La vita dell’homebrewer non è una passeggiata di salute. Si impara strada facendo, avanzando per piccoli passi. Si inizia con i kit e gli estratti, i lieviti mezzi morti riesumati da bustine spesso conservate al caldo; poi si aggiungono in ricetta un po’ di cereali in grani, si mette in piedi una camera di fermentazione, si azzarda qualche ricetta; a un certo punto arriva il momento dei lieviti liquidi, del Belgio, delle basse fermentazioni, della contropressione; qualcuno si spinge a usare le lattine, le etichette, i sistemi di spillatura in casa. Ci sono tuttavia dei passaggi cruciali che segnano punti di svolta nella vita di un homebrewer, legati a stili, modalità di produzione o ingredienti particolari. Oggi vorrei citarne tre che sono stati fondamentali nella mia formazione da produttore casalingo di birra.
Basse fermentazioni
Da sempre le basse fermentazioni costituiscono uno degli iniziali grandi scogli del produttore casalingo di birra. Il primo, significativo, ostacolo sono le tempistiche di fermentazione. Rispetto ad una alta fermentazione, dove mediamente nel giro di due/tre settimane si riesce a passare dall’inoculo del lievito alla bottiglia, nelle basse fermentazioni i tempi si dilatano notevolmente. Se va bene, applicando qualche scorciatoia, si riesce a stare entro il mese. Tuttavia, se si vogliono fare le cose per bene, l’intervallo di tempo che passa dall’inoculo del lievito all’imbottigliamento si attesta generalmente intorno ai due mesi. Questo è dovuto principalmente a due fattori.
Il primo, cruciale e inevitabile, è che per mettere il lievito nelle condizioni di produrre un profilo aromatico così pulito, tipico degli stili “lager”, è necessario tenere bassa la temperatura di fermentazione. I lieviti Lager potrebbero lavorare senza problemi alle temperature da Ale, ovvero intorno ai 20°C, finendo prima il lavoro, ma inevitabilmente produrrebbero quantità indesiderate di composti aromatici non graditi negli stili a bassa fermentazione. Tenendo la temperatura intorno agli 8-10°C, si riesce a mantenere un profilo di fermentazione neutro e pulito. Come effetto collaterale ne deriva però un notevole rallentamento dell’attività fermentativa. I tempi più o meno raddoppiano, rendendo l’attesa snervante per chi ha in casa un solo frigorifero da dedicare alle fermentazioni a temperatura controllata.
Il secondo passaggio che dilata significativamente i tempi di produzione di queste birre è la cosiddetta lagerizzazione, ovvero il mantenimento della birra a temperatura molto bassa (intorno agli 0°C) per almeno un paio di settimane, ma si arriva facilmente al mese o anche più. Questo passaggio, oltre a rendere la birra più limpida (le Lager sono tipicamente molto pulite visivamente anche quando non filtrate), aiuta ad arrotondare gli spigoli producendo una birra morbida al palato. L’estrema bevibilità è una caratteristica molto importante delle basse fermentazioni, anche quando aumenta il tasso alcolico.
Per chi fa birra in casa, occupare la camera di fermentazione per un paio di mesi con una singola birra diventa un processo impegnativo e frustrante. Ma non è solamente l’occupazione del frigo a creare scompensi emotivi ai produttori casalinghi. In questo tipo di birre ogni piccolo errore di produzione ha ripercussioni che emergeranno con veemenza nei mesi successivi. Scoprire due mesi dopo la cotta che la ricetta non era ben congegnata, che la birra ha preso ossigeno, che quel fermentatore non era stato pulito per bene fa crescere l’ansia ogni giorno che passa. È difficile trovare la forza per rifare tutto da zero alla fine del processo, quando dopo mesi si scopre che la birra non è venuta come intendevamo noi. Questo aspetto si risolve parzialmente quando ci si riesce a dotare di un secondo frigorifero da usare per le lagerizzazioni, dove magari entrano due/tre fusti di birra. Parallelizzando le attività si recupera tempo, riducendo frustrazione e ansie.
Ma non è solo il tempo a rendere difficoltosa la produzione delle birre a bassa fermentazione. Anche la gestione del lievito non è semplice. Per fermentare una Lager, infatti, serve circa il doppio del lievito rispetto a una fermentazione a temperature più alte. Il produttore casalingo, si sa, ha il braccino corto quando si parla di lievito. Per arrivare a un tasso di inoculo adeguato le strade sono due: o si prepara uno starter, magari in più passaggi per aumentare la conta cellulare, oppure si utilizza lievito secco in quantità. Nel primo caso ci si deve organizzare per tempo, anche due settimane prima della cotta, per gestire al meglio i passaggi della moltiplicazione cellulare “in vitro”, con tutti i relativi rischi di contaminazione; nel secondo si spendono parecchi soldi, considerando che i lieviti secchi da bassa fermentazione costano più di quelli ad alta. Fortunatamente oggi esiste una terza via: l’acquisto di lieviti liquidi già propagati, spediti tramite trasporto refrigerato e pronti per l’inoculo. Costoso, anche in questo caso, ma molto pratico.
Ultimo, ma non meno importante: la rifermentazione. Le basse fermentazioni, specialmente quelle meno alcoliche e dagli equilibri gustativi più delicati (come Pilsner o Helles) possono risentire della rifermentazione in bottiglia. Andrebbero carbonate tenendole in contenitori che reggono la pressione (fusti o fermentatori), aggiungendo anidride carbonica da una bombola o utilizzando quella prodotta durante la fermentazione. Questo non è fattibile senza l’attrezzatura adatta, oggi più facilmente reperibile di un tempo ma comunque più costosa e complicata da gestire. In genere non alla portata di un homebrewer alle prime armi. Si possono rifermentare, nessuno busserà alla porta di casa chiedendo spiegazioni, ma molto probabilmente il risultato non sarà all’altezza delle aspettative. E avere le aspettative deluse dopo mesi di ansie e frigoriferi occupati, non è certo la migliore delle ricompense.
Birre belghe
Subito dopo le basse fermentazioni c’è lo spauracchio del Belgio (per alcuni il percorso è invertito, ma lo spauracchio c’è sempre). In questo caso non abbiamo tempi di fermentazione particolarmente lunghi o temperature artiche da mantenere per diversi giorni, ma una serie di lieviti piuttosto difficile da gestire. Il Belgio, si sa, è la culla della creatività birraria europea: l’estro dei birrai di questa nazione riesce a produrre birre dai profili organolettici inaspettati, birre complesse e semplici allo stesso tempo che ruotano attorno ad equilibri difficilissimi da gestire. Basti pensare alle Tripel, birre dorate dal tenore alcolico elevato ma dalla bevibilità pericolosa: alle Saison, espressione della rusticità più verace con le loro note di fieno, paglia, affiancate da venature fruttate; oppure alle corpose Belgian Dark Strong Ale, da molti chiamate anche Quadrupel, scure e impegnative nel grado alcolico, ma sorprendentemente bevibili nonostante la loro complessità.
Per quanto esistano stili codificati che descrivono le birre del Belgio, è noto che ai birrai di questa storica nazione birraria importa ben poco delle classificazioni stilistiche. Spesso le birre Belghe sono a metà strada tra uno stile e l’altro, seguono l’estro del birraio piuttosto che ferree regole stilistiche. Questo porta spesso gli homebrewer alle prime armi a percorrere strade azzardate, convinti di seguire un guizzo di genio che spesso li conduce invece al disastro totale (mi viene sempre in mente il fantastico motto di Birra Bellazzi: sregolatezza senza genio). Ricordo ancora benissimo quando fermentai le mie prime Saison lanciando la fermentazione a 30°C dai primi giorni, perché “in Belgio fanno così”. Il risultato, tutt’altro che esaltante, fu un richiamo alla razionalità e allo studio, altro che l’estro e la genialità dei birrai del Belgio. Questo è sicuramente un primo elemento che pregiudica fortemente i risultati dei tanti homebrewer che per la prima volta si lanciano nella produzione di birre belghe: l’idea che si possa fare qualsiasi cosa – che tutto sia concesso – solo perché siamo in Belgio. Che l’aggiunta di quindici spezie possa dare un carattere “particolare” e “interessante” alle proprie interpretazioni birrarie. Invece, è tutt’altro che così.
Molti homebrewer non riescono ad accettare che le ricette per molti stili classici del Belgio come Dubbel, Tripel o Saison siano in realtà estremamente semplici. Non è raro che gli ingredienti siano limitati a un tipo di malto, l’aggiunta di un po’ di zucchero, un luppolo e un lievito. Si torna quasi all’origine, ai quattro ingredienti fondamentali. Ed è proprio l’ultimo nell’elenco, il lievito, a costituire il perno centrale attorno a cui ruotano tutti gli equilibri di queste birre. Il lievito e la fermentazione sono gli elementi centrali di quasi tutte le birre del Belgio. I lieviti belgi sono tra i più espressivi al mondo, danno vita a profili organolettici di estrema complessità giocando sul bilanciamento tra esteri (aromi fruttati che possono ricordare la banana, la pera, l’arancia, il limone, la mela, la frutta tropicale) e fenoli (aromi speziati che spaziano dal chiodo di garofano al pepe, dal cumino alla noce moscata, dalla cannella alle note affumicate). La produzione di questi composti è legata a moltissimi fattori, difficilmente controllabili in toto: il tasso di inoculo del lievito, la temperatura di fermentazione, l’ossigenazione del mosto, i nutrienti presenti nel mosto, la forma del fermentatore. Per governare tutti questi fattori non si può far altro che provare, provare e provare (come diceva qualcuno).
Senza poi considerare che, purtroppo, i lieviti in formato secco che producono un profilo aromatico belga almeno soddisfacente si contano sulla punta delle dita di una mano, forse addirittura di mezza mano. Per il Belgio servono i lieviti liquidi, altro spauracchio degli homebrewer alle prime armi (e non solo). Senza i lieviti liquidi, alcuni stili tipici di questa nazione diventano praticamente impossibili da riprodurre in casa. Non a caso ci sono pochissimi homebrewer in Italia che eccellono in questo tipo di fermentazioni. E, lasciatemelo dire, anche pochissimi birrai.
Birre luppolate
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una escalation esponenziale nell’utilizzo del luppolo. Chi, come me, faceva birre luppolate qualche anno fa – nemmeno tantissimi anni fa, parliamo di una decina d’anni – pensava di produrre una bomba luppolata con dosaggi che si aggiravano attorno ai 10 g/L di luppolo. Quando ad esempio producevo 20 litri di India Pale Ale, me la cavano tranquillamente con due pacchetti da 100 grammi di luppolo in pellet tra le aggiunte in bollitura e in dry hopping. Oggi, dopo l’avvento delle New England IPA, non ne basterebbero il doppio per fare una figura decente quando racconti la ricetta agli amici. Parliamo di luppolature folli che spesso superano abbondantemente i 30 g/L. Questo ha contribuito a instillare, nella mente dei giovani homebrewer, l’idea che “più luppolo” significhi automaticamente “più aroma”, portandoli a lanciare vagonate di pellet nel fermentatore, con la vana speranza che l’aroma di luppolo pervada l’intera stanza una volta stappata la bottiglia. Ovviamente non è così, tant’è che gli esempi di birre estremamente luppolate ma ben fatte scarseggiano anche tra i birrifici italiani. Figuriamoci quando sono prodotte in casa senza nemmeno avere l’attrezzatura adeguata. Che, tra l’altro, da sola non basta. Perché i luppoli che ci arrivano tra le mani quando ordiniamo dai siti che vendono materiale per homebrewer non sempre – anzi, forse quasi mai – sono gli stessi che arrivano nei fermentatori dei birrifici.
C’è da dire che la situazione delle “luppolate casalinghe” è decisamente migliorata negli ultimi anni, grazie soprattutto alla diffusione di attrezzature per lavorare in contropressione e gestire al meglio la luppolatura. Con un filo di tristezza nel cuore, devo ammettere che tutto sommato è anche merito delle New England IPA e delle tonalità grigio-rossastre che assumono quando si ossidano: ormai i danni che provoca l’ossigeno alla birra sono chiari più o meno a tutti. Però, dall’altro lato, è un peccato che l’homebrewer non si possa godere una IPA “old style” dove la parte vegetale e “pellettosa” del luppolo non prenda il sopravvento sul balsamico delle resine o sulle freschezza delle note citriche. Se da un lato la resa aromatica delle luppolate casalinghe è nettamente migliorata negli ultimi anni – me ne sono reso conto assaggiando birre di amici o facendo il giudice nei concorsi – dall’altro le luppolature hanno assunto una inquietante e progressiva uniformazione nell’aroma. Raramente mi capita tra le mani una IPA dove gli aromi di aghi di pino, di resina, di pigna spicchino per brillantezza. Mi mancano le note agrumate cristalline del Chinook, le sfumature floreali di un Cascade, a volte mi manca anche il “piscio di gatto” di un buon Simcoe. Le luppolature moderne sono spesso cariche sulla parte vegetale, verde, erbacea, non necessariamente sgradevole, anzi, se ben gestita mi piace pure, ma ben diversa dalle note nitide che emergono dalla birra quando i dosaggi di luppolo sono minori, quando ci troviamo sotto le soglie di saturazione di alcuni specifici oli essenziali.
Gestire il luppolo in casa non è affatto semplice, per diverse ragioni: i lotti che ci arrivano non sempre sono in forma, il dry hopping tende a introdurre ossigeno nella birra, spesso si conservano le bustine troppo a lungo, le varietà che vorremmo utilizzare non sempre sono disponibili. Molti homebrewer, però, a mio avviso, trascurano la variabile del dosaggio: di più non significa necessariamente meglio. La corsa al dosaggio estremo del luppolo rischia di togliere qualcosa alle birre luppolate, non necessariamente aggiunge. Con questo non voglio dire che non apprezzi i dosaggi estremi delle New England IPA: se ben fatte, possono essere dei veri e propri gioielli aromatici e gustativi. La mia vuole essere solo un’esortazione a non dimenticare di provare tutte le strade della luppolatura senza necessariamente partire dall’estremo, pensando poi che sia quella la cifra aromatica del luppolo. Solo perché quando apriamo la bottiglia l’aroma esca dalla stanza: così facendo, alla lunga, rischiamo di uscire anche noi, con i recettori nasali in overdose.