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Pub, birrifici, beershop, consumatori: com’è cambiata la birra artigianale

Da quando esiste Cronache di Birra ho sempre sottolineato la velocità con cui nel nostro ambiente si susseguono i cambiamenti. Tipologie birrarie che durano il tempo di una stagione, identità visive che sembrano vecchie da un anno all’altro, progetti che si affermano rapidamente e altrettanto rapidamente escono dai radar. È l’effetto di un fenomeno che ha cambiato totalmente il concetto di birra e che incorpora alcune delle dinamiche più contraddittorie della società moderna. A volte quindi occorre fermarsi, allontanarsi dall’immediata attualità e allargare lo sguardo per capire come queste turbolenze hanno effettivamente modificato il settore. Trasformazioni che hanno riguardato anche e soprattutto il nostro paese, ritrovatosi improvvisamente tra i protagonisti emergenti di uno dei fenomeni sociali e culturali più importanti degli ultimi decenni. Vediamo allora come sono cambiati in questi anni i vari soggetti che compongono la filiera della birra artigianale italiana.

Pub e birrerie

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La forma di attività che ha subito le maggiori trasformazioni è sicuramente la birreria, che per molti anni in Italia (almeno fino ai tardi ’90) è rimasta relegata a format che strizzavano l’occhio all’estero, in particolare gli Irish Pub. Il loro declino probabilmente sarebbe avvenuto comunque, ma è indubbio che l’ascesa della birra artigianale ha dato una bella spallata al fenomeno. Superato quindi un modello a lungo rimasto pressoché invariato, l’idea di birreria si è trasformata nel tempo, ricercando un’identità che per forza di cose – cioè a causa delle rapide evoluzioni del settore – è apparsa e appare tuttora mutevole.

Esemplificativo è il modo in cui è cambiata l’offerta. Fino a 20 anni fa nei pub giravano più o meno gli stessi marchi: a parte qualche caso rarissimo, le birre diverse che si incontravano nei vari locali italiani erano una decina, al massimo una ventina, e tutte riconducibili alle multinazionali del settore. Con il crescente interesse per la birra artigianale il contesto cambiò profondamente: alle spine dei pub cominciarono ad affacciarsi prodotti “speciali” e i distributori alternativi acquistarono nuove fette di mercato. Per alcuni anni abbiamo vissuto la fase degli impianti in comodato d’uso (soluzione comunque ancora ampiamente adottata), che limitavano sì la libertà di scelta delle birrerie ma permettevano comunque di ampliare l’offerta in maniera considerevole, oltre a proporre birre diverse (e in molti casi migliori). Con il passaggio agli impianti di spillatura di proprietà, e quindi alla diffusione dei pub indipendenti, la varietà dell’offerta crebbe in maniera esponenziale. Oggi viviamo una fase contraddittoria: da una parte c’è la tendenza a un rapido turnover alle spine di prodotti e birrifici diversi, dall’altra il consolidamento dei rapporti con i produttori locali. A ogni modo l’offerta è davvero molto ampia ed è indubbiamente un aspetto positivo.

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Ma i pub non sono cambiati solo da questo punto di vista, basti pensare ad esempio alle dimensioni degli impianti. Negli anni abbiamo assistito a un costante innalzamento nel numero delle spine disponibili nelle birrerie, fino ad arrivare a realtà con 20, 30 e più vie. Soluzioni che hanno garantito un certo ritorno d’immagine, ma che si sono scontrate con problemi gestionali abbastanza prevedibili. Oggi siamo vivendo una fase contraria: è sempre più raro imbattersi in nuove aperture con decine di spine diverse, mentre si è capito che spesso è meglio concentrarsi su un impianto di dimensioni contenute.

Infine anche l’offerta gastronomica è cambiata sensibilmente. Per fortuna il periodo dei panini di gomma e degli snack dalla dubbia provenienza è finita. Nel tempo i pub hanno posto sempre maggiore attenzione alla cucina, anche perché era necessario parlare di qualità non solo per la birra, ma anche per il resto dell’offerta. Alcune realtà hanno persino cercato di ribaltare totalmente il discorso e di proporre piatti ricercati, quasi da ristorante, talvolta in collaborazione con qualche chef famoso. Tentativi quasi sempre falliti e convertiti in proposte più immediate. Oggi a dominare i menu dei pub sono hamburger e panini realizzati con materie prime di qualità, non tanto per la mancanza di creatività da parte delle birrerie, ma per un fatto quasi fisiologico: parafrasando il sociologo McLuhan, potremmo dire che “il locale è il prodotto”, cioè che una certa impostazione di partenza influenza ciò che potrai andare a proporre, almeno in termini gastronomici.

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Beershop

Quello del beershop è un format che non sarebbe mai esistito senza la diffusione della birra artigianale. Nonostante le sue caratteristiche apparentemente poco modificabili, anche queste attività sono cambiate nel tempo. Inizialmente erano considerate alla stregua di enoteche per la birra: piccoli negozi con decine di bottiglie disposte sugli scaffali, divise per tipologia o per nazione di provenienza. Entravi, compravi la birra e la portavi a casa per berla. Un format che sembrava monolitico e addirittura marginale rispetto ai destini del settore. Poi sul finire degli anni 2000 si sviluppò una curiosa tendenza, limitata inizialmente quasi esclusivamente a Roma. I beershop divennero il luogo di ritrovo di un nuovo pubblico di giovani consumatori, che acquistavano le bottiglie per consumarle direttamente in strada, davanti al locale. Il fenomeno raggiunse dimensioni ragguardevoli, anche in seguito alla scelta di alcuni beershop di allestire piccoli banchi spina. Nella Capitale vivemmo una lunga stagione in cui aprirono tantissime attività di questo tipo, che in pratica crebbero un’intera generazione di consumatori. Poi, come tutti i fenomeni, anche quello dei beershop calò drasticamente, per di più in maniera piuttosto rapida. Ma la sua influenza sul movimento si riverbera ancora oggi.

Oggi i beershop sono tornati a essere un po’ più enoteche e un po’ meno pub, sebbene resistano molti esempi appartenenti al secondo gruppo. Una bella ventata di novità è arrivata con la diffusione delle lattine, che hanno finito per soppiantare le bottiglie nei frigoriferi di queste attività. La stessa offerta si è allargata: è sempre più facile imbattersi in beershop che propongono vini naturali, distillati e persino prodotto alimentari di qualità accanto alle birre.

Birrifici

Per il momento ci siamo concentrati sulla parte centrale della filiera, ma anche quella iniziale ha subito diversi cambiamenti in questi anni. Nella fase pionieristica della birra artigianale molti birrifici sono nati come brewpub, prevedendo quindi l’esistenza di un impianto di produzione all’interno di un grande locale di mescita. D’altro canto il mercato quasi non esisteva, dunque la produzione di birra doveva necessariamente essere assorbita dallo stesso locale. Poi qualcuno cominciò a imbottigliare e a piazzare i propri prodotti in enoteche, ristoranti, pub illuminati. Il settore iniziò a prendere forma e cominciarono a diffondersi birrifici “normali”, con sola produzione. Il numero delle aziende brassicole crebbe a ritmi impressionanti e si arrivò alla fase successiva, rappresentata dai marchi senza impianto di proprietà. Le beer firm hanno rappresentato un fenomeno molto importante, ancora in voga in tempi recenti, prima di mostrare tutti i loro limiti.

L’ultima fase di questa trasformazione si è avuta con lo sviluppo delle tap room e dei locali di proprietà. In un mercato sempre più competitivo, i birrifici sono tornati a sentire la necessità di un canale di somministrazione diretto, sicuro e controllabile. Le aziende hanno cominciato a investire nelle zone di mescita all’interno dei loro siti produttivi o comunque in locali a marchio gestiti personalmente. Sono tornati in auge i brewpub, nonostante l’impegno economico richiesto da progetti del genere, e sono cambiate le priorità: è sempre meno diffusa l’idea di vendere birra a centinaia di chilometri di distanza, preferendo invece concentrarsi sul territorio di appartenenza e sviluppare una comunità di consumatori fedeli e appassionati.

Consumatori

Infine anche i consumatori sono cambiati radicalmente in questi anni. La prima fase fu quella degli eremiti, cioè di coloro che – magari in seguito a un viaggio all’estero – erano entrati in contatto con la birra di qualità, ricercando in seguito quei due o tre marchi attraverso canali di fiducia. La fase successiva, arrivata insieme alla nascita del movimento artigianale, fu quella dei pionieri: neo appassionati pronti a sobbarcarsi decine di chilometri per frequentare quell’unico pub in zona che trattava birra di qualità. Poi ci fu il boom: aumentò il numero di birrifici, il numero di locali e, di conseguenza, il numero degli avventori. La base dei consumatori crebbe vistosamente, in molti furono attratti dal concetto di una birra “diversa” e per alcuni anni fu impossibile non accorgersi dell’entusiasmante fermento in atto, riscontrabile nei pub, nei festival, nell’opinione pubblica.

In quegli anni ci siamo chiesti se fosse in atto una vera rivoluzione nelle abitudini degli italiani o se fosse solo l’effetto di una moda passeggera. Oggi che quell’entusiasmo un po’ miope è passato, possiamo propendere per la seconda opzione. La birra artigianale non è più la moda del momento, ora il grande pubblico è passato a interessarsi di cocktail e del mondo della mixology. Ma come un’onda lascia sul bagnasciuga tante piccole conchiglie, così il “fenomeno” birra artigianale ha sparso tanti piccoli semi nel nostro ambiente: nuovi consumatori che magari si sono avvicinati per moda, ma che hanno scoperto una nuova passione da coltivare con ardore. E forse è questo l’anno zero, quello in cui cominciare davvero a costruire una cultura birraria nel nostro paese. Senza facili entusiasmi, senza persone che si avvicinano al nuovo trend del momento perché annoiate da quello precedente. Una comunità da coltivare sul territorio, con birrifici e locali che sappiano esaltare la dimensione intimistica e socializzante della nostra bevanda.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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7 Commenti

  1. Ci sono voluti più di 20 anni per capire quello che predicava, chi 20 anni fa era già del mestiere. Il problema, come scrivi sono i facili entusiasmi, che rendono miopi rispetto a certe scelte ed a certe mode. La birra artigianale italiana deve ancora mostrare il proprio potenziale e forse chi di dovere lo capirà tra altri 20 anni. Mentre per la cultura birraria sembra ancora utopia, visto che ancora non è diffusa nemmeno tra gli addetti ai lavori.

  2. Ma cosa si intende per cultura birraia? Il consumatore deve sapere/conoscere che in quella birra c’è il Brettanomyces bruxellensis anzichè il B. anomalus? Oppure deve conoscere tutte le caratteristiche degli innumerevoli stili presenti.
    E se poi dice che la birra “acida” non gli piace? Catastrofe?
    Secondo me il consumatore di massa (e con quelli il birrificio vive) vuole bere qualcosa di buono (stanno tornando bere “lager”) ad un prezzo onesto.
    Questo devono fare i birrifici. Qualità. E il consumatore la riconosce!

    • Hai ragione, non ho spiegato bene ciò che intendo. Nel caso specifico mi riferisco allo sviluppo di un consumo quotidiano di birra, a una penetrazione della bevanda nella quotidianità delle persone. Che il pub diventi luogo di ritrovo per tutti, al pari delle pizzerie o dei bar.

    • Cosa vuol dire cultura birraria? Prova a fare un vino e scriverci ispirato alla Barbera, come si fa per molte birre.

  3. Ciao,
    credo si possa sintetizzare così quando si utilizza la parola “cultura” in certi discorsi:

    Cultura = Abitudine.

    Quando si dice gli italiani hanno la cultura del vino infatti non si intende dire che bevono “consapevolmente” questo o quel vino perchè ne conoscono le caratteristiche produttive, organoletiche, storiche e quant’altro, ma semplicemente che lo fanno per abitudine, e perchè ovviamente il vino che bevono a loro piace.
    Così come si dice che i tedeschi e i cechi hanno la cultura della birra… di fatto bevono solo un certo tipo di lager tipiche del loro paese e anzi i tedeschi addirittura definiscono la birra belga “birra chimica”…

    Diciamo che forse le troppe accezioni legate a questa parola creano in effetti a volte delle incomprensioni… soprattutto quando il significato che gli si attribuisce è lontano dal suo significato principale che in fondo è “conoscenza”.

    Ciao

    Carlo

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