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Perché produrre gli stili belgi in casa è così difficile (e come porvi rimedio)

Per quanto il processo, in sé, possa apparire semplice, fare birra in casa non è affatto facile. O meglio: è abbastanza agevole produrre birre difettate o mediocri, ma non è per nulla scontato che si riescano a realizzare esempi di stile ben fatti e allineati ai canoni di riferimento. Potenzialmente è possibile: i mezzi attuali consentono di produrre in casa birre all’altezza dei più grandi esempi commerciali. Ma la strada per arrivarci è lunga e tortuosa. Richiede pazienza, attenzione ai dettagli e conoscenza approfondita degli stili. In particolare, alcune birre richiedono uno sforzo maggiore. Qualcuno potrebbe pensare alle basse fermentazioni, ma è fuori strada. Non dico che siano facili da produrre – come ho detto, nessuna birra lo è se si punta a un livello alto – ma una volta che si è messo in piedi un buon sistema con camera di fermentazione a temperatura controllata, oculata gestione dell’ossigeno e catena del freddo, una buona Pilsner non è così difficile da replicare in casa. Lo stesso non vale, a mio avviso, per altri stili. Come, ad esempio, quelli del Belgio. Tripel, Quadrupel, Saison sono stili ostici da produrre in casa. Le ragioni sono varie, provo a evidenziarne alcune.

Gli stili belgi non esistono

Per quanto il BJCP (e altre organizzazioni) si siano sforzati nel definire e catalogare gli stili del Belgio (soprattutto nell’ottica di valutarli nei concorsi), è abbastanza noto che ogni birrificio del Belgio fa storia a sé. Per fare un esempio, è sufficiente pensare alla Saison Dupont e alla Saison de Pipaix: sebbene siano entrambe citate come esempi di Saison nell’ultima edizione del BJCP, sono due birre molto diverse tra loro. Discorso simile per due esempi di Tripel come Westmalle e St. Bernardus. E potrei andare avanti all’infinito.

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Questo, però, non significa che non sia possibile definire delle macro caratteristiche degli stili. Per ovvie ragioni, si deve rimanere un po’ sul generico, il che può rendere frustrante l’impresa di riprodurre uno stile in casa quando non si ha dimestichezza con gli esempi citati nelle linee guida. In questo senso, piuttosto che porsi come obiettivo di produrre in casa una Saison, sarebbe più pratico porsi l’obiettivo di avvicinarsi a un determinato esempio commerciale che possa rappresentare lo stile, e partire da lì.

I confini tra uno stile l’altro, quando parliamo di Belgio, diventano piuttosto labili. Stabilire se una “Super Saison” da 10% ABV (penso alla Avec Les Bons Voeux di Dupont) sia davvero una Saison o piuttosto una Belgian Golden Strong Ale diventa piuttosto difficile. Spesso, la differenza è nella testa e nell’intenzione del birraio; oppure, nelle certezze granitiche (a volte discutibili) del giudice che si trova la birra nel bicchiere durante un concorso. Non disperiamo, però: qualche punto di riferimento lo possiamo tracciare.

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Alla ricerca di un orientamento nella foresta degli stili

Tempo fa, tentai di riassumere le linee guida BJCP in uno schema grafico iper-semplificato, evidenziando le sfumature aromatiche caratteristiche di ogni stile in base alle descrizioni delle linee guida. L’infografica è qui, vediamo quali sono i punti salienti.

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Contrariamente a quanto si possa pensare, l’aroma di banana (derivante dall’estere acetato di isoamile) non è così comune nelle birre del Belgio (per fortuna, aggiungerei, ma qui andiamo sui gusti personali). Sebbene è spesso rilevabile con intensità bassissima, in sottofondo, il BJCP lo nomina espressamente solo in due stili: Dubbel e Tripel. Questo è senza dubbio un elemento da tenere a mente. La Westmalle, ad esempio, è una Tripel in cui l’aroma di banana è spesso ben presente. C’è da considerare che l’acetato di isoamile è uno degli esteri con maggiore tendenza a idrolizzare, ovvero a separarsi nei suoi componenti originari (alcol e acido), quindi tende ad affievolirsi con il tempo. Questa è anche la ragione per cui le Weissbier possono perdere piuttosto velocemente il bilanciamento aromatico iniziale, ma questa è un’altra storia.

Altro elemento importante: il chiodo di garofano. L’aroma fenolico, ovvero le note speziate di pepe, cumino, chiodo di garofano sono un elemento caratterizzante in molte birre belghe. Il chiodo di garofano, tuttavia, non è così comune come si potrebbe pensare. Similmente alla banana, viene evidenziato solo nelle Tripel e nelle Single (note anche come Patersbier). Addirittura, nel caso delle Saison, il BJCP dice espressamente che l’aroma speziato può ricordare il pepe ma non dovrebbe arrivare al chiodo di garofano. Devo dire che mi trovo abbastanza d’accordo, anche se bisogna comunque prendere queste descrizioni con le pinze: come con l’aroma di banana, è chiaro che un leggero aroma di chiodo di garofano possa emergere anche in una Saison o in altri stili belgi. L’importante è che non sia evidente come lo è spesso, ad esempio, in una Weissbier. Da tenere a mente anche questo.

Per quanto riguarda la differenziazione sulla tipologia di aromi fruttati (esteri) delle birre belghe, il discorso è piuttosto complesso. Genericamente, possiamo affermare che stili come Belgian Blond e Tripel tendono a focalizzarsi su toni agrumati, mentre Saison e Single spaziano su tonalità aromatiche più ampie arrivando alla pera, alla mela, ma anche alla frutta a polpa gialla come pesche e albicocche. Le birre più scure, come Dubbel e Belgian Dark Strong Ale, sviluppano invece note di frutta secca come dattero e uvetta, probabilmente derivanti dai malti utilizzai piuttosto che dalla fermentazione. Sempre il BJCP ci dice che le Belgian Golden Strong Ale sono caratterizzate da aromi di pera, ma in questo caso mi sembra prenda come riferimento principale la Duvel. Altre birre di questo stile che mi è capitato di assaggiare hanno un ventaglio aromatico piuttosto ampio, non è facile definirlo a priori e non è detto che ruoti solo intorno alla pera. La questione, come dicevo, è piuttosto complessa.

Un altro elemento che si può prendere come riferimento per le birre del Belgio è il bilanciamento tra esteri e fenoli. Per alcuni stili, la componente speziata è opzionale, come nelle Belgian Pale Ale (conosciute anche come Spéciale Belge) e nelle Belgian Dark Strong Ale. Se presente, arriva comunque a livelli medio bassi. Nelle Saison il bilanciamento tra esteri e fenoli è molto più variabile, può rimbalzare dagli uni agli altri a seconda del produttore; mentre nelle Tripel è in genere piuttosto orientato ai fenoli, con la controparte fruttata più esile. Rispetto alle Tripel, le Belgian Golden Strong Ale dovrebbero essere più fruttate e meno fenoliche, sebbene il range aromatico sia di per sé molto simile.

Tratti in comune a tutti gli stili belgi sono elevata secchezza e significativa carbonazione, che bene o male troviamo in tutti gli esempi classici (con qualche eccezione per quelle più commerciali). Insomma, più andiamo a fondo e più emerge una difficoltà palese nel catalogare univocamente questi stili.

Focalizzazione e ricette affinate negli anni

Mi rendo conto che questa è un po’ una banalità, ma va sottolineata. La maggior parte dei birrifici storici del Belgio che vengono presi come riferimento per gli stili classici, si concentra da sempre su pochissimi stili di birra. A parte qualche eccezione, come Dupont con la sua Rédor Pils, i più grandi producono pochi stili da moltissimi anni. Le ricette sono state affinate nel giro di decine di decadi e, immagino, migliaia di cotte.

L’esempio di St. Bernardus e la sua Abt 12 fa scuola. Una birra – e un birrificio – che hanno passato diverse vicissitudini prima di arrivare alla ricetta che oggi viene commercializzata e che rappresenta, a mio avviso, uno dei migliori esempi dello stile. La storia di questa birra e del birrificio è stata raccontata nel dettaglio qualche tempo fa da Breandán Kearney su Good Beer Hunting (che, ahimé, ha chiuso i battenti). Pensare di riuscire a riprodurre una birra del genere in casa al primo tentativo è pura utopia. Ma anche al secondo, al terzo o al decimo. Potrebbe capitare di andarci vicino, magari per una botta di fortuna, ma probabilmente al tentativo successivo mancherebbe la ripetibilità.

Se, infatti, i piccoli birrifici del Belgio, sebbene sfornino a volte veri e propri capolavori, non possano essere presi come riferimento per la ripetibilità (penso a De Dolle), i grandi, come il già citato St. Bernardus, o Westmalle, o ancora St. Feuillien, hanno affinato le loro tecniche di produzione al punto da poter garantire una ripetibilità e una stabilità alle loro birre davvero fuori dal comune.

Questo non è un ragionamento applicabile solo al Belgio. Anche in Inghilterra e Germania troviamo numerosi birrifici storici focalizzati su poche ricette, affinate negli anni. Ciò non toglie che sia un aspetto da prendere in considerazione. Non a caso, gli homebrewer più bravi nel riprodurre in casa gli stili di Vallonia e Fiandre hanno scelto di focalizzarsi sul Belgio, adattando il processo produttivo a questi stili. Difficilmente si dedicano ad altro, ed è probabilmente questo il segreto del loro successo.

C’è chi, di fronte a questa obiettiva difficoltà, si tira indietro e semplicemente rinuncia dedicandosi ad altri stili. Ci sta. Dal mio canto, penso si possa trovare una via di mezzo. Con una buona attenzione ai dettagli – soprattutto al lievito e alla fermentazione, come vedremo a breve – e un minimo di perseveranza, si possono ottenere buoni risultati in tempi non biblici. Questo è più difficile per gli homebrewer alle prime armi, o per quelli che non smettono mai di cambiare metodi e attrezzatura, perché si perdono facilmente i punti fermi a cui man mano si arriva, finendo praticamente per ricominciare ogni volta da capo, con risultati deludenti. Scegliendo invece un approccio produttivo stabile nel tempo, si può riuscire a perfezionare la ricetta con poche modifiche alla volta, ottenendo risultati più che soddisfacenti. Se ogni volta si cambia lievito, ricetta e attrezzatura in preda alle smanie, è difficile riuscire nell’impresa. Questo è garantito.

Lievito, fermentazione e carbonazione

Non è questo il contesto per lanciarsi in un ragionamento dettagliato su ceppi di lievito, temperature di fermentazione e tassi di inoculo. Però, da un punto di vista generale, è importante mettere in evidenza come la fermentazione, nel suo complesso, costituisca un aspetto chiave delle birre del Belgio. Il lievito assume in questi stili un ruolo centrale che raramente si trova in altre fermentazioni. Replicarne le dinamiche in casa è piuttosto complicato.

In primo luogo, perché non è detto che i ceppi di lievito commercializzati siano effettivamente quelli utilizzati dai birrifici. Anzi, oserei azzardare che probabilmente non lo sono affatto. Possibile che il ceppo originario lo sia, in alcuni casi, ma è molto probabile che il lievito di ogni birrificio abbia poi subito mutazioni nel tempo, più o meno evidenti, adattandosi all’ambiente del birrificio. Impossibile, nella maggior parte dei casi, coltivarlo dalla bottiglia: molte birre vengono centrifugate prima dell’imbottigliamento, per essere rifermentate con un ceppo di lievito diverso. Già questo, di per sé, è un aspetto di non poco rilievo. Ma non è l’unico ostacolo per la replicabilità di questi stili in ambito casalingo.

Quando le fermentazioni sono così espressive, in termini di esteri e fenoli, ogni minima variazione ai parametri fermentativi può incidere in modo significativo sul profilo organolettico del prodotto finito. E non parlo solo della temperatura di fermentazione, che rimane un parametro fondamentale. Anche il tasso di inoculo, la presenza di nutrienti, la forma del fermentatore (considerando anche la possibilità che alcune fermentazioni vengano condotte in contenitori aperti) possono influire significativamente sul risultato finale. Combinare tutte queste variabili diventa quasi un terno al lotto, senza contare che alcune – come il tasso di inoculo – sono difficilmente quantificabili in casa senza l’utilizzo di un microscopio. Per quanto un lievito inglese possa aver impatto sul profilo aromatico di una Bitter (e senza dubbio ce l’ha), difficilmente sarà così rilevante come nella fermentazione di una Tripel.

Anche la modalità di rifermentazione può avere un impatto significativo su una birra belga, tant’è che Dupont rifermenta con bottiglie in orizzontale, affermando che la rifermentazione con bottiglie dritte ha portato risultati non soddisfacenti. Insomma, una pletora di variabili davvero difficili da gestire. Non c’è da stupirsi se poi il clone della Westmalle Tripel non esce come ci aspettavamo, pur avendo utilizzato il lievito liquido Wyeast 3787 (etichettato da molti come il ceppo Westmalle).

Aggiungiamo a tutti questi aspetti il terrore atavico della maggior parte degli homebrewer verso le alte carbonazioni in bottiglia, e il gioco è fatto. Le birre belghe arrivano facilmente a 3-3.5 volumi di carbonazione (la Duvel anche di più), non bisogna averne paura. La bolla vivace è parte intrinseca degli stili del Belgio, aiuta a portare gli aromi al naso e aumenta la sensazione di secchezza sul finale, contribuendo con un filo di corpo nel mezzo del sorso.

Quindi, è meglio lasciar perdere?

Assolutamente no. Come già scritto, un approccio da seguire in casa potrebbe essere quello di dedicarsi solo al Belgio. O farlo per un periodo limitato di tempo. Capisco, però, che per chi fa birra in casa questo possa essere un tentativo noioso. Ritengo tuttavia che sia fondamentale focalizzarsi sulle ricette e soprattutto sulla gestione della fermentazione. Il mio consiglio, e l’approccio che sto seguendo da qualche anno, è quello di scegliere uno o due lieviti al massimo e ripetere le ricette con piccole modifiche, possibilmente senza variare l’attrezzatura e l’approccio alla fermentazione.

Mi è stato molto utile produrre la stessa ricetta con piccolissime modifiche per due/tre volte a distanza molto ravvicinata, magari mantenendo qualche bottiglia della precedente versione per fare un confronto testa a testa (alla cieca, anche meglio). Ridurre le variabili il più possibile, cambiare poco alla volta e assaggiare con la testa. Assaggiare anche esempi di stile, ripetutamente, magari con focus verticali su diversi produttori di uno stesso stile. Porsi degli obiettivi precisi, non tanto in termini di stile ma di esempio commerciale, e tirare dritto.

Uno degli aspetti più belli delle birre belghe è che si mantengono molto bene in bottiglia, anzi: spesso la versione in bottiglia è migliore di quella alla spina. Viaggiano bene, costano poco e sono facilmente reperibili. Quindi, mi raccomando: acquistare, sedersi e assaggiare. Meglio ancora se ci si focalizza su uno stile per volta. L’ho fatto qualche tempo fa con le Belgian Blonde ed è stata un’esperienza altamente formativa che consiglio a tutti. L’impresa è molto difficile, ma il percorso è davvero stimolante e interessante. Almeno, per me è stato così e lo è ancora (ne ho di strada da fare). Diciamocelo: anche tra i birrifici più blasonati in Italia – a parte qualche eccezione – il Belgio non trova una rappresentazione esemplare. Cosa che invece accade più comunemente per le luppolate americane, gli stili inglesi e le basse fermentazioni tedesche. Un motivo ci sarà.

Francesco Antonelli
Francesco Antonellihttp://www.brewingbad.com/
Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Tra i fondatori del blog Brewing Bad, produce birra in casa a ciclo continuo. Insegna tecniche di degustazione e produzione casalinga. Divoratore di libri di storia e cultura birraria. È giudice certificato BJCP (Beer Judge Certification Program).

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