In questi giorni sta ricevendo parecchia attenzione un articolo apparso la scorsa settimana sul sito Vinepair. Il senso del pezzo a firma Cat Wolinski è facilmente riassumibile: negli USA le birre ammiraglie dei principali birrifici craft stanno perdendo consistenti fette di mercato a causa di consumatori sempre più annoiati. In che senso “annoiati”? Nel senso che la ricerca spasmodica per la novità – elemento da sempre presente in una ristretta cerchia di appassionati – si sta trasformando in un mantra collettivo capace di influenzare le scelte di acquisto e i dati del settore. A farne le spese sarebbero quindi le birre storiche, quelle su cui i birrifici hanno costruito la propria fama e che sono diventate dei classici senza tempo, ma proprio per questo sempre identiche a sé stesse e quindi poco intriganti. Ma è davvero così? La spiegazione per la sofferenza di certi marchi sul mercato è davvero riconducibile all’effetto novità?
Le cifre snocciolate da Wolinski rivelano una situazione molto preoccupante per alcuni produttori americani. La Boston Lager di Samuel Adams (Boston Beer Co.) è calata del 14% nel corso dell’ultimo anno, ma non meglio è andata alla Fat Tire di New Belgium (-19%) e alla Sierra Nevada Pale Ale. Da notare che quelli menzionati sono i tre più grandi birrifici craft dopo Yuengling, a dimostrazione che siamo al cospetto di una tendenza comune a tutti i marchi di una certa dimensione. I motivi del ridimensionamento possono solo essere intuiti e secondo l’autore dell’articolo sono da ricercare nei costi di crescita e nel raggiungimento di un punto di saturazione rispetto al proprio mercato, sostanzialmente di estensione regionale.
In realtà secondo Wolinski ci sarebbe un’ulteriore ragione per la tendenza al ribasso, da ricercare in quella mancanza di innovazione da parte dei grandi marchi. Quindi l’articolo cita varie cause, ma poi finisce per concentrarsi quasi esclusivamente su quest’ultima seguendo un sillogismo che a me sembra francamente pretestuoso. È vero che la ricerca della novità sta diventando un fenomeno dai tratti al limite dell’isteria, ma è pur sempre un atteggiamento che riguarda la piccola nicchia degli appassionati di birra. Su larga scala, cioè in riferimento alle reali dimensioni di questi marchi, l’impatto di una simile ossessione non può giustificare numeri talmente impietosi. Dunque secondo me la ragione va ricercata altrove.
E un indizio arriva proprio dall’articolo, che cita altri numeri senza però soffermarcisi più di tanto. Sono numeri opposti a quelli sciorinati in precedenza, che dimostrano la forte ascesa di alcuni prodotti brassicoli nel corso dell’ultimo anno. Cifre importanti, come quelle della Jai Alai IPA di Cigar City (+71%), della Space Dust IPA di Elysian (+68%), della All Day IPA di Founders (+33%), della Big Wave di Kona Brewing (+32%) o ancora della 805 di Firestone Walker (+21%). Se siete profondi conoscitori del settore, vi sarete accorti che quasi tutti questi birrifici non rientrano più nella definizione di craft beer della Brewers Association, essendo passati nelle mani di grandi marchi internazionali. Elysian ad esempio è di proprietà di AB Inbev, Firestone Walker è controllata da Duvel Moortgat e il 30% di Founders è in mano a San Miguel.
Se davvero le cosiddette flagship beer stanno soffrendo la ricerca spasmodica della novità, perché quelle appena citate ne sono esenti e mostrano invece straordinarie percentuali di crescita? Evidentemente il legame tra i due elementi non è così automatico e a fare la differenza è piuttosto un’altra causa. Che è lì, sotto gli occhi di tutti: l’assetto societario che si nasconde dietro alcuni marchi. Lo shopping forsennato con cui l’industria negli ultimi tempi è entrata nel mondo craft sta portando i suoi frutti, suffragati dai dati di mercato. Come raccontato a settembre, ora i marchi ex artigianali di AB Inbev vendono più di qualsiasi birrificio craft americano: mentre il portfolio della multinazionale belga è cresciuto del 20% in supermercati e alimentari, Sierra Nevada è rimasta stabile (+2%) e Boston Beer è calata sensibilmente (-6,5%).
Avere una multinazionale alle spalle permette a marchi come Elysian, Firestone Walker e Fouders (solo per citarne alcuni) di godere di risorse decisive in termini di promozione, distribuzione e comunicazione. Se questi brand crescono significa che stanno guadagnando terreno ai danni di altri: non di quelli medi o piccoli, che vivono in una dimensione ancora sostanzialmente immune a certe dinamiche (non sono diretti competitor), ma dei grandi birrifici craft che si trovano a lottare negli stessi spazi della grande distribuzione nazionale. Il risultato è evidente: i primi crescono, i secondi calano. E non certo per la ricerca incessante della novità.
L’ossessione per ciò che è nuovo è dunque un falso problema? Assolutamente no, ma a mio parere c’entra poco con questo discorso. È un fenomeno delicato e che merita profonde riflessioni, ma che semmai riguarda altre situazioni e altri contesti. Che affronteremo nei prossimi giorni, perché – come preventivabile – il dibattito nell’ambiente si è presto spostato su questo ulteriore tema. Però prima di farlo è bene archiviare un argomento individuando le giuste cause: le flagship beer dei grandi birrifici craft non stanno perdendo terreno perché annoiano i consumatori, ma perché altri prodotti stanno prendendo il loro posto. Nello specifico i prodotti ex artigianali delle multinazionali del settore.
Cigar City è craft
Sì giusto, quasi tutti…
Quando questo fenomeno si riverserà anche sulle piccole realtà? Quando anche l’Italia pagherà il prezzo di queste acquisizioni? Siamo destinati a trovare le birre artigianali solo a dei banchetti alle fiere di paese? Ma soprattutto, qualcuno ha i dati di vendita di Hibu, Ducato, Borgo (soprattutto la Lisa), birradamare e Toccalmatto? Sarebbe interessante per noi italiani avere questi dati. Riuscirete a parlarne prossimamente?
Eh mi piacerebbe parlarne, ma purtroppo come tu dici questi dati non esistono. Ah, comunque Toccalmatto è considerato ancora artigianale
Concordo al 100% con Andrea, i prodotti crafty o ex-artigianali pompati da grandi distribuzioni in ogni angolo del paese stanno mangiando, già da alcuni anni, i posizionamenti faticosamente raggiunti da molti birrifici indipendent, anche in Italiai. Fatica fatta per anni a spingere prodotti con publican e ristoratori, e spazzati via da un’offerta di Leffe, Grimbergen, o Ichnusa non filtrata (ma anche ultimamente Lisa) fatta dal primo commerciale col portafoglio a fisarmonica.
È evidente che qualcosa nella comunicazione della cosiddetta cultura birraria non ha funzionato. Fino a che i birrai contribuiranno alla disinformazione, chiamando le birre doppio malto, rossa, bionda senza indicare gli stili e punteranno all’ingrediente X, la confusione si ritorcerà contro di loro.
Lorenzo, da birraio rispettoso degli stili e della vecchia scuola di birra artigianale italiana ti quoto al 100%. Di fronte al deserto di conoscenza e alla necessità di vendere in concorrenza con l’ìindustria, le birre sono state proposte con “semplificazioni” sempre crescenti… a discapito della “complicazione” positiva che hanno le birre artigianali. Non so, forse i consumatori si sono stufati…
Non è che una fetta di consumatori si sta stufando di certi prezzi? Nella zona di Bari ho avvistato la Kerst di Extraomnes a 8 euro e mezzo e ovviamente l’ho lasciata dov’era.
Concordo con l’articolo di Andrea e con il commento di Lorenzo. Quest’anno, per la prima volta, ho ricevuto una cesta di natale con al posto del classico spumante, una bottiglia di un microbirrificio qui in zona (Bradipongo). Mai ci fu cesta più gradita. Non credo che il consumatore si stia stufando, anzi … stanno cambiando le abitudini. I microbirrifici curano di più la distribuzione a km 0 e negli ultimi tempi li trovi in sempre più posti con proposte più “aggressive” del passato, le multinazionali stanno prendendo piede in distribuzioni su larga scala. Le “flagship crafty” cosa hanno fatto negli ultimi anni? Probabilmente troppo poco.
Discorso giustissimo, ma c’e’ anche da dire che spesso I prezzi delle birre artigianli sono decisamente troppo alti e a volte la qualita’ non e’ il massimo. Quindi e’ normale che la gente compri birre piu’ accessibili e le ex artigianali spesso costano molto di meno.
Io sono appena tornato da una 5 giorni a Londra in cui, oltre ad aver visitato la città stupenda, ho passato parecchio tempo ai pub. Credo sia preoccupante (e mi collego a uno degli aspetti di questo articolo) come ormai la dicitura “Craft beers” indichi lo schifo più totale: Peroni, Moretti, nastro azzurro vengono vendute come “italian craft beers” presso qualsiasi pub. Solo quelli realmente attenti al prodotto mantengono fede all’artigianalità come la intendiamo noi. L’unico problema è che questi sono una piccola percentuale, ne cito alcuni che ho testato: la catena craft beer e co., The take, e tutte le tap room sul beer mile (southwark brewing, London beer project, London calling sweden, cloudwater, Moor, anspach& hobday, brew by numbers). Ma per il resto una cosa vergognosa, anche nel servizio presso i pub con metà selezione craft e metà industriali: bicchieri e birre letteralmente masturbate da gente incompetente per fare meno schiuma e servire velocemente, spillatura da cask non ne parliamo.
Inoltre confermo come i prodotti crafty purtroppo siano in mezzo ai pub medi (Camden, meantime, fourpure..) e la gente ne ordina perché fondamentalmente non sa, come qui in Italia per altro.
Spero non si arrivi mai a nulla di così confusionario anche in Italia.
Il servizio purtroppo è un problema atavico, il resto è molto inquietante