Come abbiamo documentato recentemente, sono diversi i birrifici italiani che hanno finalmente deciso di affidarsi alla lattina come alternativa alla bottiglia. La tendenza rappresenta una piccola rivoluzione trainata dal successo internazionale di questo contenitore, che nella sua forma moderna ha dapprima conquistato i produttori americani e poi si è diffusa anche in Europa. È naturale chiedersi se è una moda del momento o un elemento destinato a caratterizzare il futuro del settore: se per l’estero possiamo confidare nella seconda opzione, il discorso cambia se ci limitiamo al nostro paese. Esiste infatti un precedente con luci e ombre che ci spinge a sollevare qualche dubbio al riguardo: mi riferisco alle bottiglie in formato da 33 cl, che da noi hanno vissuto fortune alterne. Sebbene oggi sia facile trovare birre italiane di questo taglio, il percorso per arrivare allo stato attuale è stato decisamente tortuoso. Al punto che è lecito chiedersi: siamo sicuri che quella del formato da un terzo di litro non sia la storia di un clamoroso insuccesso italiano?
La domanda è volontariamente provocatoria, ma non priva di fondamento, e per capirla fino in fondo occorre riavvolgere il nastro e tornare indietro di alcuni anni, quasi alle origini del movimento brassicolo nazionale. Per lungo tempo la birra artigianale italiana è stata disponibile quasi esclusivamente nel formato da 75 cl, senza concedere alternative ai consumatori. I motivi furono diversi, sia di ordine creativo (spirito di emulazione, poca propensione all’innovazione), sia di ordine tecnico ed economico. Il formato “grande” ha permesso ai microbirrifici di distinguere i loro prodotti da quelli dell’industria e di caricarli di un’aura di esclusività , necessaria per giustificarne facilmente i prezzi mediamente elevati. Tali bottiglie però comportano per il bevitore diverse limitazioni e scoraggiano il consumo immediato.
Per questa e per altre ragioni – tra cui l’ascesa di un target più giovane legato al consumo “mordi e fuggi” dei beershop – alla fine del primo decennio del nuovo secolo alcuni birrifici cominciarono a ragionare su un formato alternativo, rappresentato dal terzo di litro. Come riportai nel 2010, nel giro di pochi mesi diversi produttori lanciarono le loro birre in bottiglie “piccole”, come Montegioco, Amiata, Civale, Pausa Cafè, Karma, Opperbacco, L’Olmaia e altri. Baladin puntò addirittura a dimensioni più piccole (25 cl), mentre alcuni decisero di spingersi oltre, arrivando a elaborare linee inedite destinate esclusivamente al formato da 33 cl (oltre che al fusto). Ricordate le Trentatre di Birra del Borgo e le BIA del Birrificio del Ducato?
Ecco il punto. Molti di voi probabilmente non hanno mai sentito parlare di queste gamme parallele, o al massimo le ricorderanno con difficoltà . E c’è un motivo: da anni abbiamo perso completamente le tracce di questi prodotti, perché si sono rivelati dei flop clamorosi, scomparendo dal mercato in tempi relativamente brevi. I birrifici in questione avevano puntato su ricette semplici per mantenere i prezzi bassi – senza riuscirci in maniera decisiva, aggiungerei – ma questa strategia si rivelò controproducente: evidentemente delle birre inedite, identificate graficamente in modo diverso dal resto della produzione, non potevano godere della forza del marchio e risultarono piuttosto inutili agli occhi dei consumatori. Ma volendo competere col prezzo di produttori stranieri, strutturati in maniera diversa, birrifici come Ducato o Birra del Borgo non avevano molte altre possibilità . Tranne poche eccezioni, non è andata molto meglio ai birrifici che si sono limitati a confezionare nel formato piccolo i loro prodotti standard, senza creare linee specifiche.
Il discorso è ben diverso per quelle aziende che hanno puntato, sin dal loro debutto, esclusivamente sul formato da 33 cl. Prendete ad esempio Brewfist ed Extraomnes, che da quasi 10 anni troviamo costantemente sugli scaffali dei locali specializzati. I primi con la loro Spaceman hanno addirittura cresciuto un’intera generazione di giovani bevitori romani (e non solo), sfruttando al meglio la rivoluzione culturale rappresentata dai beershop. Insomma, a parte alcuni casi abbiamo assistito a destini molto diversi tra chi ha provato a convertire parte della sua produzione nel formato da 33 cl e chi vi ha scommesso sin da subito, strutturandosi attorno a questa visione. Come specificato, ci riferiamo a un periodo intorno agli anni 2009 e 2010: oggi la situazione è profondamente mutata e non sono pochi i produttori che iniziano la loro attività escludendo il formato grande in favore di quello piccolo, strategia forse ben più redditizia.
Ora, come quasi un decennio fa, ci troviamo a un nuovo punto di svolta con l’arrivo delle lattine. Il contesto non è lo stesso di allora e il mercato è cambiato, come le abitudini dei consumatori. Anche in questo caso c’è chi sta lanciando prodotti specifici per questo contenitore (Pop di Baladin, Lisa di Birra del Borgo), chi sta confezionando in alluminio le birre base della propria gamma (Lambrate, Bibibir, Bieres du St. Grand Bernard) e chi sta cominciando la propria avventura puntando esclusivamente sulle lattine (Mister B). Nei prossimi anni scopriremo quale strategia si sarà rivelata migliore, ma l’evoluzione italiana del formato da 33 cl dovrebbe insegnarci che ogni novità passa per percorsi contorti e quasi mai lineari.
Ma perchè invece nessuno pensa al formato da 50 cl? Specialmente per le birre sotto i 6% abv, si tratta della quantità ideale per il consumatore. Una sana bevuta, di quantità adeguata, e che può anche tranquillamente essere divisa in due.
Inoltre si sposerebbe bene con il nuovo trend della lattina.
Che ne pensi?
Penso che è un formato auspicabile per molte tipologie, ma non credo sia facile da adottare per molti birrifici
Sono assolutamente d’accordo!
Normale e Speciale Lurisia da 33 a 1,90€ sono il mio rifugio certo da Eataly quando perdo il treno a Porta Garibaldi (Mi).