Leggere di numeri e statistiche può non piacere a tutti, eppure talvolta è necessario. Tanto più quando quei numeri e quelle statistiche sono merce rara, dunque meritevoli di più di un approfondimento. Oggi quindi torniamo sul report “Birra artigianale, filiera e mercati” di Unionbirrai e Obiart, che è l’unico documento che analizza nel dettaglio il mercato della birra artigianale in Italia. Il lavoro è stato presentato una decina di giorni fa e lo abbiamo ampiamente sviscerato in un articolo ad hoc. Tuttavia la ricerca è così approfondita che una sua lettura approfondita stimola ulteriori riflessioni, che possono integrare a quelle generali illustrate in passato. Si è dibattuto molto se i dati emersi dallo studio suggeriscano un settore in salute o in affanno: la verità è che ogni conclusione dipende da come gli stessi dati vengono interpretati. Partendo nuovamente dal report, oggi allora ci concentriamo su tre voci statistiche, che nell’ordine possono essere considerate in maniera positiva, negativa e incerta rispetto all’andamento del movimento della birra artigianale.
L’incremento dei birrifici nel Lazio
Nella prima parte del documento di Unionbirrai e Obiart è presente una dettagliata analisi del mercato birrario diviso per regione. I dati generali non rivelano niente di sorprendente: la maggior parte delle imprese brassicole si concentra in Italia settentrionale, con la Lombardia che rimane saldamente in testa per numero di birrifici e beer firm: sono 213, quasi il doppio del Veneto (128) che si colloca in seconda posizione. Qualcosa di più sorprendente emerge analizzando il trend degli ultimi quattro anni, cioè la variazione del numero di imprese brassicole su base regionale nel periodo 2019-2022. Premesso che il saldo è stato in attivo in tutte le regioni italiane – rilevazione non scontata, come immaginerete – quella che ha mostrato l’incremento maggiore è stata il Lazio, con un +44,4%. Un dato non sbalorditivo di per sé, ma che lo diventa se consideriamo che il mercato locale è ritenuto da anni al limite della saturazione.
È infatti in contesti più sviluppati che ci si aspetterebbe una minore innovazione. Un mercato saturo o comunque maturo offre poche possibilità di inserimento per nuovi progetti, perché il bacino potenziale di utenti è stato già raggiunto in precedenza. Il Lazio e la città di Roma in particolare rappresentano da almeno quindici anni un terreno estremamente fertile per la birra artigianale, tanto da aver sviluppato un’offerta senza paragoni nel resto d’Italia. Ciononostante continuano a comparire nuovi birrifici e nuove beer firm, evidentemente convinti di riuscire a trovare la propria collocazione sul mercato locale. In passato questo fenomeno ha trovato giustificazione nella presenza di pochi produttori del territorio – paradossalmente fino a una decina di anni fa c’erano tantissimi locali birrari e pochissimi birrifici – ma ora la situazione è cambiata. Ammesso che i nuovi progetti siano guidati da corrette valutazioni strategiche, sembra che ci sia ancora molto spazio per la birra artigianale, anche in quei contesti dove apparentemente ha dato il massimo – e quindi non ha ancora dato il massimo.
Ne possiamo dedurre che la capillarità dell’offerta birraria sviluppa a sua volta altra offerta, presumibilmente per una conseguente crescita della domanda. E che dunque ancora una volta è la reperibilità la chiave per il successo della birra artigianale: bisogna non solo incuriosire il potenziale consumatore, ma anche fornirgli occasioni per continuare a bere artigianale. Cosa che a Roma e nel Lazio in generale è piuttosto facile. Non nascondiamo che l’intero ragionamento si basa in parte su speculazioni e assunti tutti da dimostrare, ma la sensazione generale è che il mercato abbia ancora amplissimi margini di sviluppo, purché si verifichino precise condizioni.
L’invecchiamento dei consumatori
Uno dei grafici più inquietanti del report di Unionbirrai e Obiart è presente a pagina 61, nella sezione che analizza le abitudini di consumo del target “TA”. Per questa parte dello studio, infatti, sono stati intervistati 700 soggetti, le cui risposte hanno portato alla definizione di due gruppi: uno costituito da consumatori abitudinari di sola birra industriale (TI) e un altro da consumatori di birra sia artigianale che industriale (TA). A questi ultimi è stato chiesto da quanto tempo consumano birra artigianale, con quattro possibili risposte: meno di un anno, 1-2 anni, 3-5 anni, più di 5 anni. Dallo studio emerge che oltre la metà dei consumatori TA bevono birra artigianale da più di cinque anni e che la percentuale di chi vi si è avvicinato nei precedenti dodici mesi è appena del 2,3%.
Per avere una visione più completa del fenomeno sono state confrontate queste risposte con quelle dell’edizione 2018 del report, quando agli intervistati fu sottoposta la stessa domanda. Ed è qui che l’analisi diventa preoccupante. Dal grafico infatti emerge distintamente che il bacino di consumatori di birra artigianale sta invecchiando senza che ci sia un vero ricambio generazionale. Quattro anni fa la quota dei bevitori con la “militanza” più lunga era poco sopra il 40%, mentre quelli “appena arrivati” sfioravano il 10% del totale. Si può notare chiaramente come l’andamento dell’anzianità si stia spostando verso destra, senza che sia bilanciato da nuovi ingressi. In altre parole la birra artigianale sta faticando a intercettare nuovi consumatori e sta andando avanti con quelli fidelizzati negli anni passati. Non ci resta che sperare che negli ospizi di tutta Italia comincino a installare impianti di spillatura…
Quel famoso 3% del mercato
Da anni la quota di mercato della birra artigianale in Italia è attestata al 3%. Non ci si schioda da quel valore e secondo molti rappresenta un fallimento per il movimento. “Possibile che dopo tutto questo tempo non siamo riusciti ad aumentare quel 3%?” è la domanda che molti si pongono nell’ambiente, evidenziando quello che dovrebbe essere il più grande insuccesso della birra artigianale in Italia. Questa conclusione però non tiene conto di ciò che è accaduto nel frattempo nel nostro paese, dove i consumi generali di birra sono aumentati a ritmi impressionanti. Nel periodo tra il 2012 e il 2022 i consumi sono cresciuti del 27,4% e negli ultimi dodici anni l’incremento pro capite è stato di otto litri di birra all’anno. Se la birra artigianale ha mantenuto la stessa quota di mercato di dieci anni fa, significa dunque che anche lei è cresciuta con lo stesso straordinario andamento. Una conclusione tutt’altro che negativa.
Ma la quota di mercato è davvero del 3%? Purtroppo a questa domanda è difficile dare una risposta precisa, con tutto ciò che ne consegue. Secondo l’Annual Report 2022 di Assobirra la risposta è affermativa: la birra artigianale copre il 3,1% dell’intero mercato. Il report di Unionbirrai e Obiart invece fornisce una risposta diversa, perché attesta la percentuale in una forbice compresa tra il 2,2% e il 2,8%. Parliamo di variazioni che su numeri così piccoli possono avere un impatto non indifferente: c’è un margine di variabilità intorno al 25%, che può far cambiare totalmente le valutazioni. Se la quota della birra artigianale fosse al 2,2% (e quindi all’estremo più basso), significherebbe che – ahinoi – negli ultimi anni il segmento artigianale è rimasto pressoché immobile. Se invece fosse al 2,8% sarebbe più in linea con il dato di Assobirra e dunque suggerirebbe conclusioni positive. Purtroppo in mancanza di dati sicuri non possiamo trarre un bilancio certo, però quanto emerso da Assobirra “trascina” la rilevazione di Unionbirrai e Obiart verso il 3%. È lo spazio che merita la birra artigianale in Italia? Oppure deve aspirare a qualcosa in più? E come farlo? Domande che ripetiamo spesso e alle quali abbiamo cercato di dare una risposta in passato.