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Assistere alla cotta (con pietre roventi) di una Steinbier: la nascita della Flaming Stones di Sorio

Ci sono degli appuntamenti a cui partecipo sempre con grande piacere. Dopo averlo mancato lo scorso anno, per malanni autunnali, non vedevo l’ora che tornasse il momento della cotta della Flaming Stones, la Steinbier del Birrificio Agricolo Sorio di Gambellara, in provincia di Vicenza. Ma cosa sono le Steinbier? Dobbiamo subito precisare che non stiamo parlando di uno stile birrario, bensì di un’antica tecnica produttiva che prevede l’immersione nel mosto di pietre roventi, precedentemente riscaldate a fiamma viva per ore. Le sue origini risalgono addirittura al Medioevo, quando i birrai non disponevano di strutture in metallo, bensì in legno. Questo particolare ovviamente creava problemi di riscaldamento del mosto, per cui una delle soluzioni che si diffuse fu l’inserimento di pietre incandescenti all’interno dei tini. Oggi sono pochissimi i birrifici al mondo che producono regolarmente Steinbier.

La cotta della Flaming Stones

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La Flaming Stones del Birrificio Sorio è prodotta una sola volta l’anno e deve trovare il conforto di un meteo favorevole; in caso di pioggia la cotta viene inderogabilmente rinviata. Quest’anno il clima è stato abbastanza clemente e, salutati da una brezza inizialmente fastidiosa che poi ha lasciato spazio al sole e a temperature più miti, ci siamo ritrovati di primo mattino nel beer garden del birrificio, chiamato AccesSorio, dove abbiamo atteso che giungesse il momento clou della giornata. Oltre che essere un’iniziativa di stampo folkloristico, la cotta ha anche un grande valore didattico-formativo: non è un caso, ad esempio, che tra i presenti ci fosse anche Andrea Ambrosini del pub Einmass di Costa di Mezzate (BG), in trasferta con tutto lo staff del locale per assistere all’evento.

L’attesa dettata dai tempi produttivi è stata ben gestita dai padroni di casa, Giacomo Maule e Mirko Poggian, tra visite all’impianto e assaggi delle loro produzioni, in grande spolvero. A farci compagnia anche i racconti legati all’ideazione della birra: è nata guardando un video su Youtube e si è concretizzata grazie al patrimonio geologico dei dintorni del birrificio. La zona di Gambellara, infatti, è ricca di basalto, una pietra che si presta benissimo ad essere utilizzata nelle Steinbier perché resiste a temperature elevate, senza spaccarsi. A chilometro zero anche la legna utilizzata per riscaldare le pietre, proveniente dai boschi vicini al birrificio, la cui combustione ha rilasciato nell’aria un piacevolissimo aroma di resina ed incenso.

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Durante la cotta il mosto è stato prima portato a circa 85/90 °C all’interno del birrificio, per poi essere trasferito velocemente in un tino aperto, in giardino. Sono state quindi calate, grazie ad un piccolo trattore, le pietre roventi che sono rimaste a contatto con il liquido per circa venti minuti. Successivamente il mosto è stato nuovamente pompato all’interno del birrificio dove è rimasto in bollitura per ulteriori 30 minuti. Uno spettacolo che ha lasciato ricordi indelebili in tutti i presenti, tra lo sfrigolare delle pietre immerse nel mosto e la nebbia prodotta dall’improvviso innalzamento di temperatura. Nonché dal profumo, irresistibile, di quelle note caramellate, tostate, lievemente affumicate, che si è sprigionato nell’aria nei minuti successivi; tutte componenti che – mi aspetto – arricchiranno il bouquet della Flaming Stones.

La zona di origine delle Steinbier

Si sente spesso ripetere che il metodo produttivo delle Steinbier è tipico della tradizione tedesca, francone per la precisione; in realtà studi e ricerche più recenti hanno spostato l’origine di questo antico metodo di birrificazione verso un’area più ampia, corrispondente ad alcune aree del nord Europa e dell’Austria, nella regione della Carinzia. L’equivoco è presto spiegato e risale al lavoro del beer hunter Michael Jackson, che negli anni Ottanta si recò in visita al birrificio Rauchenfels. Parlando della produzione della Steinbier della casa, Jackson fece riferimento ad un’antica tradizione, legata a quei produttori che, non potendosi permettere costosi tini in metallo, utilizzavano dei contenitori in legno. Con questi ultimi non si poteva utilizzare una fiamma viva che avrebbe incendiato il tino, così si sviluppò l’utilizzo di pietre roventi come metodo alternativo per riscaldare il mosto. Sebbene non ci fosse un preciso riferimento geografico, il testo poteva far pensare che l’antica tradizione fosse originaria del solo territorio tedesco.

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Qualche anno dopo, Gerd Borges, birraio di Rauchenfels, rivelò invece come avesse appreso questo metodo produttivo grazie a delle vecchie musicassette registrate dall’ultimo produttore di Steinbier, morto nel 1965 e di nazionalità austriaca. Dai suoi racconti si poteva concludere che l’antico metodo fu utilizzato da un paio di birrifici della Carinzia fino al 1917. Al tempo stesso, altri documenti e altre testimonianze hanno approfondito il discorso, allargando il raggio d’azione di questa metodologia produttiva a tutto il nord Europa. In Norvegia le “brewing stones” si utilizzarono a partire dal VII secolo per arrivare fino a tutto il XVI secolo, così come in Regno Unito e in Svezia sono state ritrovate tracce in diversi scavi archeologici.

Le Steinbier oggi

Come spesso capita, l’avvento della tecnologia, nello specifico dei tini in metallo, rese questa modalità produttiva obsoleta e a rischio di estinzione. A oggi, oltre al birrificio Sorio, che parrebbe essere l’unico in Italia a cimentarsi regolarmente con questa tecnica produttiva – in passato ne ha prodotta una versione “alternativa” il Pork’n’Roll di Roma con Gaenstaller Brau – ho trovato traccia di circa un centinaio di Steinbier, sparse in tutto il mondo, anche se alcune non sono più disponibili. Da produzioni a stelle e strisce per arrivare in Australia, a Melbourne, senza dimenticare i paesi di lingua tedesca, che hanno contribuito a tenere viva la tradizione di una birra complicata nella realizzazione, ma di grande impatto emozionale. E che non vedo l’ora di trovare al bancone del pub, per un assaggio di questa produzione a marchio Sorio.

Alessandra Agrestini
Alessandra Agrestini
Bellunese di nascita, bolognese o meglio sanlazzarona d’adozione. Dicono di lei: "Una mente in continuo fermento che si entusiasma quando si parla di birra artigianale. E soprattutto porta sempre da bere ottime birre!". Consulente e divulgatrice birraria freelance, collabora con diverse associazioni per docenze e corsi a tema birrario. È anche giudice internazionale.

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