In un post pubblicato lo scorso maggio analizzammo gran parte delle varianti dello stile Ipa, cercando di capire quelle sensate e quelle decisamente meno ispirate. Il successo mondiale di questo stile – che sembra non voler tramontare – ha nel tempo spinto birrai e operatori del settore a definire delle “mutazioni” del modello di partenza, per creare nuove correnti e alimentare l’interesse intorno alla tipologia. Spesso tali definizioni sono apparse quasi naturali (se non necessarie) per consuetudini brassicole consolidatesi negli anni; in altre occasioni, invece, si sono rivelate pure operazioni commerciali nate da ragioni di marketing piuttosto che da esigenze reali. Per capirci, tra le prime inserirei le American e Double Ipa e le più recenti Black e White Ipa, tra le seconde le Brown e Red Ipa, le Rye Ipa e probabilmente le Ipa Argenta.
A distanza di qualche mese possiamo riprendere quella lista e integrarla con nuove variazioni, alcune delle quali avevo omesso all’epoca e altre che sono comparse nel panorama birrario internazionale solo recentemente – e questo dovrebbe restituire il senso di quanto follemente veloci sono le trasformazioni del nostro mondo.
Session Ipa
Qualche giorno dopo la pubblicazione del pezzo citato precedentemente, mi accorsi di aver colpevolmente dimenticato questa corrente, di cui invece ho piacere a parlare. Con l’espressione Session Ipa si intendono delle IPA “leggere”, in cui la consueta potenza dei luppoli si accompagna a un tenore alcolico molto contenuto, che possiamo considerare tra il 3% e il 4,5%. Il termine “session” deriva dal concetto di Session Beer, che indica cioè una birra “da accompagnamento”, equilibrata e di cui si possono bere più boccali a ripetizione. Non è semplicemente una birra leggera dal punto di vista alcolico, perché è fondamentale che sia bilanciata e che rimanga diligentemente in sottofondo mentre la si sorseggia chiacchierando in compagnia. Ora dovrebbe essere evidente che queste caratteristiche mal si adattano alle Ipa, che sono per definizione birre (più o meno) sbilanciate sull’amaro e che spesso puntano all’effetto meraviglia più di altri stili. Usare il termine “session” è praticamente un controsenso, per questo personalmente preferisco altre espressioni, sebbene non particolarmente ispirate, come Light Ipa.
Come ben spiega questa pezzo di Davide Salsi su Una birra al giorno, la sfida di luppolare una birra a bassa gradazione alcolica come fosse una Ipa espone a vari problemi, in primis l’emergere di un carattere eccessivamente erbaceo e vegetale. Non è un caso che le prime incarnazioni che mi capitò di bere diversi anni fa mi lasciarono decisamente deluso, salvo cominciare a ricredermi col tempo. Oggi questa tipologia rappresenta una buona alternativa soprattutto per le bevute estive, quando proprio non si vuole rinunciare all’intenso profilo aromatico di determinate luppolature. Però, per favore, smettiamola si definirle “session”.
(Grape)Fruit Ipa
Di questa variante vi ho diffusamente raccontato a seguito di alcune riflessioni successive a Fermentazioni 2016. Di base l’idea di inserire frutta nelle ricette delle Ipa può apparire assurdo e fuori di testa, senza contare che talvolta accade per ovviare a problemi di prezzo e reperibilità associati ad alcuni luppoli aromatici. Eppure ciò che emerge da questa nuova corrente, iniziata ufficialmente nel 2013 con la Grapefruit Sculpin di Ballast Point – sebbene già in Italia esistesse da anni una Ipa con pompelmo di Scarampola – è un insieme di creazioni intriganti e molto interessanti. Personalmente le trovo delle varianti meritevoli di grande attenzione, con le quali anche i nostri birrifici hanno cominciato a confrontarsi ottenendo egregi risultati.
Nonostante queste Ipa fossero state prodotte inizialmente solo con l’aggiunta di pompelmo e altri agrumi, ben presto i produttori hanno sperimentato diversi tipi di frutta. In Italia abbiamo gli esempi di Toccalmatto (Miss Molly con frutto della passione) e MC-77 (con pesche e albicocche), ma un fenomeno analogo si sta diffondendo in tutto il mondo. Per questo ormai si parla in generale di Fruit Ipa, evitando il richiamo al solo pompelmo (“grapefruit”).
Juicy Ipa
In questo periodo si fa un gran parlare in Italia di Juicy Ipa, riferendosi a un sottogenere che prevede una torbidità quasi estrema. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto l’espressione è abbastanza fuorviante, perché bisognerebbe parlare più propriamente di New England Ipa o Vermont Ipa (dove effettivamente sono nate), piuttosto che chiamare in causa un termine che significa semplicemente “succoso”. Di per sé dunque “juicy” non indica una birra molto opalescente, ma più spesso si usa per riferirsi ad aromi “succulenti” e tropicali provenienti da specifiche varietà di luppolo, usate con generosità . Non che sia una caratteristica tale da isolare una nuova variante di Ipa, ecco perché allora ci sia concentra sull’aspetto estetico, che diventa l’elemento identificativo. La torbidità delle Juicy Ipa non passa certo inosservata e suggerisce delle peculiarità anche a livello tattile, che in effetti spesso emergono in termini di maggiore morbidezza, se non addirittura di corsa “felpata”.
Eliminata dunque la componente visiva, rimangono pochissime ragioni (o forse nessuna) per giustificare la codifica di una nuova variante di Ipa. Nell’ossessiva rincorsa all’ultima novità proposta dal mondo brassicolo, si arriva alla situazione aberrante per cui diventa un elemento identificativo quello che, in condizioni normali, rappresenta un grave problema: la mancanza di limpidezza, che in casi del genere raggiunge livelli pazzeschi. Ma ci sono birrifici che hanno ottenuto fama proprio grazie alle Juicy Ipa: lo svedese Omnipollo è sicuramente l’esempio più lampante e allo stesso tempo inquietante.
Sour Ipa
Quando due mode gustative si incontrano, ecco che nascono le Sour Ipa. Da una parte c’è il successo dell’amaro, icona della rivoluzione birraria artigianale e incarnata nello stile delle Ipa. Dall’altro c’è l’emergente interesse per l’acido, sdoganato dalle fermentazioni spontanee del Belgio e quindi recuperato, con diversi gradi di intensità , da passaggi in botte, contaminazioni e altre tecniche produttive. Era solo questione di tempo perché comparissero le prime Sour Ipa, che inseriscono un certo livello di acidità all’interno del classico ventaglio organolettico dello stile. Solitamente l’effetto è ottenuto tramite l’inoculo di microrganismi “non ortodossi”. Sinonimi utilizzati per indicare queste birre sono Wild Ipa, Farmhouse Ipa e via dicendo.
Che senso hanno le Sour Ipa? Non mi ritengo un grande fan della tipologia, perché mi sembra nascere da un concetto piuttosto aberrante. Non è un caso che il Lambic – la birra acida per eccellenza – preveda l’impiego di luppolo vecchio: usare delle piante prive di potere amaricante e aromatico permette di evitare lo spesso sgradevole incontro tra acido e amaro. Perché allora ricercare l’acidità forzatamente in uno stile dichiaratamente amaro? La risposta è semplice: per ricercare nuove suggestioni gustative, considerando soprattutto che la parte acida è molto meno spiccata che nelle fermentazioni spontanee. Sarà , ma ancora non mi considero totalmente convinto.
Cosa ne pensate di queste quattro ulteriori varianti di Ipa? Quali ritenete effettivamente valide?
Personalmente, dopo aver provato la Trolltunga, una Gooseberry Sour IPA nata dalla collaborazione tra i birrifici Buxton e Lervig (http://www.ratebeer.com/beer/buxton–lervig-trolltunga/377963/), posso dire con precisione che l’acido e l’amaro possono incontrarsi e creare delle vere meraviglie!
Provare per credere!