Lo scorso weekend il Ma che siete venuti a fa di Roma ha ospitato un evento birrario di grande rilevanza culturale, di quelli che è sempre più difficile trovare in giro. Protagoniste sono state le Kveik, tradizionali birre delle fattorie norvegesi e patrimonio brassicolo locale. Caratterizzate dal loro particolare lievito – peculiarità sulla quale torneremo – queste produzioni stanno acquistando visibilità a livello internazionale grazie al lavoro di riscoperta portato avanti da alcuni birrifici. La loro opera permette di confrontarsi con una tipologia davvero unica e di sottolineare l’importanza che ha rivestito la fattoria nella storia della nostra bevanda. Solitamente siamo abituati a pensare che i luoghi più importanti per l’evoluzione della birra sono stati i birrifici e tutt’al più i monasteri, eppure anche questi insediamenti rurali hanno giocato un ruolo di prim’ordine nel definire molti stili birrari. La prova risiede in tante tipologie che sono giunte fino ai giorni nostri.
Saison
L’esempio più illustre del ruolo delle fattorie nella storia della birra è sicuramente rappresentato dalle Saison, uno degli stili birrari più diffusi al mondo. Tradizionalmente la loro origine è legata al consumo da parte dei braccianti delle fattorie dell’Hainaut, in Vallonia, e oggi è difficile stabilire quali fossero le caratteristiche originali. Le moderne interpretazioni – compreso il modello di riferimento, rappresentato dalla Saison Dupont – sono infatti probabilmente molto lontane dalle Saison di un tempo, tanto che possiamo solo avanzare congetture sulle loro ricette: presumibilmente prevedevano un mix di cereali diversi, avevano un tenore alcolico contenuto (più basso rispetto a oggi) ed erano aromatizzate con diverse spezie. Certamente erano brassate con ingredienti coltivati localmente: i cereali, il luppolo e persino il lievito erano ottenuti in loco. Proprio il lievito giocava (e gioca tuttora) un ruolo fondamentale nella definizione dello spettro organolettico: un elemento che troviamo costante in tutti gli stili nati nelle fattorie.
Bière de Garde
Strette partenti delle Saison sono le Bière de Garde, che rappresentano l’unico stile riconosciuto di origine francese, sviluppatosi nella parte settentrionale del paese al confine con il Belgio. Come per le cugine valloni, anche in questo caso molte delle caratteristiche originali sono ammantate da un’aura di mistero e leggenda, anche perché la tipologia è stata riscoperta solo in tempi recenti (negli anni ’70). Sebbene in origine condividessero le stesse peculiarità delle Saison, oggi le Bière del Garde sono intese in maniera molto diversa: lo stile prevede un profilo aromatico spostato sulla componente maltata, con un contributo del luppolo molto contenuto e un colore tendente all’ambrato. Questa impostazione si è sviluppata a partire dagli anni ’40, quando il birrificio Duyck rilanciò la tipologia con la sua personale interpretazione – comprensiva del confezionamento in bottiglie da Champagne – che poi fu seguita da altri produttori.
Farmhouse Ale
Gli avanzamenti tecnologici che hanno puntellato gli ultimi secoli di storia della birra hanno permesso di migliorare il processo produttivo e di innalzare la qualità, ma necessariamente hanno anche eliminato alcune peculiarità più “selvatiche” nel modo di intendere la bevanda. È il motivo per cui oggi le Saison e le Bière de Garde non sono che una lontana imitazione delle vere birre delle fattorie di Belgio e Francia, soprattutto perché hanno perso la loro componente “funky”. Questo aspetto è invece stato recuperato da diversi birrifici americani, che spesso propongono le loro versioni di Farmhouse Ale prodotte con l’inoculo di Brettanomiceti, con passaggi in legno o addirittura con fermentazioni spontanee. Parliamo di un tentativo evoluto di replicare le birre delle fattorie di una volta, aggiungendo quel gusto “selvaggio” a produzioni concettualmente moderne. Ma, come vedremo, le vere birre delle fattorie hanno un’impostazione profondamente diversa.
Kveik
Ed eccoci alle Kveik, che, come accennato, sono tipiche della Norvegia. Il nome è un termine dialettale che significa “lievito” e che non identifica un particolare stile di birra. Oggi con Kveik si intende infatti una miscela di vari ceppi (tutti comunque del genere Saccharomyces, anche se non è esclusa la presenza di batteri), non isolati in laboratorio e tipici della cultura brassicola norvegese. Ogni fattoria ha il suo particolare Kveik, che coltiva passandolo di generazione in generazione, con caratteristiche ben precise. Tuttavia tutti i Kveik condividono delle peculiarità che li differiscono dai normali lieviti per la birrificazione: fermentano a temperature molto elevate (anche sopra i 40°), garantiscono un elevato livello di efficienza e forniscono aromi inusuali, riconducibili agli agrumi, alle nocciole, al terroso. Non di rado vengono aggiunte anche spezie, in particolare il ginepro. Tutti elementi riscontrabili nelle Kveik dei due birrifici presenti lo scorso weekend al Macche: Voss ed Eik & Tid.
Kaimiskas
Una tradizione molto simile a quella delle Kveik arriva dalla Lituania, dove non è difficile imbattersi nelle Kaimiskas. In pratica sono l’esatta controparte locale delle Farmhouse Ale norvegesi, poiché vengono prodotte con ingredienti ottenuti in proprio, compreso il lievito. Proprio come per le Kveik, il termine non indica uno stile birrario, ma una tradizione produttiva: difficile trovare due Kaimiskas uguali, poiché differiscono tra loro per colore, limpidezza, secchezza, profumi e, ovviamente, gusto. I risultati quindi possono variare molto, anche in termini di qualità finale: quando visitai la Lituania incontrai alcune Kaimiskas interessanti, ma anche altre da censura diretta! Il bello di questa tradizione, così come per le Kveik, è però la possibilità di toccare con mano – o meglio, con le labbra! – una consuetudine brassicola tramandata nei secoli, che è miracolosamente sopravvissuta fino ai giorni nostri. Anche le altre due Repubbliche Baltiche, Estonia e Lettonia, hanno le loro Farmhouse Ale, sebbene molto meno diffuse che in Lituania.
Sahti
Restiamo in Nord Europa perché in questa carrellata non può mancare il Sahti, bevanda quasi al confine del concetto stesso di birra tipica delle fattorie della Finlandia. Le caratteristiche seguono il filo conduttore comune a tutte le precedenti tipologie: un mix di cereali come base fermentescibile (composto in maggioranza quasi sempre da segale), lievito non ortodosso (solitamente da panificazione o simile a quello per le Weizen) e aggiunta di spezie locali (nello specifico il ginepro). La fase produttiva non prevede la bollitura del mosto, mentre gli aromi sono dominati dagli esteri (banana in primis), fenoli e note di ginepro. Diversi produttori finlandesi ancora lo producono in maniera tradizionale.
Come ben illustrato da questo articolo apparso su Brewing Nordic, quella della produzione di birra nelle fattorie non è semplicemente una curiosa consuetudine brassicola, ma un vero e proprio fenomeno storico che ha segnato l’evoluzione della bevanda e che si è sviluppato in una regione ben precisa, piuttosto vasta: nella zona tra Belgio e Francia settentrionale fino ad abbracciare le regioni baltiche e l’intera Scandinavia. Le varie incarnazioni hanno mostrato caratteri curiosamente simili: utilizzo di ingredienti locali, lieviti non ortodossi e coltivati direttamente, aggiunta di spezie, tecniche produttive non sempre convenzionali.
Quando si parla della storia della birra solitamente si ignora completamente l’importanza rivestita dalla produzione all’interno delle fattorie. Ma queste consuetudini provano che tali insediamenti rurali sono stati centrali per il modo in cui è stata intesa la bevanda nei secoli, tanto da aver tramandato le loro usanze fino ai giorni nostri. Appare dunque opportuno riconsiderare non solo la tipologia delle Farmhouse Ale nelle sue varie interpretazioni, ma anche l’idea stessa di birra creata all’interno delle fattorie. Perché presumibilmente è ciò che hanno bevuto diverse popolazioni europee (e non solo) per moltissimo tempo.
c’è da farci un libro. Daje Andrea 😀
😉
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