comportò alcuni vantaggi economici, come una diversa gestione della contabilità, l’accesso a determinati bandi europei e la possibilità di avvalersi di finanziamenti vari. La novità fu accolta con diffidenza dall’ambiente, soprattutto da parte di coloro che non potevano cambiare configurazione aziendale e che sottolineavano l’esistenza di una concorrenza sleale.

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La birra agricola sollevò anche il problema (ancora attuale) della maltazione dei cereali e della tracciabilità della materia prima durante e dopo la trasformazione. Nonostante tutti i limiti, il 2011 in Italia fu l’anno in cui il fenomeno raggiunse il suo apice: all’epoca era talmente ricorrente da sembrare una realtà destinata a durare nel tempo. Invece la moda si affievolì rapidamente, sebbene non scomparve mai del tutto. Oggi il tema sta emergendo di nuovo, seppure in forme diverse rispetto al passato, e con una forza sicuramente minore. Ma è qualcosa con cui, nel bene e nel male, saremo costretti a confrontarci anche in futuro.

2012 – Collaborazioni e one shot

Oggi siamo così abituati a imbatterci continuamente in birre collaborative e irriproducibili che sembra assurdo che fossero una rarità fino a pochi anni fa. Tuttavia in Italia il fenomeno delle one shot e delle collaboration brew emerse in Italia solo all’inizio del decennio, quando i birrifici non erano avvezzi alle novità e aggiungevano etichette alla loro offerta solo saltuariamente. La moda scoppiò pienamente nel corso del 2012, rimanendo dapprima limitata a iniziative di produttori nazionali e poi coinvolgendo anche aziende straniere. L’idea delle one shot, cioè birre create una tantum per occasioni speciali, non fu facile da assimilare: oggi le consideriamo normali, ma all’epoca c’era l’abitudine a pensare che una ricette richiedesse sperimentazioni e affinamenti prima di assumere la sua forma definitiva. Il fenomeno ha sicuramente esasperato la ricerca ossessiva per la novità, che spesso si tramuta in una schiavitù per birrifici e locali; d’altro canto però ha incuriosito tanti consumatori alle prime armi e permesso a nomi nuovi di affacciarsi sul mercato.

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2013 – Beer firm

Uno dei fenomeni più importanti della birra artigianale italiana (e non solo) nel corso del passato decennio ha riguardato le beer firm, marchi brassicoli privi di impianto di proprietà. Come spesso accade, il fenomeno acquista importanza in tempi relativamente brevi, per alcuni anni sembra rappresentare l’uovo di Colombo, salvo poi sgonfiarsi altrettanto velocemente. Ed è esattamente ciò che è accaduto in Italia, considerando che a inizio decennio le beer firm si contavano sulle dita di una mano e nel 2013 avevano già superato le 100 unità. Fu in quel momento che un tale modello di business venne percepito come la soluzione ideale per chi non poteva sobbarcarsi l’ingente investimento per un impianto produttivo. Ma in realtà le insidie erano diverse: margini di vendita minimi, difficoltà o assenza nel controllo dell’iter produttivo, necessità di cambiare spesso fornitore, pregiudizi più o meno fondati. Dopo l’entusiasmo iniziale sembrò chiaro che la soluzione beer firm poteva funzionare solo in rarissimi casi e che avrebbe avuto senso solo come fase temporanea in attesa dell’acquisto dell’impianto. Oggi molte beer firm italiane non sono più attive e la loro presenza sul mercato si è ridotta drasticamente.

2014 – La birra artigianale entra nell’agenda politica

Come probabilmente saprete, oggi la birra artigianale in Italia è disciplinata a livello legislativo dall’articolo 35 della Legge 154/2016. La disposizione non è però altro che il punto finale (o comunque intermedio) di un percorso cominciato alcuni anni prima, quando cioè il mondo politico cominciò a interessarsi al fenomeno per cercare di inquadrarlo e legiferare in materia. Prima ancora di una disciplina a carattere nazionale, furono alcune regioni a interessarsi all’argomento, promuovendo la loro visione dell’argomento. Poi le operazioni si velocizzarono quando Unionbirrai cominciò a chiedere una disciplina delle accise diversa per i birrifici artigianali: la legge del 2016 non fu che un passaggio propedeutico alla futura revisione delle imposte di fabbricazione, sebbene acquistò una dignità autonoma.

La legge del 2016 non è altro che il momento più visibile di un fenomeno già in atto da tempo e che nel 2014 apparve evidente a tutti. L’Italia è uno delle poche nazioni al mondo a disciplinare il concetto di birra artigianale con una norma avente forza di legge. Questo aspetto comporta degli svantaggi – pensiamo alle difficoltà nel cambiarne i contenuti rispetto a situazioni, come negli Stati Uniti, dove la definizione è controllata dall’associazione di categoria. Però è indubbio che in questi anni i vantaggi sono stati molteplici: sono stati finanziati progetti per la coltivazione delle materie prime, è stata ottenuta una riduzione delle accise del 40%, sono state previste altre iniziative per lo sviluppo del comparto. E ha spinto diversi soggetti a proporsi in maniera più strutturata e professionale rispetto al passato.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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