Leggendo il post di ieri sui risultati della World Beer Cup, ad alcuni di voi non sarà sfuggito il cenno alle categorie del concorso, che quest’anno sono state ben 94. Un numero altissimo, che se da una parte il comunicato stampa della Brewers Association sottolinea con orgoglio, dall’altra non può che sollevare qualche perplessità. Novantaquattro categorie non saranno troppe? Quesito più che legittimo, perché anche ripercorrendo mentalmente tutti gli stili birrari esistenti al mondo – che possiamo immaginare come unità minima di una categoria – fatichiamo ad arrivare a cifre del genere. Allora il primo istinto è di spulciare il pdf con tutti i risultati della World Beer Cup e capire come si è giunti a ideare 94 diverse categorie, scoprendo che in molti casi la definizione delle stesse è alquanto stramba.
Partiamo dal presupposto che la World Beer Cup è un’iniziativa che nasce negli Stati Uniti e di conseguenza risulta influenzata dai caratteri della rispettiva cultura birraria. Ecco allora che troviamo una categoria per le Pumpkin Beer, che in qualsiasi altro concorso non sarebbe minimamente contemplata. Il problema però non è tanto in una tipologia del genere, giustificabile per motivi “geografici” – il nostro Birra dell’anno ad esempio prende in considerazione le birre alle castagne – quanto nell’eccessiva parcellizzazione di alcune macro-categorie. Prendiamo le produzioni affinate in legno: invece di un singolo gruppo, il concorso americano prevede ben 4 sottotipologie, con un podio per ognuna di esse. Nello specifico:
- Wood- and Barrel-Aged Beer
- Wood- and Barrel-Aged Strong Beer
- Wood- and Barrel-Aged Strong Stout
- Wood- and Barrel-Aged Sour Beer
Troviamo poi delle categorie di cui si fatica a trovare il senso, come quella denominata “Australasian, Latin American or Tropical-Style Light Lager”, o altre che hanno confini così vaghi da diventare praticamente aleatorie, come quella delle “Session Beer” o delle “Aged Beer”. Abbiamo le birre alla frutta e le birre di frumento alla frutta, abbiamo le birre acide in stile americano e le birre brettate in stile americano. Abbiamo le birre sperimentali e le birre indigene, le German-Style Pale Wheat Ale e le German-Style Dark Wheat Ale (oltre alle classiche Hefeweizen). E abbiamo poi, come previsto, tutte le versioni “americane” degli stili classici, che quasi raddoppiano quindi il numero delle categorie. Insomma, un bel marasma, da cui è quasi naturale arrivare a 94 categorie finali.
È chiaro che una simile impostazione non può non sollevare qualche obiezione. Per la verità a livello internazionale il dibattito sull’argomento è sempre molto acceso e ovviamente torna in auge a ogni edizione della World Beer Cup. Sabato scorso sul suo Yours for Good Fermentables, Tom Cizauskas ha avanzato nuovi dubbi sul fenomeno della moltiplicazione delle categorie, agganciandosi anche a un post di Pete Brown risalente al 2010. L’idea di quest’ultimo era ben chiara fin da allora:
Il consumatore non necessita di 133 stili birrari. Né di 70. E nemmeno di 30. […] Rendete il tutto semplice e rilevante. Pensate dal punto di vista del consumatore, raggiunto da una quantità ingestibile di informazioni e con poco tempo a disposizione. […] Gli stili birrari sono un supporto nell’ispirare alcune persone a realizzare birre migliori. E di questo sono contento. Ma non ha alcun senso se non avvicina la gente – o addirittura la allontana – alle bellezze della birra artigianale.
Secondo me Pete Brown confonde le categorie di un concorso con il concetto di stile birrario, che è qualcosa di più importante e profondo e sul quale tornerò più avanti. Tuttavia risulta difficile non trovarsi d’accordo con il suo pensiero, se è vero che il moltiplicarsi di tanti premi spesso ha poco senso anche per noi appassionati.
E allora perché si decide di impostare un concorso in questo modo? Chiaramente non è una scelta immediata, ma una situazione che deriva da un processo di evoluzione negli anni. La World Beer Cup è tra i premi internazionali più importanti in assoluto e il numero di birre iscritte cresce di edizione in edizione. È dunque abbastanza naturale che si finisca per creare categorie distinte da una precedente categoria “affollata”, cosa che ad esempio è successa anche quest’anno per Birra dell’anno con la separazione tra IPA e APA. Il punto è che nel nostro caso la suddivisione era sensata e addirittura auspicabile, mentre lo stesso non si può dire per le tante tipologie di birre affinate in legno che abbiamo visto sopra.
In altre parole esiste un equilibrio delicato tra la necessità di diversificare le categorie e mantenere un valore semantico alle stesse. In alcuni casi sembra che la World Beer Cup abbia sacrificato il secondo concetto a favore del primo, forse anche a causa del desiderio di ampliare i possibili premi da assegnare ai birrifici partecipanti, che crescono costantemente.
Esiste allora un limite oltre il quale non ha senso andare? Difficile dirlo, perché il mondo della birra artigianale è in continua evoluzione. Secondo me avrebbe senso non scendere oltre il livello imposto dal BJCP, cioè il documento internazionale che stabilisce quali sono gli stili birrari internazionali (e che dovrebbe essere aggiornato a breve). Tuttavia è spesso lo stesso mercato a contribuire alla parcellizzazione (e quindi alla disintegrazione) degli stili, soprattutto quando i produttori, per scopi di marketing, inventano definizioni totalmente fantasiose per le loro creazioni.
Che ne pensate delle 94 categorie della World Beer Cup? Quali criteri seguireste per stabilire le categorie di un concorso birrario?
senza troppa polemica
io non capisco perché per dare autorevolezza ad una opinione sia necessario tirare in ballo Tom Cizauskas (e chi diavolo è?) o il solito guro straniero
in Italia sono anni che lo diciamo che un concorso con 100 categorie è una palese buffonata e un medaglificio per far contenti più professionisti possibile. un grosso evento al servizio del marketing, non dei consumatori
secondo me andrebbero tenuti in maggiore considerazione le opinioni di professionisti e appassionati di casa nostra: magari hanno meno medaglie appuntate, ma anche meno peli sulla lingua e ci arrivano prima
Non è che ho menzionato i due autori per dare autorevolezza al mio pensiero (cosa non necessaria, visto che, come tu dici, è condiviso da tanti), ma per spiegare che il dibattito è a livello internazionale.
a leggerti (non è questa la prima volta in casi simili) pare che il dibattito sia SOLO internazionale. anche perché non trovo un accenno a quello nazionale
Leggi meglio allora, a meno che tu non voglia fare sterile polemica. In tal caso evito di continuare a risponderti.
magari conviene che me lo indichi, io non trovo accenni, eppure ne parliamo da un pezzo
non c’è bisogno che ti stizzisci come al solito. personalmente guarderei più a cosa si dice a casa nostra senza bisogno di avallare sempre con qualche guro. abbiamo idee anche in Italia
Accantonando futili e sterili polemiche su esterofilia e compagnia bella, direi che troppe categorie sono semplicemente ridicole.
Effettivamente l’idea che tante categorie servano solo per assegnare tante medaglie non é del tutto sbagliata.
Soprattutto quando molti stili sono inventati per l ‘occasione, ed in questa per favorire chi gioca in casa.
Un discorso diverso farei per le sottocategorie, prorpio pensando alle quattro tipologie di barrel-aged, che non trovo
del tutto inoppprtuna: mettere insieme, per esempio, una saison di Wild, una barricata Baladin e una Yeti di Great Divide non mi sembra, se non altro, molto corretto, proprio a livello di fair play in una competizione.
Poi, il fatto che in alcune categorie vincano solo determinati paesi, che da secoli producono un certo stile (vedi Germania ) mi porterebbe a pensare che tante categorie portano a maggior rigore nel giudizio, che porta ad escludere magari buone birre, ma che non rientrano esattamente nello stile di appartenenza; cosa che probabilmente mette in difficoltá noi
italiani, ma non solo.
Però, avere poche categorie renderebbe il premio vinto molto più importante, più categorie lo relativizzano, cosa positiva, soprattutto in vista del consumatore meno attento.
E parlando di consumatori, vero che tanti stili e sottostili possono disorientare, ma anche vero che la varietá crea interesse e curiositá.
In ogni caso, festeggiamo le nostre quattro medaglie, e brindiamo alla salute del movimento, in tutto il mondo!!
Secondo me esistono concorsi che tendono ad assegnare tanti premi per far felici un po’ tutti, ma non è il caso della WBC. Una medaglia in questo concorso è comunque di prestigio, considerando il numero di birre iscritte nella maggior parte delle categorie.
Hai ragione, questa é una competizione molto importante.
Mi viene allora da pensare che le molte categorie siano un mezzo per aiutare i giudici nel loro difficile compito. Con poche categorie ci si troverebbe a dover fare i conti con un enorme numero di birre, rendendo poi difficilissimo determinare i vincitori, essendo una manifestazione, oltre che prestigiosa, anche di altissimo livello.
troppe categorie. quando ho aperto il pdf mi sono trovato un po disorientato.
secondo me bisogna seguire il bjcp e al massimo aggiungere alcune categorie per nuove sperimentazioni. però queste non devono per forza avere ulteriori sottocategorie: birre affinate in legno è quella la caratteristica principale, poi ognuno dentro quella categoria si muove come meglio crede, insomma massima libertà. altrimenti tra 5-6 anni si arriva a 150 categorie e a questo punto premi tutti e quindi nessuno.
Per me la divisione delle barricate ha senso eccome 😀
CMQ sì, troppe categorie.
“Australasian, Latin American or Tropical-Style Light Lager” quali sarebbero le carattestiche? 😀
Comunque in generale ci sono macrostili molto molto (troppo vaghi) anche senza scomodare le stranezze degli americani: alla fine tutte le belgian non inquadrabili in uno stile preciso finiscono nelle cosidette belgian speciality ale ( che vuol dire tutto e niente), oppure quando parli di macrostile “spicy, herb, vegetable”….secondo me questa grandissime categorie non dovrebbero neanche farle gareggiare perchè poi la valutazione non diventa manco facile