In tutti questi anni di birra artigianale mi sono tolto diverse soddisfazioni, ma una delle più grandi in assoluto è stato avere ospite a Fermentazioni il mitico Roger Protz. Era il 2015 quando – in modo del tutto inaspettato – decise di accettare il mio invito a partecipare alla terza edizione della manifestazione: ricordo ancora la sorpresa e l’emozione che provai quando lessi la sua email di conferma. Per chi non lo conoscesse, Roger Protz è uno dei più grandi scrittori di birra al mondo, attivista del Camra da tempo immemore e uno dei più importanti divulgatori del settore. È una persona squisita, curiosa e piena della tipica eleganza anglosassone. Ma soprattutto mossa da una passione infinita: per darvi un’idea, contestualmente alla sua partecipazione al festival si propose di condurre gratuitamente un workshop di degustazione, che – inutile specificarlo – fu uno straordinario successo. Recentemente ha deciso di lasciare il suo storico incarico come curatore della Good Beer Guide del Camra e per l’occasione qualche giorno fa il Mirror ha pubblicato un’intervista a lui dedicata. Il pezzo è molto interessante, perché offre un excursus della birra artigianale nel Regno Unito e uno spaccato della visione di Protz, molto meno tradizionalista di quanto si potrebbe pensare per un uomo della sua esperienza.
Oggi per poter realmente apprezzare la birra di qualità bisognerebbe conoscere – non dico aver vissuto, ma almeno conoscere – le realtà brassicole dei decenni passati. Non di dieci o venti anni fa, ma di quaranta o cinquanta, quando il mercato mondiale era totalmente dominato da pochi, anonimi prodotti delle multinazionali. Roger Protz ha 78 anni e ha sperimentato quell’epoca in prima persona:
Negli anni ’70 erano rimasti attivi solo 105 birrifici come risultato di un’ondata di chiusure e acquisizioni compiute da sei grandi marchi, che proponevano blande e frizzanti birre in fusto da bere non appena arrivavano nel pub. Era terribile.
Oggi ci sono 1.700 birrifici e l’ampiezza dell’offerta è impressionante – Golden Ale, versioni moderne di India Pale Ale, Porter, Stout, Barley Wine, birre affinate in legno e birre realizzate con erbe, spezie, frutta, caffè e cioccolato.
Chiaramente non siamo di fronte a chissà quale rivelazione, ma repetita iuvant (specialmente nei confronti di un pubblico generalista come quello del Mirror) e soprattutto sono propedeutiche a spiegare il contesto in cui Roger Protz sviluppò il suo rapporto con la birra. Trovo molto illuminante il seguente passaggio, che può sembrare così lontano dalla nostra cultura ma anche estremamente evocativo:
Sono nato il 1939 all’inizio della Seconda Guerra Mondiale e insieme a mia madre fummo evacuati nel Norfolk. L’unica cosa che poteva fare la sera era andare al pub, così mi portava con sé e mi teneva sotto la panca mentre beveva la sua birra.
Quando tornammo a Londra Est eravamo circondati da birrifici. Ogni domenica camminavo da East Ham a Barking con mio padre, che lavorava al porto, e mio zio. Loro bevevano un paio di pinte mentre io aspettavo fuori sorseggiando una ginger beer perché non era concesso ai bambini di entrare nei pub. Ma quei locali e l’idea di cercare una buona pinta di birra era qualcosa che mi intrigava. Ricordo che c’erano pub ovunque. All’epoca non potevi bere se non avevi compiuto 21 anni, ma ero molto alto e portavo gli occhiali, così cominciai a frequentare i pub prima di entrare nell’età legale per bere.
La birra mi era sempre piaciuta, ma nel corso degli anni ’60 mi accorsi che non riuscivo più ad apprezzarla, senza spiegarmene il motivo. A quel tempo venni a conoscenza del Camra, che mi aiutò a comprendere ciò che inconsapevolmente avevo perso: il piacere per la birra di qualità in cask.
Nel 1976 Protz perse il lavoro, ma trasformò la difficoltà in un’opportunità. Rispose a un’inserzione dello stesso Camra e fu ingaggiato per diventare editore e curatore della Good Beer Guide. Ricoprì quel ruolo dal 1978 al 1983 e poi ancora dal 2000 a oggi (fino alla prossima edizione del 2018). In pratica tramutò un hobby nella sua professione. I ricordi di quegli anni pionieristici sono davvero avvincenti:
Furono anni molto eccitanti perché riuscimmo a impedire la chiusura di molti birrifici. Fullers – che ora ha una enorme sede a Chiswick, nella parte occidentale di Londra – aveva deciso di interrompere la produzione di Real Ale. Ma contribuimmo a fargli cambiare idea. Tantissimi altri piccoli birrifici stavano pensando di abbandonare le birre in cask, perché il mercato era pieno di pessimi prodotti in keg e finte Lager britanniche. Ma li convincemmo che c’era ancora una possibilità per le loro birre, soprattutto grazie ai festival.
La parte conclusiva dell’intervista è quella più utile per capire l’idea di Roger Protz per la birra di qualità. Oggi il Camra è spesso accusato di avere una visione troppo reazionaria, legata a un concetto obsoleto di birra artigianale che è stato superato dai tanti giovani produttori che si sono affacciati sul mercato. Protz da questo punto di vista si mostra decisamente onesto e aperto di mente:
Siamo un po’ lenti a riconoscere il movimento, ma qualsiasi cosa che aiuti il paese a bere buona birra è positiva. Più siamo, meglio è. Ma non dimentichiamoci che la birra in cask sta godendo di ottima salute, rappresenta il 55% dell’intero mercato delle birre artigianali e la proiezione per il 2020 supera il 70%. Quell’idea di birra, quasi morta e sepolta negli anni ’70, è oggi lo stile predominante nel Regno Unito.
Perciò chi oggi si esalta per la new wave anglosassone e spernacchia il Camra, dovrebbe riflettere sul fatto che la prima non sarebbe mai esistita senza l’attività della seconda nei decenni passati. E che forse non tutti i suoi esponenti perseguono un concetto antidiluviano di birra di qualità. Ma di esperti del calibro di Roger Protz ce ne sono pochi: per fortuna in chiusura dell’intervista afferma che continuerà a battersi per la birra artigianale anche se non ricoprirà più il suo attuale ruolo. Ed è un’ottima notizia per tutti gli appassionati.