Lunedì scorso presso il Palazzo Pirelli di Milano si è tenuto un convegno patrocinato dalla Regione Lombardia con la presentazione di un progetto sul luppolo promosso dal birrificio Hibu con l’Università di Parma. Si tratta di un’iniziativa molto interessante, che si prefigge la selezione di un luppolo autoctono lombardo alla fine di un processo di ricerche e sperimentazioni che durerà alcuni anni. Chiaramente non è l’unico caso del genere in Italia, poiché al momento sono in corso diversi studi innovativi che hanno già portato a risultati importanti, alcuni dei quali abbiamo documentato in passato su Cronache di Birra. I dettagli del progetto in questione ci permettono però di fissare alcuni paletti sulla coltivazione del luppolo, utili per capire come potrà evolvere questo fenomeno nei prossimi anni.
Il luppolo non cresce solo nell’Europa continentale
Tra i tanti luoghi comuni sulla birra bisognerebbe aggiungere quello che ritiene il luppolo essere una pianta non adatta ai nostri climi – dimenticando inoltre che l’Italia non è certo un paese omogeneo da questo punto di vista. La prima parte della sintesi del suddetto progetto chiarisce subito la questione:
Humulus lupulus L. o più comunemente luppolo è una pianta erbacea perenne e decidua che cresce spontaneamente in quasi tutta la penisola italiana ai margini dei boschi o in ambienti ruderali, che predilige i terreni fertili e ben lavorati.
Nonostante ciò le esperienze di luppolicoltura in Italia si sono limitate sino ad oggi alla coltivazione da parte di piccoli produttori di specie note e tipicamente coltivate all’estero da destinarsi prevalentemente alla birrificazione artigianale.
Quindi il pregiudizio di cui sopra deriva semplicemente dalla mancanza di una tradizione di coltivazione del luppolo in Italia, probabilmente anche a causa di uno sviluppo dell’industria brassicola non certo paragonabile a quella delle principali potenze birrarie del mondo. In forma selvatica, tuttavia, il luppolo è diffuso in diverse parti del nostro paese ed esistono persino ricette di cucina che prevedono l’impiego di questa pianta.
L’unica via possibile è rappresentata da varietà “italiane”
Uno dei pregi del documento di sintesi del convegno è di inquadrare rapidamente il cuore del discorso, che in modo intelligente contestualizza la coltivazione del luppolo in Italia in relazione a quanto già avviene altrove. Ragionando su sbocchi commerciali per tutti questi progetti, infatti, il problema consisterebbe nell’inserirsi in un mercato consolidato, dove realtà altamente strutturate offrono varietà di luppolo ben definite. Proporre le stesse varietà, anche se con sfumature “italiche”, significherebbe non avere alcun margine di competitività.
La prospettiva cambierebbe totalmente in presenza di una o più varietà autoctone, con caratteristiche aromatiche proprie e non rintracciabili in altre già presenti sul mercato. Secondo lo studio bisognerebbe partire da varietà selvatiche:
Diverso sarebbe il quadro in presenza di una coltivazione condotta utilizzando germoplasma autoctono, cioè varietà del tutto nuove, ottenute attraverso la selezione di piante spontanee raccolte su territorio italiano. […]
Un’ altra considerazione a supporto dell’introduzione di questa nuova coltura nella nostra penisola nasce dall’osservazione dei dati relativi al settore agricolo e al fatto che l’agricoltura nel nostro paese rappresenterebbe un settore da tutelare e incoraggiare. Ciò poiché contribuisce a tenere viva la nostra cultura ma anche i nostri paesaggi, la biodiversità agraria e paesaggistica che per l’Italia, che è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti tipici certificati, rappresentano un valore aggiunto.
Possibili fattori di supporto
Lo sviluppo di una coltivazione del luppolo in Italia necessita di alcuni fattori di supporto, senza i quali è difficile pensare di raggiungere obiettivi realmente concreti. Il primo è ipotizzabile in strumenti di incoraggiamento e tutela delle attività agricole, che in realtà saranno forse disponibili a breve grazie all’interesse della politica sui progetti di sperimentazione legati al luppolo – ne abbiamo parlato giusto lunedì scorso.
Un’ altra considerazione a supporto dell’introduzione di questa nuova coltura nella nostra penisola nasce dall’osservazione dei dati relativi al settore agricolo e al fatto che l’agricoltura nel nostro paese rappresenterebbe un settore da tutelare e incoraggiare. Ciò poiché contribuisce a tenere viva la nostra cultura ma anche i nostri paesaggi, la biodiversità agraria e paesaggistica che per l’Italia, che è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti tipici certificati, rappresentano un valore aggiunto.
Altra soluzione potrebbe essere l’inquadramento della coltivazione del luppolo in un’ottica di agricoltura polifunzionale, con destinazioni d’uso non necessariamente limitate al mondo della birra:
Da queste osservazioni e considerazioni nasce l’idea della coltivazione del luppolo in Italia che, oltre alle applicazioni nella birrificazione, potrebbe rientrare in quel ramo dell’agricoltura definito “Agricoltura polifunzionale”, rivolgendosi anche ad altre filiere: erboristica e cosmetica per la produzione di estratti, cosmetici ed integratori alimentari; vivaistica per la produzione di nuove varietà; fibra per la produzione di materiale coibentante, etc.
Il luppolo autoctono lombardo
Dalle suddette premesse – valide in generale per ogni progetto italiano di questo genere – si arriva ai dettagli del progetto promosso da Hibu e Università di Parma, che qui riportiamo come concretizzazione di quanto espresso precedentemente:
L’obiettivo è quello di selezionare un germoplasma autoctono, cioè varietà del tutto nuove, ottenute attraverso la selezione di piante spontanee raccolte in Lombardia, in cui da sempre il luppolo alligna nei microambienti più adatti. Lo studio della biodiversità del luppolo, sicuramente alta proprio perché si tratta di specie autoctona, non potrà non produrre genotipi caratterizzati da un alto potenziale qualitativo, e soprattutto genotipi caratterizzati da proprietà qualitative originali, diverse e tali da conferire ai prodotti (birre) sentori del tutto nuovi, tali da distinguerli da quelli dei prodotti normalmente in commercio, anche se di produzione artigianale.
Il progetto si articolerà in 6 fasi distinte: reperimento del germoplasma, caratterizzazione del germoplasma, propagazione, conservazione in campo collezione e valutazione agronomica, comparazione delle qualità, divulgazione. Tutte le fasi sfrutteranno l’installazione di un luppoleto a Burago di Molgora (MB), recuperando terreni agricoli attualmente non utilizzati.
Se le previsioni saranno rispettate, l’obiettivo è di iniziare fra tre anni le prime prove di birrificazione con luppoli made in Lombardia. Non ho minimamente nozioni di botanica, ma come termine mi sembra molto ottimistico ragionando su varietà italiane davvero peculiari, diverse da qualsiasi altra cosa presente sul mercato. Ma la propensione alla biodiversità del nostro paese potrebbe sorprendermi in positivo. Staremo a vedere…
Sarebbe auspicabile la creazione di un tipo di luppolo autoctono Italiano, anche perché coltivare qui, luppoli tradizionalmente di altre zone non ha nessun senso. La domanda è: c’è qualcuno in Italia che ha le necessarie competenze? Si farà la solita cosa all’Italiana dove ognuno si crede esperto e fa le cose a casaccio, come avviene per la maltazione o si usufruirà delle competenze estere, per poi imparare ed andare avanti con le proprie gambe?
Di progetti ben strutturati in questo senso in Italia ce ne sono alcuni, che promettono bene. Credo che sia un argomento dove l’improvvisazione non ha proprio modo di sussistere (per fortuna)
Teoricamente, perché io vedo coltivazioni di luppolo di vario genere, originario di altri paesi, oltretutto con diverse tipologie attigue. Il tutto in barba al terroir, che ne caratterizza le proprietà. Sulla maltazione c’è gente che malta senza aver mai brassato un litro di birra. In Italia ho visto sistemi e soluzioni per avere trattamenti fiscali agevolati, ma di professionalità gran poca.
Sulla maltazione ti do ragione, ma appunto li vedo come due campi assai diversi tra loro
Certo, ma l’approccio Italiano è il medesimo. Troviamo un filone aurifero, tra i pochissimi rimasti e cerchiamo di ricavarci il più possibile. Mancano le competenze e sarebbe necessario imparare da chi lo fa da secoli? No, noi ci arrangiamo, facciamo un bel catalogo illustrato e ci scriviamo una bella favoletta dove citiamo: km zero, qualità e 100% Italiano e tutti ci crederanno. Chiediti quanti birrai Italiani vorrebbero materie prime Italiane? E poi chiediti quanti birrai Italiani vorrebbero materie prime veramente di qualità? La percentuale maggiore propende per la prima ipotesi, perché sarebbe un argomento da poter mettere in etichetta, nei siti e nelle brochure, mentre la seconda non sortirebbe lo stesso effetto. E poi si critica il marketing dell’industria?
Sì purtroppo ti devo dare ragione, speriamo che lo stesso non succeda anche in questo campo
buongiorno , sono mauro lafranconi dell az. agr la vallescura , vorrei intervenire sul discorso maltazione . abbiamo installato la nuova malteria da 2t a ciclo con maceratore esterno per accorciare il ciclo . e’ il primo impianto in italia e sostituisce quello da 5oo kg che commissionammo alla bbc inox nel 2009 . nasce da un desiderio di vera birra agricola italiana e di poter utilizzare l’orzo biologico che produciamo sull’appennino piacentino a550 mslm.tutti sappiamo che le aziende che dichiarano di portare il propio orzo a maltare all’estero non ricevono il loro prodotto trasformato . il recente scandalo del glifosato potenzialmente potrebbe riguardarli e comunque al di fuori di questo problema e’ giunta l’ora di affrancarci dalla dipendenza dall’estero , recuperando posti di lavoro giovanili e dignita’ nel settore . in tal senso voglio segnalare che il 10 \11 dicembre presentiamo il nuovo impianto al pubblico. avrei piacere di averla come gradito ospite. sara’ presente un tecnico della ditta zanin costruttrice dell’impianto e un consulente maltatore con 40 anni di esperienze in impianti industriali . questo per dire che oltre alle scorciatoie furbesche italiane che purtroppo anche noi vediamo nel settore , esistono anche piccole realta’ che stanno portando avanti seriamente il discorso malto italiano con sacrifici ed enormi investimenti . ringraziandola per l’attenzione , restoa a disposizione per qualuque sua . cordialmente
Per maltare all’estero serve una laurea ed un master, senza questi attestati non ti fanno maltare nulla. Maltare in Italia a scopo birrario, ben venga, solo se fatto con altrettanta competenza. Personalmente sono stufo di assistere alla nascita di iniziative atte solo al cavalcare il business del momento, oltretutto vantando qualità eccezionali, senza avere nemmeno le competenze per giudicarle.
Come la birra agricola, dove chiunque nei siti e nelle brochure si vanta di coltivare l’orzo, che impiegherà per far birra e poi lo da ad una malteria esterna, che inevitabilmente riunisce diverse produzioni per raggiungere il quantitativo minimo per la maltazione e poi ridistribuisce il malto prodotto, senza che questo possa essere lo stesso orzo coltivato dal birraio agricolo.
Almeno chi fa maltare all’estero si preoccupa della qualità, perché attualmente chi malta in Italia non ha le necessarie competenze. All’inizio del movimento si era tutti contro al marketing selvaggio, farcito di false informazioni, perpetrato dall’industria birraria Italiana e poi ci si accorge, dopo anni di movimento, che anche in quest’ambito si adottano le solite becere procedure propagandistiche, basate sul nulla.
Se finalmente qualcuno in Italia cominciasse a fare le cose per bene saremmo tutti più contenti, perché allo stato attuale delle cose, si vedono tanti annunci invoglianti, che quando vai a vedere poi nel dettaglio, t’accorgi che ci sono dietro i soliti furbi, che credono basti raccontare una favola, per attribuirsi qualità non veritiere. Auspichiamo una doverosa e lungamente attesa inversioni di tendenza.