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Birra artigianale in Nevada e Arizona: dove e cosa bere a Las Vegas e Phoenix

La mia professione mi porta da diversi anni a visitare gli Stati Uniti ogni mese di luglio, lasciandomi fortunatamente lo spazio per unire i doveri professionali con la passione per la birra. La prima tappa del viaggio di quest’anno, come da qualche tempo a questa parte, è il caldo “parco giochi” di Las Vegas, oasi di divertimento e di gioco d’azzardo in mezzo al deserto del Nevada. Se la “Strip” – strada principale lunga più di 4 miglia e punto focale della città perché ospita tutte le principali attrazioni – e la downtown di Las Vegas è preda, come facilmente intuibile, dei grandi marchi birrari internazionali – il locale di BrewDog, in particolare, domina il centro della città ed è distribuito su ben 3 piani, con un rooftop di importanti dimensioni e una vista privilegiata che non ne giustifica però gli esorbitanti prezzi, più da ostriche e champagne che non da da birra e hamburger – uscendo di pochissimi chilometri dal centro si possono trovare alcuni birrifici molto interessanti dove di fianco alla sala di produzione c’è una taproom o un ristorante con prezzi sempre abbordabili, considerando i parametri importanti della città.

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È il caso ad esempio di Big Dogs (sito web), birrificio nato nel 2003 le cui lattine sono presenti in moltissimi dei ristoranti americani siti all’interno dei casinò di Vegas. Big Dogs, che produce moltissimi stili ma strizza l’occhio con decisione alle birre molto luppolate e alla famiglia delle IPA, organizza anche un evento annuale chiamato Dogtoberfest, che si tiene tutti gli anni l’ultimo sabato di ottobre scimmiottando il ben più celebre festival bavarese. Al contrario di quanto succede in Germania, però, Big Dogs mette a disposizione degli ospiti ben 45 spine diverse tra loro per accontentare ogni palato. Non ho mai avuto la fortuna di parteciparvi, ma un paio di amici che lavorano a UNLV (principale college di Las Vegas) lo descrivono come un’esperienza da provare.

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Da quando nel 2022 chiuse Gordon Biersch, che era nettamente la mia birreria preferita a Vegas, il locale in cui preferisco passare qualche ora a fine giornata è la taproom di Las Vegas Brewing (sito web) dove è possibile degustare molte delle loro produzioni unite a del cibo tutto sommato di qualità, se paragonato agli standard americani. Quest’anno ho molto apprezzato la loro West Coast IPA battezzata Junkie,  spinta su note agrumate e frutti tropicali ma senza perdere un buon bilanciamento complessivo e un corpo medio che ne facilitano la bevuta.

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Un giovane birrificio che ho conosciuto quest’anno è 7Five (sito web), brand moderno e molto attento al marketing che sta avendo una diffusione a macchia d’olio in moltissimi locali e casinò. Training Day, la loro Golden Ale, è una birra che si fa bere con grandissima facilità. Infine, segnalo Beerhaus (pagina Instagram), una birreria di assoluto livello che mi piace sempre frequentare all’uscita dell’hotel New York New York, andando verso l’ingresso della T-Mobile Arena. Offrono birre craft dei birrifici locali o della vicina California ed è un locale moderno e facilmente accessibile senza allontanarsi dalla via principale di Vegas.

Lasciata la frizzante Las Vegas ho fatto tappa in una città sicuramente più tranquilla ma altrettanto calda come Phoenix, capitale dell’Arizona. Phoenix, unica capitale statale negli USA con oltre un milione di abitanti, fu fondata nel 1867 come comunità agricola. Seppur situata in una zona desertica e con un clima, di conseguenza, infelice, grazie al suo sistema di canali ha sviluppato importanti colture che sono tuttora parti importanti dell’economia locale. Il cotone (cotton), il bestiame (cattle), gli agrumi (citrus), il clima (climate) e il rame (copper) erano conosciuti localmente come “le cinque C” dell’economia di Phoenix. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’arrivo delle aziende tecnologiche, il tasso di crescita della popolazione è aumentato in modo costante, rendendola sostenibile e positiva anche nei periodi di recessione.

Personalmente è stata la mia prima visita in città e sono rimasto impressionato dall’imponente panorama brassicolo che ho trovato. Da una veloce ricerca su Google avevo già intuito che il numero di birrifici e taproom fosse decisamente superiore alla media, ma non mi aspettavo un’offerta simile. In cinque giorni di permanenza in città sono riuscito a visitare sei taproom di altrettanti birrifici più, in aeroporto, una brevissima sosta al ristorante di PHX Beer (sito web). Il marchio è quello di un birrificio locale tra i più strutturati e conosciuti in città, che offre, oltre al ristorante nel terminal 3 del locale aeroporto, un’ampia taproom poco fuori dall’aeroporto stesso, lontana dal centro della città ma strategicamente comoda per la vicinanza al college di Arizona State University (ASU, istituto di imponenti dimensioni che ne fa una delle principali comunità della capitale dell’Arizona) e un altrettanto moderno ristorante a Scottsdale, località molto conosciuta dagli appassionati di golf, confinante con Phoenix.

Il locale downtown che più ho apprezzato è stata la taproom (una delle ben 6 presenti nell’area urbana di Phoenix) di State 48 Brewery (sito web), che offre ben 25 spine di quasi altrettanti stili, divise in tipologie ad alta fermentazione o mista (compresi vari stili belgi, Sour e Fruit Beer), 6 Lager (tra cui ho trovato la loro famosa Baltic Porter, 8,5% e Gold Medal alla World Beer Cup 2023) e “solamente” 6 IPA. Oltre alla Baltic Porter, con delicate note di cacao, caffè e cioccolato, ho apprezzato molto la IPA For Science!, con spiccate note di ananas, nespole e frutti di bosco.

Incuriosito da altri personaggi seduti all’ampio bancone del locale, ho conosciuto William Mammoth, aiuto birraio e “padre” della loro Sound of Freedom IPA, una West Coast da 7% con abbonandone utilizzo di luppolo Mosaic, che abbiamo degustato insieme parlando del mondo brassicolo “made in USA”. William mi ha confermato che le novità a stelle e strisce guardano moltissimo al panorama europeo e sono sempre di più le nuove birre prodotte seguendo modelli e stili del vecchio continente. La tendenza che invece negli USA non cambia, purtroppo, è quella di servire birre molto fredde indipendentemente dallo stile e con una tecnica di spillatura (a un colpo) identica per tutte le birre. Mi sono congedato da William non senza prima chiudere la giornata con una la Riptide Red, una Irish Red Ale da 5,8% con una buona base maltata, che non mi ha fatto rimpiangere per nulla le Red Ale che ho sempre apprezzato in Irlanda.

Il giorno dopo, su consiglio di William e grazie a un impegno professionale a nord di downtown, mi sono fermato nella taproom di un piccolo birrificio chiamato Roses by the stairs (sito web). L’azienda ha aperto nel 2022 ma si sta ritagliando una posizione di tutto rispetto nel panorama locale grazie alla ricerca di materie prime di alta qualità. All’interno del locale, diviso dalla zona di produzione solo da una decina di metri e da una fila di piccole botti destinate agli esperimenti di invecchiamento e rifermentazione, ho trovato una bellissima atmosfera di festa con musica dal vivo (era sabato). Qui ho degustato Tell all your friends, una Saison da 4,6% rustica e con piacevoli note di scorza di limone, prodotta con dry hopping, e Brown Bear, una Honey Nut Brown Ale da 6,5% con note di nocciola e zucchero di canna. Quest’ultima pinta mi è stata servita letteralmente senza schiuma e a una temperatura decisamente troppo fredda. C’è voluto qualche minuto di pazienza e una decisa scossa alla birra per poterla bere con tutte le sue caratteristiche in ordine.

Tornando nella zona centrale di Phoenix, il giorno successivo, ho fatto una piacevole sosta nella taproom di da Huss Brewing (sito web), birrificio a conduzione familiare che riscuote molto successo in zona, al punto da avere ben tre taproom a Phoenix, Scottsdale e Tempe. Da Huss ho bevuto un’interessantissima Coffee Kölsch, con un aroma veramente intenso di caffè in uno stile molto apprezzato negli Stati Uniti. Ricordo di aver assaggiato in passato birre molto simili sia a New Orleans che a Washington DC. La seconda birra testata è stata la Papago Coconut Joe, una Stout da 5,5% con intensi sentori di cioccolato, cacao e ancora caffè, in una giornata in cui evidentemente avevo particolare nostalgia di un forte espresso italiano.

Il quarto birrificio che mi sento di menzionare è Greenwood (sito web), la cui taproom è situata pericolosamente vicina all’hotel in cui ho soggiornato e in cui mi sono fermato un paio di sere per combattere il caldo atroce dell’Arizona. È un locale piccolo ma sempre pieno e con atmosfera festosa, e una menzione va sicuramente spesa per la loro Pale Ale Herstory, birra di una bevibilità incredibile con una delicata chiusura amara perfetta per una calda serata estiva.

Di fianco a Greenwood, realmente a due “blocchi” di distanza, si trova Arizona Wilderness (sito web), altro birrificio apprezzato in città – ho infatti incrociato le loro birre  anche in un paio di normali ristoranti – con un’impressionante scelta di spine e un frigorifero ben fornito per lattine e bottiglie da asporto. Tra le loro birre anche una Italian Pilsner e una buona selezione di birre di ispirazione belga con molte Farmhouse Ale e addirittura tre etichette senz’alcool, il cui consumo negli Stati Uniti sta avendo un importante sviluppo tra i giovanissimi.

Una storia particolare è raccontata dalla Pale Ale This beer saves water di questo birrificio: è stata lanciata nel mezzo di una crisi idrica e delle prime restrizioni sul tema per lo stato, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sull’uso dell’acqua e mostrare che le decisioni dei produttori di birra possono contribuire a mantenere il flusso dei fiumi. La siccità e l’aumento della domanda, come gli effetti del cambiamento climatico, hanno ridotto la quantità di acqua nei bacini più grandi dell’Arizona fino a portare a restrizioni federali sull’uso dell’acqua. Così Arizona Wilderness ha deciso di creare una birra che attirasse l’attenzione sulla crisi idrica e offrisse una possibile soluzione. Questa birra è prodotta utilizzando l’orzo proveniente da Sinagua Malt, azienda con sede nella Verde Valley dell’Arizona, che lavora con gli agricoltori locali per passare dalle tradizionali colture estive (come mais ed erba medica) all’orzo, un raccolto di fine inverno/primavera. Questo cambiamento si traduce in una minore deviazione di acqua dal fiume Verde durante i periodi di elevata domanda e di scarso flusso, lasciando più risorse idriche per le persone e la fauna selvatica. Dal 2019, gli sforzi di Sinagua hanno preservato più di 425 milioni di litri d’acqua del fiume Verde. Le birre di Arizona Wilderness utilizzano come base il malto Sinagua e sono spesso luppolate con varietà Sabro e Zappa, entrambe piuttosto resistenti alla siccità. La speranza del birrificio è che la birra ispiri le persone a iniziare a pensare a come risparmiare acqua e sostenere le aziende che si dimostrano proattive riguardo alla sostenibilità.

Lorenzo Gallotti
Lorenzo Gallotti
Bevitore curioso e appassionato, sempre pronto a provare qualcosa di nuovo, aspirante giudice BJCP. Ha conseguito i diplomi di "Master Beer Sommelier” e di “Beer Sommelier" con la Scuola Italiana Sommelier. Oltre alla birra, ama lo sport, viaggiare, la tecnologia e cerca sempre di combinare le sue passioni.

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2 Commenti

  1. Tra LAS vegas e Phoenix segnalo la fervida vivacità birraia di Flagstaf. Cittadina universitaria alle porte del Grand canyon annovera nel suo piacevole centro storico in stile western ben 5 birrifici di qualità con un’ ampia proposta di stili che spesso strizzano l’ occhio a quelli europei quali weiz pils e Golden Ale.

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