Gli approcci alla produzione di birra possono essere molteplici. Se da un lato è vero che il processo è ben codificato, dall’altro bisogna ammettere che le strade per realizzarlo sono quasi infinite. Ognuno sceglie la propria, che può magari cambiare con gli anni, seguendo esigenze di tempo, spazio, o semplicemente stato d’animo del periodo. Ci sono alcuni approcci dalla produzione che ho sperimentato e poi ho lasciato andare. Altri che non mi hanno mai convinto abbastanza da azzardare una sperimentazione. Altri ancora che ho criticato dal primo giorno di produzione e che ho provato solo per confermare che non mi interessavano.
A volte le “prove” non sono tangibili: gli effetti di metodi di produzione diversi sul prodotto finito possono essere sottili e non facilmente misurabili. In alcuni casi entrano in gioco altri fattori a guidare le nostre scelte, magari non necessariamente supportati da solide prove scientifiche. Fare birra è scienza, ma non possiamo fare a meno di arte e istinto. La mia intenzione non è trarre conclusioni definitive, ma raccontare quello che ha funzionato per me e per quali ragioni ho fatto queste scelte. Il tono vuole essere leggero, niente guerre di religione. Ovviamente, ho sempre ragione io. Vorrei pure vedere.
I fiocchi di grano per la schiuma
L’associazione visiva tra la parola fiocco e la schiuma è difficile da sradicare. Nell’immaginario comune, questi due termini sono entrambi legati alla morbidezza, nello specifico quella della neve: bianca, soffice, mentre scende in fiocchi che si depositano a terra senza far rumore. A questo si aggiunge l’immaginario legato al grano, cereale utilizzato in birre che sfoggiano cappelli di schiuma imponenti, vellutati e persistenti, come quelli delle Weissbier tedesche e delle Blanche/Wit belghe.
La connessione è immediata: se voglio migliorare la schiuma nella mia birra, aggiungo una manciata di grano nel formato di fiocco e il gioco è fatto. Questa abitudine non è diffusa solamente tra gli homebrewer: è sufficiente spulciare gli ingredienti delle birre craft commerciali per rendersi conto che il grano è presente in moltissime ricette dove non sarebbe richiesto, come Tripel, Dubbel, IPA, APA, qualche volta anche nelle basse fermentazioni. Guarda caso, è meno utilizzato dai birrifici industriali (spoiler: costa e non ha alcun effetto sulla schiuma, in dosi omeopatiche).
Il discorso è lungo e complicato, ma semplificandolo al massimo possiamo ridurlo a tre elementi sostanziali. Primo: i fiocchi non c’entrano nulla con la morbidezza, si tratta solo di cereale non maltato che viene pressato a caldo (spesso a vapore) per renderlo più lavorabile. L’associazione fiocco/schiuma è puramente mentale. La capisco, ma è una suggestione e tale rimane.
Secondo: il grano non fa magie per la schiuma. Senza dubbio, è diverso dall’orzo in termini di contenuto proteico. Contiene proteine diverse da quelle specifiche dell’orzo, tant’è che con il grano si può fare il pane; con l’orzo, no. Detto questo, se utilizzato in percentuali ridicole del 2-5%, come si fa quando lo si inserisce in ricette in cui non c’entra nulla dal punto di vista organolettico, il contributo in termini di proteine non può fare la differenza per la schiuma. Può farla in una Weisse, ma qui parliamo di quantità bulgare che vanno solitamente oltre il 40% in termini di peso in ricetta.
Terzo, ma non meno importante: la tenuta e la quantità della schiuma in una birra dipendono da una vasta quantità di fattori. Per citarne solo alcuni: le maltodestrine, la concentrazione di alcol, la qualità della fermentazione, gli alfa acidi isomerizzati dei luppoli, ovviamene anche dalle proteine (che sono anche nell’orzo, non dimentichiamocelo). Se la schiuma non tiene, il problema è nel processo di produzione. Mettere il 5% dei fiocchi per risolvere il problema è come bere una spremuta d’arancia sperando di far passare il raffreddore (alla meglio, ci becchiamo un picco glicemico convinti di farci del bene).
I chiarificanti a freddo per la limpidezza
Mentre sull’utilizzo dei fiocchi sono categorico, la mia posizione verso i chiarificanti – quelli utilizzati a freddo, dopo la fermentazione – è più neutra. Parlo di prodotti tipo la colla di pesce, la gelatina, il PVPP, la silice o altri che troviamo sotto svariati nomi commerciali. Nel tempo, ho imparato ad apprezzare la limpidezza nelle birre. A mio avviso ne beneficiano quasi tutti gli stili, con alcune eccezioni che – incidentalmente – coincidono con i due stili nominati sopra più le NEIPA. Quanto la pulizia visiva sia benefica per le sensazioni tattili e gustative al palato può essere oggetto di discussione, ma l’effetto che ha sul nostro cervello è un dato di fatto, anche se molto spesso non ce ne rendiamo conto.
Per un periodo ho provato a utilizzare chiarificanti a freddo, ma ho desistito. La motivazione, come anticipato, non è né tecnica né di principio. In genere funzionano: ovviamente bisogna usarli bene e scegliere il prodotto giusto. Il problema è che vanno aggiunti a fermentazione finita, quando la birra è ai livelli minimi di ossigeno e qualsiasi alterazione delle sue condizioni può degradarla irrimediabilmente. Esistono diversi modi per aggiungere queste sostanze in contropressione, come ad esempio utilizzando le Carbonation Cap, ma il rischio è zero solo se non si smanetta con il fermentatore. Ho scelto questa seconda strada.
Per arrivare alla limpidezza, ormai da tempo utilizzo semplicemente il freddo e il tempo. Non devo vendere la birra, non ho fretta di svuotare i keg di corsa, ho acquistato un secondo frigo proprio per lagerizzare la birra tutto il tempo che serve. Lavorare bene nella fase a caldo per produrre mosto limpido al momento dell’inoculo del lievito è un primo elemento che può contribuire alla limpidezza. Non è l’unico né la garantisce sempre, ma aiuta. Il resto lo lascio fare al tempo e al freddo. Nel 99% dei casi funziona. Quando la birra rimane velata, me la bevo lo stesso. Con gli occhi chiusi. E amen.
Il protein rest, sempre per la limpidezza
Il protein rest è quella sosta dell’ammostamento che dovrebbe attivare gli enzimi proteolitici e ridurre le proteine a catena lunga rimaste dopo la maltazione (spoiler: sono poche). Si fa in genere intorno ai 50°C, lasciando i grani macinati a mollo nell’acqua a questa temperatura per un tempo variabile che può andare dai 10 ai 30 minuti. Ognuno lo fa a modo suo, qualcuno semplicemente aggiunge i grani a 40°C e sale in modo continuo fino alla temperatura di ammostamento (64-70°C).
Il protein rest dovrebbe modificare la struttura proteica del cereale, favorendo la formazione di proteine che precipitano durante il mash e la bollitura, rendendo la birra più limpida alla fine del processo. Tutto vero. Il problema è che, nei cereali maltati, le proteine sono state ben modificate già in malteria: ha poco senso replicare il lavoro di chi ha parametri di controllo molto più precisi dei nostri. Teoricamente, ma anche questo è tutto da vedere, una eccessiva riduzione delle proteine durante il protein rest potrebbe addirittura essere deleteria per la schiuma. Ma siamo nel mondo della teoria, nella pratica non so quanto questo possa incidere.
In ogni caso, ho abolito il protein rest diversi anni fa. Lo faccio solo nel caso in cui utilizzo una significativa percentuale di cereali non maltati. Di fatto, quasi mai. Non ho ancora prodotto una Blanche, per dire. Per la mia esperienza, l’impatto sulla limpidezza è inesistente. Con le accortezze di cui al paragrafo precedente, le mie birre raggiungono una limpidezza buona nel giro di un mese di lagerizzazione al massimo. Come dicevo, qualche volta esce la birra che non si pulisce. Me ne faccio una ragione e la bevo lo stesso. Una birra su cento che non esce perfettamente limpida non merita i 20-30 minuti di protein rest (calcolando anche la rampa di salita alla temperatura di mash).
Poi, oh: se uno ha tempo da perdere, che lo faccia pure. Chi sono io per vietarlo? Com’era? Male non fa (ché poi, insomma). Vabbè. Ci siamo capiti.
Le lattine perché fanno figo
Che le lattine siano ormai un packaging consolidato anche trai birrifici craft è un dato di fatto. Quasi tutti i più noti produttori artigianali, in un modo o nell’altro, confezionano la birra nelle lattine. A me piacciono, sia chiaro. Le trovo anzitutto estremamente comode per lo stoccaggio. Molto più comode delle bottiglie, in termini di ottimizzazione dello spazio. Hanno delle etichette più grandi che possono dar vita a grafiche intriganti. Non si rompono in mille pezzi se cadono. Non alterano i sapori e proteggono dalla luce. Tuttavia, non ho mai creduto che potessero far breccia nel mondo dell’homebrewing. Non mi sono lasciato trascinare dall’entusiasmo che si era diffuso qualche anno fa tra i produttori casalinghi, con acquisti incontrollati di lattinatrici costosissime e poco pratiche per l’utilizzo casalingo. Effettivamente, se ci si guarda un po’ attorno – almeno in Italia – le lattinatrici sono quasi del tutto sparite dalle case degli homebrewer. Le utilizzano ormai in pochi.
Due furono gli aspetti principali che mi fermarono, qualche anno fa, dall’acquistare una lattinatrice. In primo luogo, il costo molto alto dello strumento: siamo oltre le diverse centinaia di euro. Considerando che andrebbe abbinato ad una riempitrice ad hoc, come la duo-filler, i costi arrivano facilmente al migliaio di euro. Se confrontati con i costi di un sistema di imbottigliamento a tappatrice manuale, siamo praticamente a un ordine di grandezza superiore. Questo ostacolo, però, lo avrei anche potuto superare. Ne ho fatte di spese pazze per il mio hobby casalingo in passato, un regalo me lo sarei potuto fare, volendo. Magari a Natale.
Purtroppo, però, le lattine non si possono lavare e riutilizzare, come si fa con le bottiglie. Questo è un aspetto che, al di là dei risvolti ecologisti, ha un forte impatto sulla logistica casalinga. L’idea di dover ogni volta fare un nuovo ordine di lattine prima di confezionare la mia birra ha definitivamente azzerato la mia curiosità nei confronti di questo sistema di packaging per l’utilizzo casalingo. Diciamocelo: per i produttori casalinghi, i vantaggi sono praticamente inesistenti. Bocciate.
La fermentazione aperta per non stressare il lievito
Si dice che lasciare aperto il fermentatore durante la fermentazione porti benefici al profilo organolettico della birra. Non è chiarissimo di quali benefici si tratti, ma molti birrifici la praticano ancora e alcuni homebrewer – tra cui il sottoscritto – hanno provato ad andare loro dietro. Da un punto di vista tecnico, la fermentazione aperta dovrebbe ridurre lo stress del lievito, che nei grandi fermentatori subisce la pressione che si accumula all’interno quando l’anidride carbonica è costretta a sfiatare da un piccolo pertugio passando attraverso il blow-off. Questo dovrebbe, teoricamente, creare un ambiente più favorevole al lievito per condurre la fermentazione in tranquillità. Inoltre, lo scambio di ossigeno con l’aria, durante la fase tumultuosa della fermentazione, dovrebbe – anche qui uso il condizionale – fornire ossigeno alle cellule, facilitandone la moltiplicazione cellulare e rendendole più forti. Concetti vaghi, lasciatemelo dire, non ben quantificabili.
Sono diversi i birrifici professionali che utilizzano questo approccio: dai produttori di Lager in Repubblica Ceca, a quelli di Weisse in Germania. Questa tecnica è utilizzata anche in Regno Unito, da alcuni produttori che fermentato nei fermentatori bassi e larghi (Yorkshire Square). Ovviamente c’è il rischio della contaminazione, che in birrificio viene gestito tenendo i fermentatori in ambienti segregati con impianti di filtrazione dell’aria. C’è chi azzarda semplicemente un coperchio chiuso male, come ad esempio Chris Lohring di Notch Brewing.
Ha senso replicare questo approccio nella produzione casalinga? Non lo so, ma per la mia esperienza direi di no. Su volumi piccoli – i nostri 10-20-30 litri – la pressione che si crea nel fermentatore è trascurabile (anche quella idrostatica, viste le altezze ridicole rispetto ai troncoconici che usano i birrifici). Inoltre, se ci fate caso, i birrifici che conducono fermentazioni aperte utilizzano più che altro fermentatori larghi e bassi, non un semplice troncoconico lasciato aperto. Questo perché la forma del fermentatore ha un impatto sulla fermentazione, forse anche maggiore rispetto al fatto che venga lasciato aperto.
Questo sempre su grandi volumi, dove l’aumento della larghezza e la riduzione dell’altezza contribuiscono a ridurre la pressione idrostatica che si genera sul fondo, creando stress sulle cellule di lievito. Mi sento di dire che l’impatto di un approccio del genere sui miei volumi (10 litri nel fermentatore) è praticamente nullo. Considerando poi che l’unica volta che mi sono preso una contaminazione da Brett (verificata, qui la storia completa) è stata con la fermentazione aperta, direi che possiamo considerarlo un capitolo chiuso. È stato bello. Anzi, no.