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Quattro stili dimenticati o poco reperibili da produrre in casa

Chi fa birra in casa ha un enorme vantaggio rispetto a un bevitore qualunque: può produrre stili che non ha mai assaggiato. Non è certo l’approccio più ortodosso per imparare a fare birra in casa, ma è senza dubbio intrigante. Serve un po’ di esperienza, perché interpretare delle linee guida (come quelle del BJCP) e metterle in pratica non è l’impresa più semplice del mondo. Diciamo che in genere sarebbe preferibile prendere la macchina, l’aereo o il treno e recarsi nella località in cui viene prodotto un certo stile per assaggiarlo, prima di provare a riprodurlo in casa. Ma non sempre questo è possibile, come nel caso di stili storici scomparsi dalla circolazione da secoli. In altri casi, come può essere l’esempio delle Kölsch di Colonia o delle Altbier di Düsseldorf, pur avendo assaggiato questi stili alla fonte, si ha il desiderio di averli sempre a portata di mano. E qui la produzione casalinga aiuta. Oggi ripercorriamo brevemente la storia di quattro stili che potrebbe essere interessante e divertente produrre in casa: alcuni perché del tutto dimenticati, altri perché difficili da reperire lontano dal luogo di produzione. Il tutto condito da qualche consiglio per impostare la ricetta.

Kentucky Common

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Quando si pensa all’America birraria, vengono subito in mente due grandi famiglie di stili: le insipide Lager industriali, che in America hanno raggiunto livelli di industrializzazione intensivi fino a diffondersi in tutto il mondo, e le birre estreme, o per luppolatura (si pensi alle IPA e alle APA) o per intensità (Imperial Stout, Barley Wine). È curioso che i sottostili appartenenti a queste due grandi famiglie non siano affatto di origine americana. Le Lager sono nate in Europa tra il 1500 e la prima metà del 1800, in Repubblica Ceca e Germania, per poi essere esportate in America dagli emigranti tedeschi a partire dalla seconda metà dell’800. Così come IPA, Barley Wine e Imperial Stout sono invece nate, ancor prima, in Inghilterra, per essere poi reinterpretate dai birrai americani a partire dagli anni 60-70 del novecento, trasformandosi nelle muscolose versioni d’oltreoceano con cui tutti abbiamo ormai una certa familiarità. Gli stili nativi americani sono invece altri, meno diffusi e poco noti.

Conosciamo più o meno tutti le California Common nate sulla costa ovest, nella zona di San Francisco, e portate in auge dalla Anchor Brewing con l’esempio classico incarnato dalla Anchor Steam. Sono abbastanza note anche le Cream Ale, che di cremoso non hanno nulla se non il nome e sono sostanzialmente delle versioni ad alta fermentazione delle lager industriali. Ma chi conosce le Kentucky Common? E, soprattutto, chi ha avuto la fortuna di assaggiarne una? Uno stile completamente dimenticato, studiato da alcuni appassionati grazie agli archivi di vari birrifici, ormai chiusi da anni, della zona di Louisville, cittadina del Kentucky. Prima della dichiarazione del proibizionismo con il Volstead Act del 1919, le Kentucky Common costituivano il 75% delle birre bevute nella zona di Louisville.

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Uno studio dettagliato e interessante si trova in forma di pdf in rete sul suto del BJCP (link). Racconta di una birra prodotta con una buona percentuale di mais (intorno al 35-40% del grist) da trattare con un cereal mash, ovvero una veloce bollitura, fatta a parte, per facilitare la solubilizzazione degli amidi. In ricetta troviamo anche una piccola percentuale di black malt (1-2%), utilizzato probabilmente in origine per aumentare in modo semplice e immediato l’acidità della miscela in ammostamento. Completa la ricetta un pizzico di malto crystal, sempre in percentuali molto basse (intorno all’1%, in alcuni casi sostituito interamente da caramello liquido per dare colore). La luppolatura è di tipo continentale: con molta probabilità venivano impiegate varietà Americane simili ai luppoli europei come il Cluster. Amaro a bilanciare, senza eccessi, con un piccolo contributo a fine bollitura per un aroma leggermente erbaceo. Alcuni sostengono che le Kentucky Common avessero una componente acida dovuta all’azione dei lattobacilli, tuttavia è difficile che i birrifici americani nei primi del 1900, periodo di maggiore diffusione di questo stile, utilizzassero lattobacilli resistenti al luppolo in birrificio, con il rischio di contaminare l’intera linea di produzione. Nella descrizione che ne fa il BJCP l’acidità viene esclusa. È ipotizzabile l’utilizzo di un qualsiasi lievito neutro ad alta fermentazione, come US-05 o BRY-97.

Mi è capitato, per puro caso quando sono stato a Varsavia qualche anno fa, di berne una interpretazione prodotta dal birrificio polacco Browar Pinta. Ricordo una birra strana, leggermente caramellosa, non acida, che ricordava in qualche modo una Bitter inglese ma con meno carattere. Sarei curioso di provare a produrla a casa, anche per verificare di persona l’effetto di una così alta quantità di mais sul profilo organolettico. Tra l’altro, potrebbe essere una buona ricetta per valorizzare una varietà locale di mais.

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Pre-prohibition porter

Il periodo del Proibizionismo segnò, per ovvie ragioni, un punto di rottura nell’evoluzione degli stili birrari americani. I 14 anni in cui il divieto di produzione e commercializzazione di bevande alcoliche fu in vigore negli Stati Uniti decretarono per sempre il destino di alcuni stili birrari. Le Kentucky Common sparirono del tutto mentre altri subirono dei cambiamenti che le resero molto diverse dagli esempi diffusi prima del Proibizionismo. In questo caso non parliamo di uno stile nativamente americano, ma di una versione americanizzata delle Porter inglesi, approdate sulla costa est dell’America grazie all’emigrazione inglese che nella seconda metà del 1600 conquistò la Pennsylvania e in particolare la città di Philadelphia. Questa è la ragione per cui le Pre-Prohibition Porter vengono spesso chiamate Philadelphia Porter o Pennsylvania Porter.

Cos’hanno di particolare? Dal punto di vista organolettico, sono senza dubbio meno interessanti delle Kentucky Common. Si tratta infatti di riprodurre le Porter inglesi con ingredienti tipicamente americani. Malto esastico (six-row), che ha un contenuto di proteine maggiore rispetto al nostro malto distico (two-row). Difficile trovarlo in Europa, ma non indispensabile per lo stile: si può ricorrere a un mix tra malto distico di tipo Pale Ale e malto Pilsner (50 e 50). Spesso viene impiegata una significativa quantità di mais (intorno al 20%), insieme ad aggiunte varie per colorare e dare aroma e flavour come liquirizia, molassa o addirittura un estratto di mais bollito e condensato che veniva chiamato “Porterine”. Completano la ricetta una piccola dose di malti tostati come crystal, brown o black malt, bilanciata in modo da evitare un contributo estremamente tostato. Luppolatura americana di stampo tradizionale con luppoli come Cluster, Northern Brewer o un pizzico di Cascade.

Il risultato è una birra piuttosto delicata, con corpo medio snello, amaro contenuto, aroma di luppolo quasi assente, tostato moderato. Una sorta di Schwarzbier con utilizzo di mais, tanto che può essere fermentata sia con lieviti ad alta che bassa fermentazione. Un interessante esperimento per provare a produrre una birra scura e leggera sperimentando con aggiunte particolari come melassa o liquirizia. Sarei curioso di vedere l’espressione sul volto del giudice che si trovasse a valutare una birra del genere in un concorso. Sicuramente verrebbe ricordata, nel bene e nel male.

Trappist Single

Quando uno stile birrario viene prodotto principalmente in loco e raramente commercializzato in bottiglia o in fusto, l’approccio casalingo alla produzione acquista ancora più valore. Una delle mie grandi lacune birrarie è non aver mai visitato nessuno dei famosi monasteri trappisti del Belgio. Ho fatto alcuni viaggi a Bruxelles e dintorni, ma non mi sono mai spinto nei luoghi sacri in cui vengono prodotte le birre trappiste. Fortunatamente le creazioni più famose dei monaci trappisti si possono reperire con una discreta facilità: i pilastri birrari di Rochefort, Westmalle, Chimay, Orval si trovano a volte anche al supermercato, e comunque con poca difficoltà si possono acquistare online. Perfino la fantomatica Westvleteren 12 è abbastanza reperibile a un costo alto ma non certo proibitivo (tant’è che mi è capitato di berla diverse volte senza aver mai visitato l’abbazia). Esiste tuttavia un’altra sotto famiglia di birre trappiste altrettanto appaganti ma quasi impossibili da trovare al di fuori del pub del monastero: il BJCP le chiama Trappist Single, ma tra gli appassionati sono maggiormente note come Enkel (che in olandese significa appunto single) o ancora come Patersbier.

Si tratta di birre dal colore dorato, piuttosto luppolate e a con tasso alcolico contenuto: siamo nell’intorno dei 5,5% ABV, che per i belgi è il minimo sindacale. La fermentazione viene condotta con il lievito della casa, regalando a questa “piccola” birra un interessante e variegato bouquet aromatico. Si tratta di birre per il consumo quotidiano, prodotte ad uso e consumo dei monaci del monastero. Tranne rare eccezioni, è possibile trovarle quasi esclusivamente al locale del monastero, disponibili alla spina. Un paio di volte sono riuscito a mettere le mani su una Westvleteren 6, la Enkel della Westvleteren, e sono rimasto veramente colpito: bevibilità eccezionale, amaro deciso ma mai sopra le righe; erbaceo presente ma estremamente delicato, accompagnato dalle note fruttate del lievito e da un sferzata fenolica che ricorda il pepe rosa. Una versione più armonica e meno estrema nella luppolatura rispetto alle moderne interpretazioni del Belgio luppolato come la Taras Boulba di De La Senne o  la XX Bitter di De Ranke.

La difficile reperibilità delle Patersbier costituisce un’ottima ragione per riprodurle in casa. Il punto chiave è ovviamente la fermentazione, soprattutto la scelta del lievito. Personalmente opterei per il classico Trappist High Gravity della Wyeast (WY3787) o il ceppo della White Labs che viene dato per equivalente (WLP530). Si parte dai 19°C per un paio di giorni, per poi salire fino a 22-23°C nei successivi 4-5 giorni. No lieviti secchi in questo caso, non ne esistono di validi per produrre uno stile del genere. Il grist è molto semplice: base malto Pilsner, anche al 100%, oppure con una piccola percentuale di Aromatic (2-3%) se si vogliono intensificare i riflessi dorati. Luppoli continentali come Saaz, Hallertau o Styrian Golding. Il rapporto BU/OG dovrebbe attestarsi su 0.6-0.7, con una buona dose di luppolo a fine bollitura (4 gr/L). Si può azzardare anche un dry hopping leggero, ma personalmente salterei questo passaggio per evitare di coprire troppo il lievito.

Scottish Ale

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: Scot-tish ale e Scot-ch ale non sono la stessa birra. Al primo gruppo appartengono tre interpretazioni di un medesimo stile: si tratta di birra incentrate sul malto e non molto alcoliche, poco diffuse e poco conosciute. Il secondo invece è uno stile ben noto chiamato anche Wee Heavy, rappresentato da birre muscolose, di grado alcolico medio alto, incentrate sul malto come da tradizione scozzese. Le Scottish Ale si dividono in tre sottocategorie a contenuto alcolico crescente che vanno da Light (3% ABV), Heavy (4% ABV) e Export (fino a 6% ABV). Vengono spesso indicate seguendo una convenzione dell’epoca che le indicava secondo il costo del fusto in shillings (60/-, 70/-, 80/-). Si tratta di uno stile veramente difficile da reperire, prodotto e consumato raramente anche in Scozia (come racconta lo storico inglese Ron Pattinson in questo breve articolo apparso su BeerAdvocate qualche anno fa).

Come tutti gli stili, anche le Scottish Ale sono cambiate negli anni, mostrando tratti diversi a seconda del periodo storico. Pattinson racconta come le Scottish Ale degli inizi del 900 fossero simili alle Mild inglesi (ma non si capisce a quali Mild inglesi, visto che anche questo stile ha cambiato radicalmente i connotati nel corso degli anni e si è diffuso in UK dopo la prima metà del novecento). Di interpretazioni commerciali se ne trovano poche, ma un buon punto di partenza per farsi un’idea dello stile è la 60/- Shilling di Belhaven, reperibile abbastanza facilmente in bottiglia anche al di fuori della Scozia. La versione moderna dello stile le pone in stretta parentela con le Bitter inglesi, con meno enfasi su amaro e aroma di luppolo e maggiore risalto alla componente maltata, che assume spesso note caramellose e leggermente tostate. Uno dei falsi miti che si raccontano spesso sulle birre scozzesi è che venisse usato meno luppolo perché poco coltivato in Scozia: sebbene quest’ultima parte sia sostanzialmente vera, è anche vero che a Edimburgo già nel 1800-1900 si producevano IPA ben luppolate (specialmente per l’esportazione) importando luppolo dall’Inghilterra. Il fatto che le Scottish Ales fossero meno luppolate era dovuto essenzialmente a una questione culturale e di gusto dei bevitori scozzesi (come racconta lo stesso Ron Pattinson in questo podcast).

La scarsa diffusione di questo stile è una buona occasione per provare a produrlo in casa. La ricetta non si discosta molto da quella di una classica Bitter inglese, in particolare se facciamo riferimento alle interpretazioni maggiormente incentrate sul malto. Sceglierei un malto base caratterizzante, come Maris Otter o Golden Promise, affiancato da un Crystal a media tostatura in una percentuale intorno al 4-5% e un tocco di malto Black o Chocolate (1-2%) che vada a chiudere con un finale tostato per stemperare la dolcezza residua. Luppolatura blanda con luppolo inglesi (BU/OG non superiore a 0.5) senza aggiunte a fine bollitura. Lievito inglese o scozzese per quel leggero tocco di esteri fruttati (prugna, leggera pera o frutta secca). Sceglierei il WLP028 facendolo partire da 18°C per poi alzare a 19-20°C dopo i primi due giorni di fermentazione. Ammostamento a 67°C per avere una fermentabilità nella media. Almeno una decina di giorni a 0-2°C per favorire la flocculazione e pulire bene la birra e far emergere il malto in primo piano. Carbonazione bassissima in bottiglia, massimo 1.8 volumi ma anche 1.5. Aspettatevi poca schiuma, fa parte dello stile.

Francesco Antonelli
Francesco Antonellihttp://www.brewingbad.com/
Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. È giudice certificato BJCP (Beer Judge Certification Program).

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