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J Wakefield vs Fremont Brewing, le diverse dinamiche dell’hype

Quando si parla tra appassionati e non di birrifici americani, uno dei primi argomenti è sempre il successo, la rinomanza, l’essere ricercato e sulla bocca dei geek. In una parola, l’hype, l’essere sulla “cresta dell’onda” della scena brassicola statunitense e non solo. Tuttavia, molteplici possono essere le ragioni e i meccanismi, altrettante le sfaccettature e le azioni dei birrifici che possono portare a una condizione di hype. Emblematico in tal senso è il confronto tra i due birrifici in epigrafe, che presentano punti di contatto, ma per certi versi risultano quasi antitetici, a cominciare dal punto di vista geografico: J Wakefield situato a Wynwood, Florida, nelle immediate vicinanze di Miami Beach, e Fremont Brewing, di base a Seattle, Washington.

J Wakefield

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J Wakefield è stato fondato da Jonathan Wakefield nel 2015 grazie a una campagna di crowdfunding che ha raccolto 50.000 dollari in sole 30 ore dall’apertura per le sottoscrizioni. Impressionante a dir poco la tempistica verrebbe da dire, ma fino a un certo punto. Invero, ben prima del 2015, Jonathan Wakefield, fondatore e attuale proprietario unico e brewmaster di J Wakefield, era già molto conosciuto in tutto lo stato della Florida e secondo diversi pareri autorevoli considerato il miglior homebrewer dello stato. Sul punto, destava scalpore sia la sua abilità di reinterpretare le Berliner Weisse con un uso generoso di frutta locale tropicale, sia la rotondità, la profondità e l’uso quasi sfrontato di adjuncts nelle Imperial Stout.

Come spesso accade per i birrifici statunitensi, l’apertura della taproom appena ristrutturata, specie se in sostanziale contemporaneità con l’inizio produttivo, dimostra la volontà del birrificio di avere un luogo dove le birre possano essere servite e bevute nelle migliori condizioni possibili e di creare un fortissimo legame con la comunità locale. “Your neighbour is your first and best customer” mi raccontava il manager della taproom di Mikerphone un paio di anni fa. È il caso di J Wakefield, la cui taproom, sebbene non grande, sin dagli inizi ha rappresentato un importante punto di aggregazione per Wynwood, circostanza favorita anche dalla fama del suo fondatore. Tuttavia, a mio avviso il birrificio si è segnalato anche per la scelta di darsi da subito una vocazione internazionale, nel senso che fin dal secondo anno di apertura J Wakefield ha iniziato a partecipare ai più importanti festival americani ed europei, quali ad esempio MBCC ed Extravaganza.

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Al contempo, ogni anno il birrificio organizza solitamente a febbraio un festival tra i più rinomati dello stato della Florida, il WakeFest, al quale partecipano oltre 100 tra i birrifici più importanti e in hype degli Stati Uniti. Da segnalare la possibilità di acquistare biglietti VIP, che nell’ultima edizione erano comprensivi di un set di bottiglie di JW, alcune delle quali molto richieste e limitate nella tiratura, come la It Was All a Dream. Inoltre, facile e quasi inane sottolineare la strategia di marketing abbastanza aggressiva di JW nella pubblicizzazione di ogni release, evento nella taproom o festival cui partecipi. Discorso analogo per le etichette, alcune molto belle, sempre contraddistinte da colori sgargianti – molto Florida Style, a volte un po’ kitsch insomma – atte comunque a catturare l’attenzione.

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Da quanto esposto, discende abbastanza agevolmente che l’obiettivo di JW sia stato suscitare un “interesse” (eufemismo) il più possibile globale: missione compiuta direi, visto che le release delle bottiglie, specie alcune Imperial Stout e alcune reinterpretazioni di Berliner Weisse come la Miami Madness e la DFPF, causano code chilometriche con gli astanti già in fila il giorno prima e i biglietti letteralmente polverizzati in pochi minuti. In aggiunta, alcune Imperial Stout raggiungono quotazioni altissime sul mercato secondario e su quello dei trade continentali e internazionali, sia per la supposta qualità, sia per la limitata tiratura del singolo batch.

Ci sono tutti gli elementi per considerare J Wakefield in forte hype, fortissimo su alcune referenze. Ma quanto è giustificata nei fatti tale aspettativa? Sicuramente alcune referenze come la DB La Nada, il primo batch di Big Poppa, le citate Miami Madness e DFPF, sono ottime birre con un rapporto qualità – valore di trade abbastanza corretto. Altro discorso per diverse referenze le cui quotazioni vanno tranquillamente sopra i 300 dollari e che, per quanto ho bevuto, non mi sembra valgano la valutazione e la spasmodica ricerca. E ancora, non posso far a meno di notare come negli ultimi due anni via sia stata una crescita esponenziale del numero di bottiglie prodotte, inclusi i set da bottiglie multiple: l’ultimo in questo senso è il “coming soon” dedicato a Gauntlet, un kit da 7 bottiglie incentrato su un’unica birra base, una Russian Imperial Stout, oggetto di invecchiamento in 7 diversi botti. Inutile sottolineare che queste pratiche mi lasciano un po’ perplesso, poiché ritengo che l’accrescimento delle referenze prodotte e i maxi set non siano sintomatici di uno standard qualitativo molto alto quale dovrebbe essere, ed è su alcune referenze, quello di J Wakefield. In ogni caso ritengo questo produttore un buonissimo player, il migliore nella zona di Miami.

Fremont Brewing

Fremont Brewing è stato aperto nel 2009 da Sara Nelson e Matt Linceum, una coppia di sposi ancora al timone del birrificio, con quest’ultimo che riveste il ruolo di head brewer . Anche in questo caso, l’apertura della taproom è stata sostanzialmente contemporanea all’inizio della produzione, ma, se possibile, il legame di Fremont con la comunità locale è ancora più forte. D’altronde, anche Sara e Matt hanno ex tunc ritenuto i locals come un elemento imprescindibile:

Non abbiamo mai cercato di essere il birrificio dell’ora, del giorno, del mese o dell’anno. Abbiamo fondato e continuiamo a portare avanti Fremont come un progetto familiare a lungo termine radicato nella cultura imprenditoriale e sociale di Seattle e Ballard.

Cartina di tornasole di tale impostazione è lo Urban Beer Garden, molto caratteristico con la sua doppia entrata, una sul lato ovest e l’altra sul lato est, e il doppio bancone. È considerato dagli abitanti di Seattle quasi all’unanimità come il miglior posto dove puoi bere una buona birra all’aria aperta e ascoltare musica dal vivo, in un ambiente vivace, informale ma allo stesso tempo molto vivibile. Combinazione affatto scontata quando si parla di taproom di birrifici, anche statunitensi.

Allo stato attuale, Fremont ha una capacità produttiva di poco superiore ai 45.000 barili l’anno che lo colloca al secondo posto tra i birrifici indipendenti e craft dello stato di Washington. Tale capacità è stata raggiunta grazie ad uno spostamento dalla sede originaria del birrificio, dove attualmente è allocata la bottaia per il barrel aging program, in uno spazio produttivo più grande sito a Ballard. Il tutto è stato possibile con l’ausilio di un mutuo (“Loan Facility Agreement”) da 8 milioni di dollari, investimento dettato preminentemente dal forte aumento della domanda locale e statale.

Da questo assunto discende a mio avviso la considerazione che Fremont ha soprattutto investito in infrastrutture produttive, personale e comunità locale, piuttosto che nel raggiungimento di una visibilità e una dimensione internazionale. Sul punto, appare piuttosto illuminante l’affermazione dell’head brewer:

Uno degli elementi fondamentali del successo di Fremont è soddisfare la domanda, preservando e migliorando la qualità, e pertanto la soluzione più efficace è investire in infrastrutture e nella scienza applicata al nostro settore. Bastano un paio di batch sbagliati per rovinare la reputazione di Fremont a Seattle e nello stato di Washington

Nella pratica, l’affermazione si traduce nel fatto che Fremont ha tre persone che dedicate a tempo pieno al controllo qualitativo, e un laboratorio interno che effettua test su ogni batch che esce dal birrificio.

Nonostante Fremont sia un birrificio “locally rooted” e la comunità locale non esiti ad accorrere in massa alle release di bottiglie facenti parte del barrel aging program, specie Barley Wine, Strong Ale e Imperial Stout, l’ampliamento produttivo ha indubbiamente facilitato l’accesso degli appassionati di altri stati alle birre di Fremont. Così è cresciuta la reperibilità di molti prodotti, in particolare quelli più ricercati, incluse le relative varianti: quest’ultime si contraddistinguono per la presenza di non più di una o due adjuncts, comunque mai coprenti ma al contrario capaci di esaltare la birra base. Scordatevi tuttavia valutazioni stratosferiche delle birre sul mercato secondario, release di set da 5, 7 birre o più o tirature limitatissime. Di solito le referenze affinate in legno hanno al massimo due varianti, come nel caso della B-bomb (Strong Ale) e della Dark Star, entrambe bourbon barrel aged, con le versioni regular delle predette piuttosto facilmente rinvenibili via trade ad un valore piuttosto moderato. Il descritto quadro implementa una considerazione molto alta da parte degli appassionati americani circa Fremont, considerato, a mio avviso a piena ragione, un birrificio con ottime referenze dal grande rapporto qualità – prezzo, una continuità qualitativa e una solidità invidiabile con pochi rivali negli Stati Uniti.

In aggiunta, finalmente, a dieci anni dall’inaugurazione, Fremont per la prima volta ha mostrato un’apertura e un interesse ad una dimensione internazionale, nella specie partecipando al MBCC di Copenhagen con ottimi riscontri. Sul punto non ho alcuna remora a considerare la Coconut B-bomb in botti di bourbon e la Brew 3000, English Barley Wine sempre in botti di bourbon, come due tra le 6 migliori birre bevute al festival di Copenhagen.

Conclusioni

In conclusione, è di tutta evidenza come l’hype possa svilupparsi per ragioni, con modalità e tempistiche differenti, con ovviamente grande contributo dato dalle diverse politiche intraprese dal birrificio. Tuttavia, quando l’hype di un birrificio o della singola referenza è pari o addirittura superato dalla realtà dei fatti, è sempre una vittoria.

Pierluigi Nacci
Pierluigi Nacci
Appassionato di birra artigianale sin dal 2004, ha frequentato numerosi corsi di degustazione e nel corso degli anni ha sviluppato una predilezione per i viaggi birrari all'estero, comprensivi di visite a taproom e pub, e per i festival internazionali. Senza assolutamente tralasciare la scena italiana.

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