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“Birra artigianale” e non solo: definizioni e concetti della birra in Italia

slide3Complice la Settimana della Birra Artigianale appena conclusa, negli scorsi giorno ho rilasciato diverse interviste a testate giornalistiche e trasmissioni radiofoniche. Una delle domande più ricorrenti è stata la seguente: “che cos’è la birra artigianale?”. Come immaginerete è difficile rispondere a un simile quesito, perché in Italia non esiste una definizione ufficiale al riguardo. Ognuno ha la sua idea sull’argomento, con divergenze che possono essere piccole o dannatamente grandi. Ma quella di birra artigianale forse non è la sola definizione sulla quale vale la pena concentrarsi: ragionando sui vari aspetti del nostro mondo in effetti ci sono fenomeni e risvolti che meriterebbero un minimo di riflessione. Oggi ve ne presento tre, cercando di capire non tanto come dovrebbero essere regolamentati, ma quanto la loro regolamentazione porterebbe benefici al settore.

Birra artigianale

Il dibattito sulla definizione (italiana) di birra artigianale è un motivo ricorrente del nostro ambiente, che di tanto in tanto “riciccia” fuori. Mi sembra inutile tornare su temi che sono stati abbondantemente snocciolati in passato anche su queste pagine, più che altro mi preme capire con voi quali vantaggi (o svantaggi) porterebbe un disciplinare di produzione. Al momento attuale la mancanza di una definizione è un problema? Probabilmente no. Questo “vuoto legislativo” – chiamiamolo così – ha come primo effetto quello di permettere a chiunque di produrre una birra e definirla artigianale. Che tradotto concretamente significa che domani un birrificio industriale potrebbe lanciare un marchio premium e riportare in etichetta una dicitura del tipo “birra artigianale” o analoga. Se però fino a oggi tutto ciò non è successo ci sarà un motivo. Dubito infatti che l’industria abbia voglia di usare un aggettivo del genere, essendo fin troppo lontano dai suoi canoni comunicativi.

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Un altro effetto della mancanza della definizione è che oggi non è possibile quantificare direttamente il mercato della birra artigianale, perché la stessa non esiste. Se ad esempio negli USA pubblicano continuamente dati sul segmento artigianale, è perché hanno stabilito dei criteri che distinguono i birrifici craft dagli altri. Ma da noi, dove l’importanza di report del genere è del tutto relativa, questa conseguenza ha ripercussioni minime. Anche perché un’idea della crescita del settore può arrivare da numeri indiretti, come quelli dei birrifici artigianali attualmente operanti in Italia.

Ha dunque senso voler definire la birra artigianale in Italia? Bella domanda. Visto che il fenomeno è in crescita la prima reazione sarebbe quella di volerla disciplinare, anche per evitare che i nuovi consumatori si avvicinino a prodotti mascherati per artigianali – i cosiddetti “crafty” in America. Ragionandoci però in modo più approfondito, forse al momento questo limbo è un vantaggio più che uno svantaggio. Anche considerando che i primi tentativi di regolamentazione, prodotti dalla politica senza alcun tipo di valido interlocutore, hanno aperto scenari a dir poco angoscianti. E allora tanto meglio restare così…

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Birrificio vs Beer firm

Uno dei fenomeni più prorompenti degli ultimissimi anni in Italia è la nascita di un esercito di beer firm, produttori cioè senza impianto di proprietà. Questi marchi chiaramente si rivolgono ai diversi birrifici per la realizzazione delle loro ricette, con un controllo sul processo produttivo ampiamente variabile: si può andare da chi semplicemente commissiona una birra, senza neanche studiare la ricetta, a chi controlla gran parte della fase realizzativa, sostituendosi in tutto e per tutto al birraio. Io sono stato un sostenitore di questa soluzione, perché in teoria permette a birrai talentuosi di esprimersi comunque, anche quando non hanno a disposizione risorse economiche per aprire un loro birrificio. Tuttavia si tratta di una realtà molto complessa e variegata…

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Credo sia sotto gli occhi di tutti che il fenomeno delle beer firm abbia recentemente assunto delle evoluzioni aberranti, fino ad arrivare alla nascita di un numero impressionante di marchi che spesso entrano in diretta competizione con i birrifici. In più è una soluzione alla quale ricorrono un numero crescente di persone senza una conoscenza birraria, ma che decidono di puntare – spesso per diversificare gli investimenti – in un settore che “tira”. Questo aspetto mi è sembrato evidente nella mia ultima visita al Rhex di Rimini e a oggi sono pochissime le beer firm italiane che nascono da progetti seri e appassionati, dove è garantita conoscenza per il prodotto e un livello qualitativo soddisfacente.

In questo momento in Italia i più acerrimi detrattori delle beer firm stanno diventando proprio i birrifici, alcuni dei quali, paradossalmente, in passato hanno ospitato beer firm. È una posizione che in gran parte risulta comprensibile e condivisibile, ma che non dovrebbe impedire a un appassionato di produrre la sua birra, se lo fa con coscienza e in buona fede. Allora potrebbe forse avere un senso regolamentare la differenza tra le due realtà? Ad esempio si potrebbe impedire alle beer firm di riportare nel loro nome il termine “birrificio” e obbligarle a segnalare sempre in etichetta l’impianto presso cui si sono appoggiate per la cotta. Sarebbe una formula capace di preservare il lavoro del birrificio ospitante e parallelamente di informare con trasparenza il consumatore. Ma all’estero non mi sembra che esistano regole del genere: l’unico caso in cui si comunica esplicitamente la differenza tra birrificio e beer firm è in alcuni festival, come lo Zythos.

Birra agricola

Sebbene in Italia non ci sia una definizione di birra artigianale, c’è però quella di “birra agricola”, nata come conseguenza del decreto ministeriale 212/2010. Il disciplinare attualmente in vigore afferma che per birra agricola si intende un prodotto ottenuto da aziende agricole (quindi anche birrifici agricoli) attraverso la lavorazione del proprio orzo, che deve raggiungere almeno il 51% di tutto quello utilizzato nella cotta. Oggi esiste un marchio Birra Agricola che è di proprietà del Co.Bi. e che prevede che la percentuale di malto coltivato in proprio arrivi fino al 95%.

Come capirete non è un marchio di qualità in senso stretto, perché tra i suoi criteri non sono contemplate soluzioni a favore della stessa – ad esempio non si parla di surrogati del malto, di pastorizzazione, di additivi chimici, ecc. È un disciplinare che fino a oggi è stato utilizzato per accedere ad alcune facilitazioni fiscali e a determinati bandi comunitari, tanto che nei mesi passati diversi produttori italiani si sono impegnati per ottenere lo status di birrificio agricolo (il più clamoroso è stato il caso di Baladin).

Ma vantaggi aziendali a parte, questa definizione è utile al settore? Direi che al momento per i consumatori non cambia niente, anzi può persino trarli in inganno. Come già spiegato altre volte, l’orzo proveniente dai propri campi non solo non è garanzia di qualità, ma può persino essere peggiore di quello di aziende che da secoli lavorano nel settore della maltazione di questo cereale. Quindi personalmente fatico ancora ad accettare la presenza di un disciplinare del genere.

Secondo voi queste definizioni sono auspicabili o non hanno alcun senso? Porterebbero (o portano) vantaggi o svantaggi all’ambiente? E ci sono altri aspetti che meriterebbero una regolamentazione?

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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19 Commenti

  1. Una definizone di birra artigianale darebbe più problemi che altro secondo me. Provo ad elencare i primi che mi vengono in mente:
    1) decettività per il consumatore: di base abbiamo un mercato “poco educato” (e non parlo dei lettori di questo blog ovviamente ma dell’italiano medio che bevendo M****ti Grand Cru crede di bere un prodotto di qualità) e quindi si rischierebbe di vendere per “artigianale” prodotti come la nuova linea “craft” di Por***i che mi sono trovato a tavola a cena di amici un paio di settimane fa e siamo ai livelli della corazzata Potiomkin;
    2) data una definizione, prodotti validi potrebbero non potersi fregiare del titolo a discapito di altre ricette che, pur rispettando i parametri, potrebbero essere delle vere schifezze. Ad esempio già solo affermare che un requisito debba essere l’assenza di pastorizzazione lascerebbe fuori dal giro ricette valide la cui unica colpa è quella di prevedere questo processo e consentirebbe l’ingresso di talune “perle artigianali” che ho bevuto e su cui è meglio stendere un velo pietoso (lo stesso Randy Mosher – non un fesso qualsiasi, insomma – nel suo magnifico tasting beers dà atto di non essere così sicuro di poter dare ragione ai detrattori della pastorizzazione);
    3) la definizone dovrebbe calarsi nel quadro normativo esistente, tutt’altro che favorevole a dare una definizione utilizzabile per il settore. Ai sensi della l 443/1985, infatti, è “imprenditore artigianale” colui che presta sevizi o vende beni (birra, ad esempio) svolgendo in misura prevalente il lavoro all’interno della propia azienda. Occorrerebbe quindi muovere da un raccordo della nostra realtà con questo dato per evitare inaccettabili dicotomie definitorie tra “artigiani non birrai” e “artigiani birrai” visto che fatico a immaginare che realtà come Extraomnes e Birrificio Italiano possano tirare avanti sfruttando il “lavoro prevalente” (cioè 51% rispetto al 100% del resto delle risorse produttive) dei soli Maestri che sono a capo dei progetti.
    In definitiva: W l’assenza di una regola fissa. Anche senza mi pare che il settore non stia malaccio !

    • Ciao Enrico, trovo la tua analisi molto interessante e condivisibile, ma non capisco il punto 1: una definizione eviterebbe proprio certi scenari.

      • Ciao a Te Andrea. Intendevo dire che una definizione “fatta male” potrebbe consentire di vendere per “artigianale” birre prodotte in logiche (e qualità, soprattutto) industriali. Pensa ad esempio una legge che dovesse consentire l’utilizzo del nome di “birra artigianale” ad un prodotto 1) non pastorizzato (tornando al mio esempio) e che 2) non contempli limiti al volume di produzione per il produttore (in Italia le leggi fatte male non si contano e non oso pensare cosa potrebbe fare il nostro legislatore: già Tu stesso hai parlato della legge discussa in Regione Piemonte rispetto alla quale gli spunti critici sono parecchi). Il rischio sarebbe quello di avere birre prodotte dai vari colossi industriali con un logo “birra artigianale” e di qualità anni-luce lontana da una “vera” artigianale: il che, credo, potrebbe ingannare il consumatore meno smaliziato.

        • Ok chiaro, beh io davo per scontato che la definizione fosse corretta, ma in effetti già quello sarebbe un miracolo 🙂

  2. Molti sono ancora fermi al non pastorizzata e non filtrata e c’è persino chi è convinto del rifermentata in bottiglia. A ribadire l’inutilità di disciplinare.

  3. A me, come consumatore, non interessa sapere se una birra sia o meno artigianale.
    Mi piacerebbe leggere in etichetta queste informazioni:

    micro filtrata (si decida una soglia)
    pastorizzata
    rifermentata in bottiglia / addizionata di anidride carbonica (force carbonation?)
    succedanei utilizzati (questo gia’ c’e’ negli ingredienti)
    conservanti utilizzati, coloranti, additivi alimentari

    • Quoto. E aggiungo: bisognerebbe introdurre l’obbligo di legge di specificare, tra gli ingredienti, non la semplice dicitura “malto d’orzo” e “luppolo”, ma quale malto e luppolo sono stati utilizzati. Se compro un pesto leggo l’etichetta e so quale olio (d’oliva, girasole, ecc.) è stato usato per farlo. Su una birra non mi è dato sapere se il luppolo è un liberty o un citra o se il malto è un biscuit, un caramel o un munich. Sui prodotti mai gustati sarebbe un bel vantaggio perchè magari potrei non essere interessato a bere una pils fatta senza uso di saaz, ma finché non la assaggio non posso saperlo. E intanto mi sono guastato la bevuta.

      • certo, diciamo che basta sapere se è addizionata o meno.
        Non che sia vitale, è bello saperlo ma secondo me si puo’ anche soprassedere su questa voce in particolare tra le 5 che segnalavo prima.
        Non trascurerei invece la microfiltrazione e la pastorizzazione, oltre che gli additivi.

        • Nel senso che la birra può essere carbonata naturalmente anche senza rifermentazione. La pastorizzazione e filtrazione sono i minori dei mali, mentre la carbonazione forzata è molto peggio.

  4. ciao Andrea,ho letto con molto interesse il tuo articolo sulle differenze tra birrifici e beer firm,effettivamente hai tutte le ragioni di questo mondo sul fatto che molti delegano il birrificio di turno,gli commissionano la birra per poi commercializzarla;effettivamente questo non è bello.Fatta questa premessa ci tenevo a dirti che siamo stati esclusi dalla edizione di prossima uscita Birre d’Italia 2015 perchè a “qualcuno” abbiamo dato fastidio,non riesco a capire come,ma forse siamo felici di esserci riusciti.I diretti interessati nostri fiduciari Slow Food in puglia hanno pensato bene di attenersi scrupolosamente alle nuove regole dettate quest’anno dall’alto (e su suggerimento sempre di quel famoso qualcuno) di tenere fuori dalla guida le beer firm (come nel nostro caso) senza interpellare nessuno e sincerarsi del fatto che noi andiamo puntualmente a fare la cotta con le nostre ricette.Ma da quanto in qua bisogna avvisare i fiduciari di quello che si sta facendo,quale sarebbe il loro lavoro allora?
    Ci tenevo a rendere la questione di pubblico dominio,perchè sinceramente ho perso la fiducia di molte persone che credevo dalla nostra parte in quanto conterranei,ma sono anche contento di essere sempre nei pensieri di quel “qualcuno” a cui do fastidio e cerca di mettere i bastoni tra le ruote in qualsiasi occasione!!

  5. Sto leggendo con passione i tuoi articoli che trovo molto professionali, solo un appunto!
    in realtà in Italia la birra artigianale è ben definita, anche se in maniera veramente naïf.
    Per la legge si possono avvalere del titolo di birre artigianali tutte quelle prodotte da birrifici iscritti all’Albo delle Imprese Artigiana.
    Quindi se sei un micro birrificio con società semplice o un birrificio agricolo non puoi avvalerti di tale denominazione!
    Che ne pensi?

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