Quando ci si avvicina al mondo della produzione casalinga di birra, la prima cosa su cui focalizzarsi è accumulare esperienza. Sono talmente tanti gli stili e gli approcci produttivi che inevitabilmente si passano i primi mesi – più probabilmente i primi anni – a capire cosa produrre e come produrlo. Continui cambi di attrezzatura, transizione da estratti ai kit fino alla tecnica all-grain, passando per la sperimentazione costante di nuovi stili. Tutto fa brodo: più produzioni riusciamo a mettere a terra, meglio è. Così è stato anche per me. Dall’impianto a tre tini iniziale, sono passato a un più pratico e veloce Brew In A Bag. Dai 20 litri per cotta ho ridotto a 10, per fare birra più spesso e occupare meno spazio nel frigo. Ha funzionato: le birre che producevo sono pian piano migliorate, almeno fino a un certo punto. Qualche concorso vinto, gli amici che mi facevano ogni tanto qualche complimento, tante birre che bevevo con piacere. Avrei anche potuto fermarmi lì, ma – forse inconsapevolmente – ho deciso di cercare di fare ancora meglio. Come? Dandomi degli obiettivi diversi e iniziando a ragionare sui piccoli dettagli.
Focalizzarsi sulle ricette
Senza dubbio, uno degli aspetti più belli dell’homebrewing è la possibilità di produrre tanti stili birrari diversi, lasciandosi trasportare dall’estro e dalla voglia del momento. Non è nemmeno obbligatorio legarsi a degli stili, si può andare a braccio seguendo l’istinto e assecondando la voglia di novità e di sperimentare. Anche solo seguendo gli stili, ci vogliono anni per provarli tutti almeno una volta, considerando che solo nel BJCP ce ne sono più di un centinaio. Facendo una cotta al mese, che non è nemmeno poco, si possono passare una decina di anni a sperimentare senza mai produrre una birra due volte.
Ma se da un lato questa continua novità può essere entusiasmante, dall’altro limita fortemente l’accrescimento delle competenze. I segreti di una ricetta si nascondono spesso nei piccoli dettagli, coglierli tutti al primo colpo non è affatto facile. Certamente con il tempo si migliora e si iniziano a produrre buone birre anche al primo tentativo con una ricetta, a volte arriva la botta di fortuna, ma generalmente perfezionare una ricetta richiede una certa dose di pazienza e ripetizione. Devo dire che, da buon ingegnere, ho da sempre adottato un approccio alla produzione volto al miglioramento continuo, provando nuovi stili ma anche riprendendo vecchie ricette nel tentativo di migliorarle. Per arrivare a una versione consolidata della mia Irish Stout, ad esempio, ho impiegato diversi anni. Ma a volte sono passati anni senza che provassi a riprodurla, preferendo sperimentare altri stili.
Negli ultimi tempi invece mi sono concentrato su alcuni stili, come Tripel, Belgian Dark Strong Ale, Bitter e Imperial Stout, cercando di produrli almeno una volta all’anno. Parto dalla ricetta precedente, su cui ho preso dettagliate note di assaggio, e cerco di cambiare il meno possibile. Magari cambio solo il lievito, o il tipo di zucchero, o ancora la temperatura di fermentazione. Piccoli dettagli, senza stravolgere la ricetta, in modo da poter tracciare eventuali miglioramenti o peggioramenti nel risultato finale. Serve pazienza, tanta, specialmente su stili a lunga maturazione come ad esempio le Imperial Stout, ma è un approccio che paga. Prima o poi ci si arriva, è solo questione di tempo.
Estrema attenzione ai dettagli
L’homebrewing è un hobby impegnativo. Una giornata di produzione può richiedere anche fino a sette o otto ore passate tra fornelli e pulizie, chini sulla vasca da bagno a strofinare pentoloni, mestoli o pulire pavimenti. E dopo la giornata di cotta si deve stare dietro alla fermentazione, seguire le bolle che escono dal gorgogliatore, misurare la densità, pulire ancora, magari spostare la birra da un contenitore all’altro, sanitizzare, pulire di nuovo, imbottigliare. In mezzo a tutti questi passaggi scorrono le nostre vite, tra gli impegni di lavoro, la famiglia, gli inevitabili imprevisti. È facile dimenticarsi di usare i nutrienti per il lievito, di aggiungere le alghe irlandesi a fine bollitura, di alzare la temperatura a fine fermentazione. Magari si fa il dry hopping al volo aprendo il fermentatore senza starci troppo a pensare, oppure si accorcia la lagerizzazione perché il frigo è pieno e ci serve spazio. Qualche bottiglia rimane al caldo in estate, o rifermenta a temperature leggermente troppo alte. Una volta preferiamo non aggiungere il lievito da rifermentazione tanto che importa, la birra rifermenta lo stesso. Il lievito funziona anche senza starter, la fermentazione parte anche se uso una bustina anziché due. Mai avuto problemi: è la frase più utilizzata dagli homebrewer in erba, quando gli viene fatto presente che prendere scorciatoie di produzione non paga. Ma secondo loro la birra è buona, agli amici piace, va bene così.
È capitato anche a me di cercare scorciatoie produttive. Ancora oggi, quando posso, cerco di ridurre i tempi di produzione per incastrare più cotte tra gli impegni della routine quotidiana. Da un lato è una buona cosa, perché produrre più spesso aiuta a fare esperienza, e l’esperienza è una delle chiavi per migliorare nella produzione. A volte però è bene fermarsi un attimo, riflettere e valutare un approccio diverso. È un passaggio che ha senso fare magari in un secondo momento, quando la frenesia della produzione continua è scemata e si ha un certo bagaglio di esperienza alle spalle. È un processo che può procedere per gradi.
Facciamo l’esempio di una bassa fermentazione, una Pilsner. Si parte con una ricetta semplice, magari 100% malto Pilsner, e un lievito secco, che è più facile da gestire. Il classico W34/70, che funziona alla grande. Magari fermentatore in plastica, senza contropressione. Le prime volte si lagerizza meno, perché il frigo serve, facciamo un paio di settimane. La birra rifermenta, probabilmente sugli scaffali dello sgabuzzino, a temperatura ambiente. Viene abbastanza bene, siamo soddisfatti. La volta dopo riproviamo. Tentiamo di rendere il mosto più limpido in produzione, con una filtrazione migliore. Non è fondamentale, è un dettaglio, non è necessariamente legato alla limpidezza finale. Ma ci proviamo. Magari, invece di aggiungere il lievito a 20°C e poi finire di raffreddare in frigo, stavolta prima raffreddiamo fino a 8°C, poi apriamo il fermentatore, ossigeniamo (anche se con i lieviti non è necessario) e inoculiamo. Aspettiamo qualche giorno in più prima di lagerizzare. Teniamo la birra al freddo per un mese invece di due settimane, magari nel frattempo abbiamo acquistato un secondo frigo. La birra viene meglio. La terza volta siamo passati alla contropressione, non rifermentiamo. Teniamo sempre le bottiglie al fresco. Nella quarta proviamo la decozione, richiede tempo ma ha senso provare. Alla quinta usiamo un lievito liquido, con uno starter fatto bene qualche giorno prima. La birra evolve con noi, il processo è sempre più complicato e richiede sempre più tempo. Non è detto che la birra migliori, ma molto spesso è così. Sono piccoli dettagli che non fanno necessariamente una grande differenza, almeno non subito, ma mettendo insieme i pezzi del puzzle, piano piano, provando e provando ancora, possiamo dare alla birra quello sprint in più che inizialmente mancava.
Ecco, negli ultimi tempi sto provando proprio a fare questo: cambiare piccole cose, dedicare quei dieci minuti di attenzione in più alla produzione. Passata la fase in cui ho cercato più che altro di accumulare esperienza facendo più cotte possibile, è arrivato il momento di andare di cesello curando quei dettagli che a prima vista possono sembrare insignificanti. E lo sono, finchè non arriva la voglia di calibrare anche la minima variabile. Ci si arriva piano. Non sempre si individua il dettaglio giusto, quello che può fare la differenza. Ma quando accade, la soddisfazione è enorme.
La contropressione aiuta, ma non sempre
Ho evitato la contropressione (o isobarico, chiamatelo come volete) per anni, ritenendo che fosse un passaggio estremo per un hobby casalingo. Per certi versi lo è, ma se ben gestito porta grandi soddisfazioni. Alla fine, qualche anno fa, ho ceduto e ho deciso di dare a questo approccio una possibilità. Ho cercato tuttavia di mantenere una mente aperta, evitando di incanalare in questo nuovo metodo tutte le mie speranze. E ho fatto bene.
Devo dire che da quando ho introdotto in casa una bombola di anidride carbonica le mie produzioni sono migliorate. Decisamente. Non so quanto questo sia dovuto solo alla riduzione dell’ossigeno che finisce in bottiglia o anche all’esperienza che nel frattempo ho accumulato (anche grazie all’attenzione ai dettagli di cui sopra), ma senza ombra di dubbio mediamente produco birre più buone. Potrei facilmente concludere che la contropressione è fondamentale per produrre buone birre, ma sarebbe una conclusione fuorviante. Anzi, sbagliata. Perché non è così. E lo dico con cognizione di causa.
Alcune delle birre più buone che ho prodotto ultimamente non vengono da fermentazioni in pressione, non sono carbonate con spunding e non sono nemmeno carbonate forzatamente. Sono fermentate nei vecchi secchi di plastica (da poco ne ho anche comprato uno nuovo) e rifermentate in bottiglia. Non rifermentate del tutto, ma rifermentate parzialmente. La mia ultima Belgian Golden Strong Ale, dopo la fermentazione in plastica, è passata in un fusto saturato con anidride carbonica. In contropressione. Nel fusto ha maturato a temperatura ambiente (in inverno, quando in casa fanno 20°C, sempre per l’attenzione ai dettagli) per un mesetto. Poi un mesetto di frigo, dove ha ricevuto una piccola dose di anidride carbonica per arrivare a circa 1.5 volumi. Gli altri 1.5 volumi li ha presi in bottiglia, dove è stata trasferita in isobarico, con la pistola cinese, tappando sulla schiuma. Ha poi rifermentato, in un una piccola camera di rifermentazione mantenuta a 25°C (sempre per la solita attenzione ai dettagli). Non è una birra prodotta completamente in isobarico, non è stata fermentata in pressione, ma ha beneficiato comunque di alcuni passaggi tipici del metodo in contropressione. Ed è venuta bene.
Questo per dire che sì, secondo me è importante attrezzarsi per la contropressione, ma non si deve pensare che questo approccio sia l’unico possibile o che sia la panacea per tutti i mali. Non lo è. È uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per produrre birra in casa: in alcuni casi può fare la differenza (magari in una bassa fermentazione) in altri è semplicemente un tassello in più nella costruzione di una birra, non fondamentale ma utile. In altri casi può non servire affatto. È un approccio che consiglio vivamente di provare, anche perché lo si può fare con una spesa relativamente bassa, come raccontiamo in questa puntata di MashOut! Podcast. Senza però pensare che sia risolutivo per qualsiasi problema, perché vale sempre quanto scritto nei punti precedenti.
Non perdere tempo a inseguire i trend del momento
Cosa sarebbe l’homebrewing senza l’ultimo trend da rincorrere? Quel pezzo di attrezzatura imperdibile, il fermentatore all’ultimo grido, lo stile che tutti fanno e devo fare pure io per forza altrimenti non sono nessuno. Mio cugino mi ha detto che il dip hopping tira fuori un aroma di luppolo incredibile, devo montare un “bong” sul fermentatore altrimenti l’ossigeno mi distrugge la birra, le lattine o mio dio le lattine non possono mancare sono così belle e la birra in lattina è più buona, lo dice l’amico di mio zio!
Si scherza, eh. Ma ritorna il tema della focalizzazione. Che è importante. Quante volte mi capita di vedere homebrewer che seguono le mode del momento senza ragionarci troppo sopra, pensando – in buona fede – che una lattina possa migliorare la qualità delle birre che producono. Magari non hanno nemmeno mai provato a fare una Tripel o una Mild, però non riescono a resistere alla tentazione di provare l’ultimo trend che gira sul web. Ci sta, lo capisco: sono stato – e lo sono ancora, a volte – vittima anche io di questa sorta di ipnosi collettiva. Ma nella maggior parte dei casi non porta a nulla, anzi. Ci distrae da quello che stiamo facendo, facendoci perdere la focalizzazione.
Cambiare continuamente attrezzatura o processo produttivo crea confusione, aggiunge ulteriori variabili al già complesso processo di produzione, impedendoci di tracciare i cambiamenti e i loro effetti sul risultato finale. In alcuni casi, come in quello delle lattine (lo so, mi sono accanito) si tratta di un cambiamento puramente estetico, che nel migliore dei casi non varia nulla a livello di risultato finale. In altri, come ad esempio nel caso dell’ultimo trend, il dip hopping, si tratta di un cambiamento significativo al processo che varia il risultato finale e non necessariamente in positivo. Non sto dicendo che questo metodo sia giusto o sbagliato (non lo so, appunto, non l’ho provato ancora). Sto dicendo che è un metodo diverso che produce risultati diversi. Se ancora non abbiamo trovato la quadra sulle nostre birre luppolate, magari perché non riusciamo a gestire in modo ottimale la luppolatura o perché non abbiamo individuato i giusti dosaggi o la migliore combinazione di luppoli, è bene continuare su quella strada e capire cosa c’è che non va piuttosto che sperare ce un dip hopping, che tra l’altro ancora non si sa bene come vada fatto e quali effetti produca, ci risolva il problema della luppolatura. Non lo farà e anzi, molto probabilmente sarà l’ennesimo pasticcio in un processo confuso, non costante, imperfetto che non riusciamo a mettere a posto.
Ovviamente non sto dicendo di non evolvere, di non sperimentare. Ma di farlo con la testa e non con il c… cuore. Ecco: con il cuore.