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Fare birra in casa è diventato davvero così difficile?

Una delle prime sensazioni che si prova quando ci si addentra nel mondo della produzione casalinga di birra è quella di spaesamento. Gli inglesi indicano questa condizione con un termine a mio avviso molto efficace: overwhelming, che significa per l’appunto “travolgente”, nel senso di “soverchiante” ossia qualcosa che ci opprime dall’alto impedendoci di compiere le azioni più elementari. Ricordo nettamente le mie prime letture sulla produzione casalinga di birra. Cominciai con qualche veloce ricerca su Internet consultando i link proposti da Google: trovai tutto e il contrario di tutto, seguendo percorsi che si moltiplicavano a ogni passo, come un enorme albero i cui rami sembrano puntare alla verità mentre ci si allontanava verso nuove zone d’ombra da esplorare. Sembravano esistere migliaia di homebrewer nel mondo, ciascuno con i propri dogmi incrollabili. Da buon ingegnere, pensai bene di creare un bel foglio Excel in cui riassumevo i vari passaggi della produzione che avrei dovuto seguire, con dettagli approfonditi sui parametri che li caratterizzavano: temperature, tempi, pH, ingredienti. A un certo punto le celle del file Excel, piene di testo in un carattere piccolissimo, sembravano quasi scoppiare. Non ci stavo capendo più nulla. Avrei potuto seguire le istruzioni di un kit, certo, ma volevo capire prima di iniziare.

Ed è proprio quel desiderio di comprensione che mi fece sentire sfinito, stanco, overwhelmed, ancor prima di fare il primo acquisto di ingredienti o attrezzatura. Anche perché, inutile sottolinearlo, di attrezzature e ingredienti per fare birra in casa ce n’è un’infinità, decidersi a fare il primo click per acquistare qualcosa è un’impresa che richiede una significativa dose di coraggio misto a incoscienza. Tra l’altro, il mio primo contatto con la produzione casalinga di birra è avvenuto otto anni fa, la situazione oggi si è ulteriormente complicata. Come districarsi in questo ginepraio di informazioni, credenze, leggende metropolitane, ingredienti, attrezzatura e ammennicoli vari? Proviamo ad accendere una piccola torcia per illuminare i rami del nostro albero che conducono verso la conoscenza.

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Troppe fonti e tanta soggettività

All’inizio sembra facile: “cerco qualche informazione su Internet”. Il povero sventurato non ha idea del mare di informazioni in cui si troverà a navigare. È vero che nella rete si trova tutto, ma è vero anche che si trova il contrario di tutto. Se per il processo di produzione in generale è sufficiente fare affidamento a fonti di informazione affidabili (anche Wikipedia va benissimo), per i dettagli – dove in genere si nasconde il diavolo – un sito generalista non basta. Ed è qui che la questione inizia a farsi piuttosto complicata. Travaso o non travaso? Protein rest o no? Quando imbottiglio? Quanto deve maturare la birra? Cercate queste domande online e troverete tante risposte diverse, spesso in contraddizione tra loro, raccontate come verità assolute. Affidarsi a un buon libro aiuta perché le informazioni strutturate in un manuale in genere sono verificate, ma non illudetevi di trovare il libro che vi serve la verità su un piatto d’argento. Quando ci si avvicina a questo mondo, la prima cosa con cui si deve far pace è che molto spesso – quasi sempre, azzarderei – non esiste una sola verità su cosa si deve fare o non fare. Quello che ho imparato in tanti anni di produzione e studio, è proprio che la verità non è mai incontrovertibile quando si parla di birra.

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Questo si spiega facilmente considerando che il processo di produzione è molto lungo – sebbene non particolarmente complicato – e costellato di moltissime variabili: ogni passaggio è influenzato dalle condizioni ambientali, dalla qualità e tipologia degli ingredienti, dalla consapevolezza di chi assaggia. Mentre una fotografia si può valutare, in buona parte, anche attraverso lo schermo di un pc, una birra no. Al massimo si può commentare l’aspetto visivo, che poi spesso dipende dall’angolazione e dalle condizioni di luce in cui è stata scattata la foto, ma per il resto ci si deve affidare a chi assaggia la birra. Che solitamente è la stessa persona che l’ha prodotta. Indovinate un po’? Ci sentirà dentro quello che ci vuole sentire, o comunque quello che serve a dimostrare la propria tesi in merito all’approccio produttivo che ha seguito. Cosa fare, quindi? Per non sentirsi spaesati e impotenti, è importante partire con il piede giusto e studiare da una fonte affidabile. Individuarle non è così difficile: meglio un libro, che ha un approccio più strutturato di un blog. Meglio se recente, o comunque in una nuova edizione, perché le informazioni, ma soprattutto gli ingredienti e l’attrezzatura per fare birra in casa, sono cambiate moltissimo negli ultimi anni. Leggere un libro scritto 15 anni fa può essere fuorviante per certi aspetti, anche se ce ne sono di molto divertenti e ben fatti. Meglio puntare su qualcosa di aggiornato e moderno, verificando sempre il curriculum degli autori: se non sono perfetti sconosciuti del Web, meglio.

Troppa attrezzatura

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Quando ho iniziato a fare birra, la diatriba più divisiva era quella che contrapponeva i cosiddetti “Biabbisti”, ovvero chi utilizzava il metodo Brew In A Bag (BIAB) per produrre, e i fondamentalisti del “tre tini”, cioè i puristi che riproducevano in casa l’assetto di un vero e proprio birrificio. Ho passato i primi anni delle mie produzioni dialogando, a volte piuttosto intensamente, con la fazione del “tre tini”, nel tentativo di dimostrare che le birre prodotte con le due impostazioni erano di fatto identiche. Ne ero convinto. E per certi versi, lo sono. Ma dipende da come le si valuta e da quali sono gli aspetti che si prendono in considerazione. In realtà non lo sono – identiche – ma, se valutate entro certe condizioni, possiamo considerarle tali. Questo per dire, nuovamente, che la verità assoluta in questo contesto non esiste, l’unico modo per testare un approccio è valutarlo di persona. Produrre. Assaggiare. E magari far assaggiare le nostre produzioni a qualcuno più esperto di noi. Fintanto che la birra viene bene, ma anche solo se soddisfa il nostro palato e non abbiamo altre velleità (ad esempio partecipare ai concorsi e vincerli), quello che stiamo facendo va più che bene.

L’attrezzatura per produrre, nello specifico, è forse l’aspetto produttivo che più ho visto evolversi in questi ultimi anni. Quando ho iniziato, a differenza di 20 anni fa ad esempio, il salto nella qualità e varietà degli ingredienti disponibili per chi fa birra in casa era già avvenuto. Ma si faceva ancora birra con la sacca (il BIAB, appunto), oppure con repliche di impianti produttivi professionali autocostruite. Oggi trovate di tutto: gli All-In-One (chiamati anche AIO), ovvero gli impianti automatizzati con un solo tino dove si conduce sia l’ammostamento che la bollitura, spopolano. C’è – e ci sarà sempre – chi sostiene che fare birra seguendo scorciatoie produttive è un imbroglio, ma ho conosciuto bravissimi homebrewer che producono ottime birre con gli AIO, e pessimi homebrewer che si incaponiscono a passare l’intera giornata dietro al loro tre tini di vecchia memoria. Per non parlare poi di fermentazione e imbottigliamento, che nell’ultimo anno sono diventati uno spartiacque tra nuove fazioni di homebrewer: gli isobarici e i tradizionalisti dell’imbottigliamento hanno sostituito i Biabbisti e gli integralisti del tre tini. Non è questa la sede per spiegare nel dettaglio cosa significa isobarico o contropressione, ma è importante ribadire che chi si avvicina per la prima volta alla produzione casalinga deve avere ben chiaro da subito che non serve sofisticata attrezzatura per produrre ottima birra.

Sono veramente sufficienti due pentole, un fermentatore in plastica e un’asta da imbottigliamento. I sostenitori dell’isobarico, quelli intelligenti, lo sanno e non mancano di ripeterlo: prima di complicarsi la vita è bene, anzi saggio, passare per il metodo semplice. Studiare, sperimentare un bel po’ di ricette pensate con la propria testa, comprendere bene le dinamiche di fermentazione, assaggiare, ripetere, poi nuovamente assaggiare, e solo successivamente iniziare a fare qualche passo avanti con l’attrezzatura. Non lasciatevi tentare né spaventare: per le prime cotte va benissimo usare un pentolone sul fornello di casa e fermentare nel classico secchio di plastica, anche a temperatura ambiente se si utilizza il lievito giusto (Kveik su tutti). Ah, ecco. A proposito.

Il lievito giusto

Non voglio riprendere in questa sede tematiche già dibattute e approfondite (es. qui) sull’utilizzo dei lieviti secchi o dei lieviti liquidi, con o senza starter e via discorrendo. Riprendo invece il tema del post, ovvero la grande disponibilità e variabilità di prodotti di cui disponiamo oggi, che anche per i lieviti è talmente ampia da far girare la testa. Chi ha iniziato a fare birra una ventina di anni fa si arrangiava con quello che c’era in giro, a volte ripiegando anche sui lieviti da panificazione, certamente non la soluzione ideale per produrre birra. Oggi, come già approfondito in un precedente articolo di questa rubrica, la scelta è vasta e si arricchisce di nuovi prodotti giorno dopo giorno. Tuttavia, per non lasciarsi prendere dal panico alle prime cotte, è sufficiente dividere il mondo delle fermentazioni in quattro piccoli gruppi, a ciascuno dei quali assegnare un lievito di riferimento. Che, sia chiaro, non è in alcun modo l’unico disponibile o il migliore in assoluto, ma sicuramente rappresenta una scelta sicura per dar vita ai primi esperimenti. Qualche stile rimane ovviamente fuori da questa suddivisione, ma per iniziare la scelta è già piuttosto ampia così:

  1. Alte fermentazioni in cui il lievito non è particolarmente caratterizzante. Un gruppo formato da tantissimi stili, la maggior parte forse, come ad esempio IPA, APA, Porter, Stout, Amber Ale, Barley Wine. Ce la possiamo cavare con un lievito secco neutro, come US-05 della Fermentis o il BRY7 della Lallemand.
  2. Basse fermentazioni. Il buon vecchio W34/70 della Fermentis va più che bene per i primi esperimenti con questa grande famiglia di stili. Inoltre, non dimentichiamo che questo versatile lievito fermenta decentemente anche a temperature piuttosto alte per una bassa fermentazione (fino a 16-18°) senza produrre difetti o eccesso di aromi fruttati (meglio farlo lavorare a 10°C, ma in assenza di frigo ci si può arrangiare con risultati decenti, almeno fermentando in inverno).
  3. Birre fortemente caratterizzate dal lievito, come le beghe. Situazione un po’ difficile da gestire con i lieviti secchi, ma puntando ad esempio su stili quali Saison, si possono ottenere buoni risultati con il Belle Saison della Lallemand oppure il BE-134 della Fermentis (scordatevi però di clonare la Saison Dupont). T58 per le Dubbel (non il massimo, ma ci accontentiamo), mentre per gli altri stili belgi forse meglio aspettare di fare un po’ di esperienza e provare con in lievito liquido.
  4. Birre Weizen tedesche, sempre fortemente caratterizzate dal lievito. Terreno difficile, ma risultati decenti si possono ottenere con il Munich Classic della Lallemand.

Visto? Sei lieviti per decine e decine di stili. C’è tempo per fare esperienza.

Troppi professoroni

I saputelli sono sempre esistiti, in ogni ambito. Se ne incrociano di diverse tipologie. Quelli che tengono il loro sapere stretto in una mano, dispensandone qualche goccia a intervalli casuali, per poi svanire: amano farsi riconoscere dal gruppo come i detentori della conoscenza, ma non amano dispensarla perché temono di perdere il loro ruolo. Ci sono poi quelli che invece sono convinti di sapere tante cose, ma in realtà la loro competenza è solo una distorsione generata dal contesto in cui operano: non escono mai dalla bolla accogliente dei forum, dove le loro teorie strampalate vestite da scienza grazie a citazioni e parole pompose verrebbero presto confutate. A mio avviso entrambe queste tipologie di professori sono poco utili alla causa, ma aiutano a colorire i vari gruppi Facebook che altrimenti sarebbero piuttosto noiosi e ripetitivi.

Talvolta tuttavia non è colpa dei professoroni se il dialogo online non funziona, ma dei nuovi arrivati. Ecco, forse bisognerebbe imparare a non sparare la prima domanda che ci passa per la testa appena si entra a far parte di un gruppo di appassionati – tra l’altro spesso dopo la retorica introduzione “grazie per avermi accettato!”, che fa ridere perché un ingresso nel gruppo non si nega a nessuno, o “grazie per l’add!”, per i nostalgici di MySpace. O meglio, si possono anche sparare minchiate a casaccio, ma poi evitiamo di offenderci se arrivano i commenti ironici, o se qualcuno suggerisce, giustamente, di cliccare sul tasto “cerca” del gruppo per trovare risposta a una domanda già sviscerata in tutte le sue più piccole sfumature almeno una ventina di volte. Sono proprio questi nuovi arrivati che poi, puntualmente, danno dei professoroni a chi semplicemente ha suggerito di usare Google, oppure – udite! – il cervello, per trovare la risposta a un quesito elementare sulla produzione di birra casalinga. Alla larga dai professoroni, quindi, specialmente quelli di facciata, ma impariamo anche a usare i gruppi di appassionati nel modo migliore e per il bene della comunità. Un po’ di autoironia, infine, non guasta.

Relax, have an homebrew!

Charlie Papazian, pioniere del movimento di homebrewer americani, ci aveva visto lungo. Già 30 anni fa esortava i produttori casalinghi a stare tranquilli e mettersi ai pentoloni senza ansie. Più facile a dirsi che a farsi, su questo non c’è alcun dubbio. A tutti è capitato di passare a controllare il gorgogliatore nella speranza di veder spuntare le prime bolle che segnalano l’inizio della fermentazione (io lo faccio ancora). Di provare un immenso sollievo quando le bolle iniziano ad attraversare il gorgogliatore, per poi tornare in ansia quando smettono (sarà troppo presto? La fermentazione è bloccata? Imbottiglio o non imbottiglio?). Oppure quella volta che la temperatura di ammostamento è sfuggita al controllo e il mosto si è scaldato oltre i 70°C (avrò rovinato tutto? Ho distrutto gli enzimi? Farò una birra piena di amidi?). Cose che capitano, ma che difficilmente riescono a compromettere una cotta. Alla fine la birra viene fuori, e se non è perfetta non sarà la fine del mondo.

Ricordo quando alle prime cotte speravo di produrre la ricetta perfetta al primo colpo. Ci tenevo, ero convinto che il solo studio teorico avrebbe portato a risultati eccellenti. Sarei stato un fenomeno, un genio, un mito della produzione casalinga! Ovviamente non è stato così. Come per tutte le attività pratiche, serve tempo per imparare e affinare il processo. Che nei passaggi base è anche semplice, ma sotto sotto è fatto di tantissimi dettagli e variabili su cui ogni volta si può intervenire, producendo risultati diversi. E non dimentichiamo che si parte da materie prime che sono un prodotto agricolo come malto e luppolo o addirittura organismi viventi, come il lievito. E che la variabilità è una parte essenziale del processo di produzione artigianale.

Fare birra è davvero così complicato? Nel profondo sì, ovviamente. Se ancora sono qui, dopo la 100esima cotta, a riflettere giorni su una ricetta, un po’ complicato lo è. Ma questa complessità non deve scoraggiare, anzi. È proprio la complessità a rendere questo hobby così appassionante. Tra tutti gli hobby che ho sperimentato di persona, l’homebrewing è quello che è durato di più nel tempo. È quello che riesce ancora ad appassionarmi e a stupirmi dopo tanti anni, proprio perché ogni volta scopro qualcosa di nuovo. Basta cambiare una variabile (un malto, un luppolo, ma anche il momento in cui viene aggiunto il luppolo) per produrre una nuova birra. Fortunatamente è una complessità che si può abbracciare per gradi, partendo da una pentola, una ricetta semplice, un fermentatore in plastica e tanto entusiasmo. Ma è un entusiasmo che non passa mai.

Francesco Antonelli
Francesco Antonellihttp://www.brewingbad.com/
Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. È giudice certificato BJCP (Beer Judge Certification Program).

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8 Commenti

  1. Ciao Francesco. Bell’articolo! Sono 4 anni che seguo l’esempio di Charlie Papazian e mi sono sempre trovato benissimo…….e anche i miei amici :-))
    Articoli sempre puntuali e interessanti, complimenti.

  2. Congratulazioni per l’articolo! Mi è parso di capire tra le righe,che la vera verità non la possiede nessuno: come dice quel proverbio?… ah…non è buono ciò che è buono, ma buono ciò che piace. Un saluto a tutti gli appassionati.

  3. Il messaggio che passa, come ribadito nei commenti, è quello che la verità non la possiede nessuno, lasciando intendere che la birra sia alchimia. La birra non è alchimia, la birra è scienza e ci sono nientemeno che delle università dove viene insegnata. Loro hanno la verità, le scuole di pensiero esistono solo sui forum per amatori.

    • Non era quello il messaggio che volevo far passare. Sono d’accordo con te che sotto c’è una base di scienza (sai quanto ci tengo e quanto la studio), ma le variabili nel processo sono talmente tante che non esiste un solo modo per produrre un determinato risultato. E non è sempre tutto bianco o nero. Mi riferisco alle famose domande “lo starter è indispendabile”, “travaso o non travaso”, “il carapils sere davvero alla schiuma” e via discorrendo. Non esistono risposte universalmente valide a domande del genere, molto dipende dall’approccio che si utilizza, dagli ingredienti, dalle specifiche condizioni al contorno. Il mondo della microbiologia e della chimica che è alla base del processo di produzione è sconfinato, e non bisogna necessariamente conoscerlo tutto nel dettaglio per produrre buona birra (altrimenti avremmo tutti birrai tipo Kunze, che ha scritto un mattone scientifico da mille pagine). Basta pensare che i risultati di una fermentazione, a parità di lievito, possono dipendere dalla densità del mosto, dal tipo di malto utilizzato, dalla temperatura dei primi giorni, dalla conta delle cellule, dalla vitalità delle cellule, dalla forma del fermentatore, dalla pressione nel fermentatore e via discorrendo. Tutto ben descritto in libri enormi pieni di scienza (ma nemmeno tutto, perché alcune cose ancora non si comprendono bene, guarda il rilascio dei composti aromatici dal luppolo, per dirne una) ma difficile che un birraio, anche bravo, mediamente conosca tutti questi dettagli.

      Tante certezze sono state ribaltate negli ultimi anni in campo di produzione di birra, è bene rimanere con una mente aperta. Io ho un approccio molto rigoroso, ma per me in questo campo, specialmente se preso come hobby, lo studio non è tutto. E se qualcuno si accontenta magari di produrre birre mediocri ma che a lui piacciono molto, in ambito casalingo, va benissimo. Può sempre fare il salto in un secondo momento, oppure mai. Purché, certo, non vada in giro professando di avere in mano la verità.

      Ovviamente il post è indirizzato a chi si avvicina al mondo della produzione casalinga e magari all’inizio si sente sovrastato dalle informazioni disponibili. Il mio messaggio è che, con un po’ di studio, molta passione e un approccio graduale, si possono produrre ottime birre in casa senza necessariamente dover passare anni a studiare in una delle università dove si spacca il capello in quattro. Tutto qui. Se poi magari dall’articolo si evince altro (ma non mi sembra che i commenti sopra intendessero quello), preciso (per chi non mi conoscesse e non conoscesse il mio approccio) che l’invito allo studio è sempre valido, come ho scritto nel paragrafetto in cui consiglio di acquistare un buon libro invece di cercare informazioni sparse in giro per il web.

  4. E’ un discorso troppo lungo per affrontarlo qui. Ma esistono delle linee guida, una teoria sul funzionamento dei processi microbiologici e chimici. Imparati quelli, si diradano i dubbi e diventa più facile valutare il resto. Il problema è quando quelle linee non le hai e devi ascoltare le scuole di pensiero senza basi per valutarle.

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