La birra può avere un “retrogusto sociale”? Per il birrificio Vecchia Orsa decisamente sì. È la risposta che mi ha dato Enrico Govoni, mastro birraio del birrificio di San Giovanni in Persiceto, a pochi chilometri di distanza da Bologna. Vecchia Orsa, infatti, non è un microbirrificio come gli altri. L’idea che l’ha fatto nascere è diversa, così come è diverso il risultato, difficilmente traducibile in un’analisi della performance aziendale, al di fuori dei grafici e degli schemi. Il birrificio Vecchio Orsa ha un obiettivo sociale: dare dignità al lavoratore svantaggiato, guardandolo anche come risorsa reale di un processo produttivo e non solo come portatore di handicap.
La storia del birrificio Vecchia Orsa si può dividere in due momenti: nella prima fase lo “stabilimento” era a Crevalcore ed era poco più che una casa messa a disposizione della cooperativa sociale FattoriaAbilità, che cura l’inserimento lavorativo di persone con handicap. Il terremoto del 2012 in Emilia, invece, segnò l’inizio della seconda vita di Vecchia Orsa, che nel 2013 inaugurò il nuovo impianto a San Giovanni in Persiceto, anche grazie a una gara di solidarietà tra colleghi e appassionati bevitori. Un trasloco di attività inevitabile e non posticipabile, visti gli effetti del sisma sulla struttura ma che, a lungo andare, ha rappresentato per Vecchia Orsa la possibilità di ingrandirsi e di accogliere più persone svantaggiate come reale elemento produttivo all’interno del contesto lavorativo. Perché uno dei punti di forza del birrificio emiliano è questo: fare birra partendo dalle persone, mettendo sotto la lente d’ingrandimento i momenti di integrazione e la consapevolezza dei lavoratori svantaggiati di essere veramente parte importante delle fasi produttive. Conciliando, in fondo, la natura sociale con quella economica.
Ciao Enrico, raccontaci qualcosa di te. Da dove vieni? Come nasce la tua passione per la birra?
Sono persicetano doc, ho abitato per 18 anni accanto un consorzio agrario, dove lavorava mio padre. Ho imparato molti mestieri, semplicemente seguendolo e aiutandolo: insieme ci siamo costruiti casa, abbiamo gettato il cemento, posato le tubature idrauliche, l’impianto elettrico, ho costruito il tetto… da lì ho imparato ad adattarmi.
Raggiunta la maggiore età mi sono trasferito in campagna e ho finito le superiori diplomandomi come perito elettrotecnico. Dopodiché nel 2002 mi sono iscritto all’Università di Bologna, alla facoltà di Sociologia… tre mesi e ho capito che non faceva per me. Però ho avuto la fortuna di imbattermi nella Tana del Luppolo in via Petroni. In un pomeriggio assolato, vagando per via Petroni da solo con un panino in mano, decido di entrare in questo piccolo negozio per prendere una birra qualunque. Anzi, ti dico la verità: sono entrato perché in vetrina c’era una bottiglia di Heineken da tre litri! Faccio per pagare la mia lager industriale e il gestore mi guarda tristissimo e mi dice: “Ma con tutte quelle che ci sono, scegli proprio questa?”. E io che pensavo che quelle fossero bottiglie di vino, mi dovetti ricredere. Partì una sorta di gioco… ogni giorno mi divertivo a prendere un panino con un salume diverso e tornavo da lui per farmi consigliare l’abbinamento migliore. Andò avanti così per un po’, ma l’ultima stoccata fu quando mi propose il kit per fare la birra. La prima acqua gialla gasata è del 2002.
Come nasce Vecchia Orsa?
Nasce dal desiderio di una cooperativa sociale, che è FattoriaAbilità, di creare un laboratorio protetto per lavoratori diversamente abili. Nel disegno iniziale c’era una fattoria didattica, i soci erano otto e avevano anche un fondo disponibile, ma il progetto non riusciva a partire. Quando io e Roberto Poppi li abbiamo conosciuti, per caso, gli abbiamo proposto di fare birra artigianale… e le cose si sono fatte più chiare. Sia loro sia noi avevamo tanta voglia di lanciarci in questo laboratorio alimentare per l’inserimento lavorativo di persone diversamente abili. Inoltre, noi avevamo già sei anni di homebrewing alle spalle, e Roberto anche una laurea come educatore.
Così, la cooperativa ci ha messo a disposizione una casa: la cucina era la sala cotta e il soggiorno la zona imbottigliamento – oltre a uno sgabuzzino che fungeva, in pratica, da cella calda dove rifermentava la birra. Si trovava nel podere Orsetta Vecchia in via degli Orsi di Beni Comunali di Crevalcore, da cui abbiamo tratto il nome.
Chi lavora insieme a te nel birrificio in questo momento?
Nella zona produttiva siamo io e Roberta: io mastro birraio e lei, invece, prepara gli ordini, organizza le squadre di lavoro e funge anche da magazziniere. Insieme a me, ora, c’è anche Francesco che fa un tirocinio extracurricolare. Nella nostra truppa ci sono inoltre persone diversamente abili: Valerio, Mimmo, Valentina e Marco che, a turni e con mansioni diverse, ci aiutano in birrificio. Prima di affidargli un lavoro, abbiamo cercato di carpire le peculiarità che hanno e fatto di tutto per assecondare le loro personalità. Dopodiché li abbiamo inseriti in una lavorazione specifica che gli si addice.
Come collaborate con gli enti sul territorio?
Dialoghiamo con la Asl, il Servizio handicap adulto di San Giovanni in Persiceto e il Fomal, che è un ente di formazione. Loro ci propongo delle persone che ritengono adatte per l’inserimento lavorativo in Vecchia Orsa, dopodiché si fa un breve periodo di prova.
Il terremoto del 2012 ha distrutto la vecchia sede di Crevalcore. Che cosa è successo in quel momento? Come avete reagito?
Per noi è stato un periodo molto particolare. Tra di noi c’è chi ha vissuto il terremoto “di striscio”, come me e Daniele, e chi invece l’ha subito di più. Il paese di Crevalcore, in alcune zone, era simile a un campo per rifugiati… Ci ha colti di sorpresa l’assalto da parte di diverse testate giornalistiche. Evidentemente, la reazione delle attività che, dopo il terremoto, erano impossibilitate a lavorare era sotto l’attenzione di tutti. Eppure, tutto quel clamore mediatico è stato un richiamo immediato per la solidarietà, che si è manifestata in forme diverse: in meno di un mese, ci siamo ritrovati il magazzino vuoto. Questo è stato uno dei modi che la gente comune ha adottato per aiutarci.
Noi avevamo in progetto di ampliarci e di cambiare stabilimento produttivo, ma non c’era ancora nulla di pronto. Quando il 20 maggio 2012 la terra ha tremato ci siamo rimboccati le maniche. D’altronde era una nave che colava a picco e trasferirci era la nostra scialuppa di salvataggio. Che fai, resti lì a pensare? In tre mesi abbiamo trovato una nuova casa per Vecchia Orsa.
Nel periodo in cui non potevamo fare birra abbiamo brassato con Amarcord e con Brewfist, in modo da portare avanti il canale di vendita senza interromperlo. La nostra blonde, in quei mesi, ha preso il nome di Magnitudo Blonde anche per cercare di raccogliere quanti più fondi possibili per ricominciare. Così la gente ci ha aiutato a mantenere vivo un progetto che si stava costruendo, e a non seppellirlo sotto le macerie.
Dopo un anno siete però riusciti a riaprire un nuovo stabilimento a San Giovanni in Persiceto. Che cosa è cambiato?
Ci siamo riusciti anche perché molte persone ci hanno dato una mano. Volontari, idraulici, elettricisti, e anche altri birrifici – Lambrate, Birrificio Emiliano, Statale Nove e altri – hanno bussato alla nostra porta per porgere il loro aiuto.
Per quanto riguarda l’impianto, diciamo che questo è il “papà” di quello di Crevalcore, perché il produttore è lo stesso che ha modificato l’impianto di Vecchia Orsa. Ora lavoriamo volumi importanti, abbiamo tre fermentatori da 30 hl e un maturatore della stessa capacità, che ci impongono ritmi diversi.
Vecchia Orsa, però, non è un progetto che ha il solo intento di coinvolgere diversamente abili, ma è un microbirrificio a tutti gli effetti, e come tale, ha una produzione (in termini di qualità e di quantità) di cui occuparsi e preoccuparsi. Come avete conciliato la natura sociale con quella economica?
Credendoci. Io penso che la nostra fortuna sia stata quella di partire piccoli, da una casa. Ha reso tutto estremamente familiare, con quei valori. Siamo partiti dall’idea, non tanto di costruire un birrificio, ma di creare un laboratorio alimentare per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate e queste sono state le fondamenta del progetto e del birrificio Vecchia Orsa. Noi siamo una cooperativa sociale, sin dall’inizio, e il nostro obiettivo è questo. Insomma, partiamo dalla persona e non dal prodotto.
Ti faccio un esempio: abbiamo acquistato un’etichettatrice automatica solo dopo esserci assicurati del fatto che presumesse comunque la presenza di più persone. Abbiamo puntato molto sulle mani e sulla manualità, ogni bottiglia viene maneggiata dalla nostra squadra almeno 6-7 volte. L’artigianalità, secondo me, deve implicare anche una certa manualità. E anche un certo impegno che a mio parere non risiede tanto nella parola “birra” ma in quella “artigianale”. Noi ci mettiamo tante ore e tanta passione e, a questo, abbiamo voluto aggiungere le diverse abilità di questi ragazzi.
Penso che il punto di forza di una realtà che coinvolge diversamente abili sia di farli sentire parte di un progetto concreto e non posticcio, creato ad hoc su uno svantaggio. Credi che Vecchia Orsa ci stia riuscendo?
Per riuscirci ci stiamo credendo, scendendo anche a compromessi: sulle ore di lavoro, sugli stipendi, sulle necessità lavorative (l’aiuto birraio arriva dopo quattro anni). Il nostro è un percorso più lungo ma siamo molto motivati.
Nella vostra linea c’è la Biolca, prima birra biologica certificata in Emilia. Come avviene la produzione?
Nasce da un rapporto con Harvest pub e Alce Nero/Berberé: quest’ultimi cercavano una birra biologica certificata da vendere nel proprio locale di Bologna, così Roberto Poppi è stato la cerniera tra noi e loro. Per noi è stato un buon punto di partenza perché, anche se ora non è più nei locali di Berberé, abbiamo scoperto molti commercianti interessati al biologico e i rapporti con loro continuano. Ora facciamo cinque-sei cotte all’anno, quindi per noi è un mercato nuovo e in crescita. Il malto d’orzo utilizzato è italiano, proviene da una malteria di Melfi. Anche i luppoli hanno certificazione BIO. Per esempio, abbiamo usato Hallertau Tradition e Saaz, ma anche Opal e Rakau per una questione di reperibilità della materia prima.
Tra le altre birre di Vecchia Orsa, ce n’è una che ti sta particolarmente a cuore?
L’Utopia, per il gusto e per la storia che ha e anche perché, secondo me, racconta davvero la storia del birrificio. Richiama l’esperienza che abbiamo fatto io e Roberto, a braccetto, i primi tempi perché questa è stata la prima birra prodotta, nonché una delle più vendute.
Si chiama Utopia perché è un po’ la birra che non c’è… ti dico solo che è quella che ha subito più modifiche nel corso della storia di Vecchia Orsa. Per esempio, il lievito è cambiato varie volte, ora è il Belgian Ardennes, mentre una volta era il Belgian Saison liquido della Wyeast, ma abbiamo optato anche per un Belgian Wheat! Ma il terno al lotto era sulle spezie: prima addirittura c’era la liquirizia e il cardamomo, finché non siamo arrivati all’attuale pepe. Quello mio e di Roberto è stato un lavoro scanzonato, ma costante. Provavamo sempre spezie diverse da metterci dentro… finché un giorno, mangiando un filetto di bue al pepe verde ci venne l’illuminazione! Il pepe! Adesso la base si è stabilizzata, si tratta di coriandolo e scorza d’arancia sia amara sia dolce (come molte saison ma anche molte blanche), il ginepro che c’era sin dall’inizio e pepe rosa e pepe verde.
Progetti per il futuro?
Per il birrificio, stiamo pensando di ampliarci perché c’è richiesta e, così facendo, potremmo lavorare con più persone svantaggiate, ma anche normodotate. Utilizziamo già energia da fonti rinnovabili, ma vogliamo costantemente migliorarci, anche per quanto riguarda lo spreco d’acqua. Stiamo pensando, infatti, anche a una modifica al ciclo di lavaggio, per monitorare i consumi di acqua e ridurli. Chi ama la nostra birra è interessato non solo alla birra artigianale ma anche a come viene fatta. Noi diciamo “Il retrogusto sociale della birra”, ed è il messaggio che vogliamo dare.