A fine marzo ripresi su queste pagine il tema della definizione di birra artigianale, rilanciato qualche giorno prima dal newsgroup it.hobby.birra. Come previsto, i commenti non tardarono ad arrivare e si aprì un vero e proprio dibattito sull’argomento, con l’intento di trovare una strada per una definizione efficace ed esauriente. Anche se fu fissato qualche aspetto ritenuto fondamentale da tutti (o quasi), la discussione rimase ben lontana dalll’inquadrare una soluzione definitiva. Non che mi aspettassi il contrario: il post era solo un mezzo per alimentare il confronto anche su Cronache di Birra, sperando che potesse risultare utile per i suoi partecipanti.
Oggi riprendo il discorso, dando però uno sguardo a come il problema è stato esaminato all’estero. Il fine è di offrire nuovi spunti di discussione e permettere di trarre eventualmente ispirazione da altre realtà , che per motivi “anagrafici” dei rispettivi movimenti birrari, magari hanno dovuto affrontare problematiche che oggi neanche consideriamo.
Un articolo da cui partire è quello di Andy Crouch, che ha cercato una risposta ripercorrendo il modo in cui la definizione di birra artigianale si è modificata negli Stati Uniti. La Brewers Association, associazione guida negli Stati Uniti, propone un’interpretazione molto dettagliata:
Un birrificio artigianale americano è piccolo, indipendente e tradizionale.
Per piccolo si intende che la produzione di birra deve essere inferiore a 2 milioni di barili all’anno. Con indipendente che il birrificio non deve essere controllato da un’azienda di tipo industriale. Infine con tradizionale che almeno il 50% della produzione deve essere rappresentato da birre di puro malto o al massimo con ingredienti aggiuntivi destinati ad esaltare il sapore e non ad appiattirlo.
Curiosamente questa definizione nel 2005 era condivisa anche da Jim Koch, fondatore della Boston Beer Company. Ngli anni seguenti l’azienda di Boston continuò a mostrare ottimi trend di crescita, al punto che ben presto sforò il limite dei 2 milioni di barili annui. Nel 2008 lo stesso Jim Koch propose una variazione alla definizione della Brewers Association, almeno per quanto riguarda il significato di “piccolo” birrificio:
La produzione di birra deve essere inferiore a 2 milioni di barili all’anno, oppure maggiore di 2 milioni di barili se il birrificio è stato originariamente fondato come “artigianale” e continua a soddisfare gli altri criteri della definizione.
La correzione nasceva dall’esigenza di poter continuare a considerare la Boston Beer un birrificio artigianale. E’ una questione puramente formale, visto che nella visione degli appassionati l’azienda continuava a essere ritenuta tale, nonostante l’aumento produttivo. Il problema è che l’espressione “birra artigianale” ha una forte connotazione di qualità , che non è associabile ai birrifici di stampo industriale. Ecco perché Jim Koch si preoccupò di proporre una variazione alla definizione: la Boston Beer non era più un birrificio artigianale in senso letterale, ma continuava ad esserlo da un punto di vista etico e qualitativo. Era giusto intaccarne l’immagine solo perché aveva superato il limite dei 2 milioni di barili?
Nel suo articolo Andy Crouch sottolinea quindi l’inadeguatezza della definizione della Brewers Association, dichiarandosi invece d’accordo con quella proposta dal sito Beer Advocate, secondo il quale la birra artigianale è:
Una birra prodotta in quantità limitate, spesso utilizzando metodi tradizionali.
Di conseguenza un birrificio artigianale è un’azienda che ha come obiettivo primario quello di produrre birra artigianale, come da definizione. E’ chiaro che una simile interpretazione risulta estremamente elastica e non propone limiti misurabili. L’appartenenza o meno di un prodotto alla sfera delle birre artigianali dipende quindi da valutazioni fatte di volta in volta.
I limiti della definizione proposta dall’associazione americana sono inoltre sottolineati dal blog Top Fermented, che inoltre introduce un aspetto non trascurabile: quello della passione:
Dietro la birra artigianale ci sono personaggi, c’è passione per il prodotto che viene realizzato. Questa arriva al consumatore con estrema facilità in settori piccoli. E’ qualcosa che le multinazionali non saranno mai in grado di ottenere perché sono troppo distanti dal consumatore.
Ma definire la passione non è facile. La soluzione proposta è di lasciare questo onere ai consumatori. La Brewers Association fissi pure i criteri che individuano un birrificio artigianale, ma siano i consumatori a decidere cos’è una birra artigianale. Per farlo hanno un solo strumento, le loro scelte. Ecco infine la definizione dell’autore:
Ogni birra ben fatta, prodotta ovviamente con passione. Passione che si può percepire dalle etichette, dai nomi, da bottiglie, lattine o bicchieri, e dalla selezione degli ingredienti.
Ho citato questi due articoli – ovviamente ce ne sarebbero molti altri da segnalare – perché permettono di partire da una definizione più restrittiva fino ad arrivare a una estremamente labile. Inoltre, se all’inizio ci si concentra su aspetti eslusivamente tecnici, successivamente acquista importanza la componente umana ed emotiva.
Inutile chiedervi ancora cosa pensate sull’argomento (se volete, ulteriori commenti sono però ben accetti), spero che queste risorse possano però risultare preziose per introdurre nuovi punti di vista.
bel casino. tutte le definizioni lette sino ad ora hanno la loro validità . collegandomi all’altro post si evidenzia sempre di più che definizioni tecnico-scientifiche non siano
affatto esaustive e sufficienti per descrivere il mondo della birra artigianale (e non solo il prodotto).
credo che a volte le parole sentimento, passione, valori, cultura che non sono quantificabili e razionali siano però molto importanti in un mondo come il nostro che declina tutto al guadagno, al vantaggio o all’utilità di qualcosa.
se poi si devono trovare parametri per far parte di una associazione allora ovviamente il discorso cambia. ma essendo “craft beer” non un marchio registrato…. il prb continuerà a sussistere secondo me.
Quello di definire la “birra artigianale” è argomento dibattuto da un po’ in effetti. Allora non pastorizzata ok, ma non basta (anche Heineken in Italia fa birra non pastorizzata); non filtrata è discusso anche dai piccoli produttori; in quantità limitate vale fin quando non si superano i limiti (come Koch insegna);e che ne dite della distribuzione? Un piccolo artigiano non è molto credibile come tale quando la sua birra la spedisce in Australia, negli Usa e/o in Scandinavia… Perché il probema della distribuzione incide sul controllo qualità della filiera e, di conseguenza, sulla necessità di dotarsi di una struttura (forza vendita, etc…).
Il problema è che, oggi come oggi, “birra artigianale” è una “non definizione”. Se i parametri certi (matematici o altro) non aiutano, quelli di tipo etico, morale o moralistico, sono quasi sempre discussi o discutibili. La mia conclusione, dunque, anche se forse potrà sembrare malinconica, ma vi assicuro che non lo è, è che si deve semplicemente distinguere tra “birra buona” e “birra non buona”. Semplicistico? Forse, ma se vogliamo andare avanti a tentare di definire qualcosa di così sfuggente e opinabile rischiamo di lasciare il testimone (della discussione) alla prossma generazione…. 😉
Non sono propenso ai parametri certi, anche perchè pure “buona” è un parametro soggettivo (ed incerto).
Può essere definito “birra artigianale” una birra che rispetta degli standard e delle metodologie nella qualità della produzione unite ad una quantità di produzione limitata.
standard e metodologie non-assolute e universali ma facenti capo ad una o più associazioni di produttori di birra che si autocertificano.
medievale? il medioevo mi è sempre piaciuto 😉
Se io fossi Re…
prima o poi una bella commissione ministeriale verrà chiamata a mettere un po’ d’ordine ( o a incasinare definitivamente ) il nostro settore.
Se ne fossi io il presidente proporrei di:
1) Lasciare la definizione ” birra artigianale” al suo destino. Sono già più di 50 i marchi commerciali registrati che includono questa definizione, e credo sia difficile creare un disciplinare per l’uso di una definizione che altri soggetti possono usare a loro piacere, che pastorizzino o meno i loro prodotti, che lavorino o meno come artigiani.
2) puntare su una nuova definizione, obbligatoria per legge in etichetta, del tipo: Birra Tradizionale.
3) le birre che possono e devono fregiarsi di questa denominazione devono esere prodotte con tecniche tradizionali, in uso fino al 1950. Spostiamo l’attenzione dai produttori ai prodotti. l parametri da rispettare sono:
assenza del ricorso a estratti di malto e luppolo
ricorso a succedanei del malto in misura massima del 15%
assenza di pastorizzazione
assenza di conservanti artificiali
assenza di stabilizzanti
sono permessi invece i miglioramenti tecnologici come:
sistemi di refrigerazione
whirlpool ( nato dopo gli anni 50 )
moderni sistemi di imbottigliamento, stoccaggio, logistica.
Che ne dite?
Per stabilire il significato di birra artigianale, bisognerebbe prima
poter definire il significato di birra industriale.
La birra industriale, non è chiaramente tutta uguale, ogni produttore
stabilisce le proprie tecniche in base al valore qualitativo che vuol dare
alle proprie produzioni.
Ci sono infatti birre industriali pessime ed altre ottime. Nei peggiori
dei casi e voglio per questo intendere le grandi industrie o meglio i
grandi gruppi, la birra industriale viene prodotta tramite diluizioni.
C’è chi si limita a produrre un mosto concentrato, risparmiando tempo,
manodopera ed energia, da diluire per ottenere un quantitativo maggiore.
C’è poi chi lavora con mosto e birra acerba concentrati, lesinando
ulteriormente e poi tramite appositi deossigenatori dell’acqua, diluisce a
fine lavorazione.
Normalmente con diluizioni diverse si producono marchi di birra diversi.
Vedi Heineken che produce 35 marchi di birra da poche produzioni
concentrate, variando semplicemente le diluizioni.
Oltre a ciò c’è poi la filtrazione, che differentemente a quanto applicato
in ambito artigianale è spinta. Viene cioè eseguita a 4 stadi e non è una
semplice chiarificazione. Si esegue quindi chiarificazione,
chiarificazione fine, microfiltrazione e 4° stadio con filtri in ceramica.
Si toglie praticamente tutto: colore, sapore, sospensioni e saturazione,
che viene poi naturalmente ripristinata artificialmente (carbonatazione
forzata tramite appunto l’impiego di carbonatori.
Poi viene eseguita la pastorizzazione e vengono aggiunti conservanti
chimici, che sono naturalmente diversi dai conservanti naturali presenti
nella birra, come luppolo e CO2.
Penso quindi si possa definire artigianale una birra che sia prodotta da
mosti o peggio liquidi non concentrati da diluire in seguito. In pratica 1
litro di mosto = quasi un litro di birra finita.
Che poi può anche essere chiarificata, ma non filtrata a 4 stadi, che
prevede una carbonatazione naturale ad opera del lievito e non carbonata
artificialmente come una qualsiasi bibita gassata. Che contenga i
conservanti naturali, che chiaramente fanno parte del prodotto, ma non di
quelli chimici.
Le dimensioni dell’impianto non centrano come non centra il livello
d’automazione dell’impianto. Da quando una valvola pneumatica incide sul
prodotto rispetto ad una manuale?
Al di la comunque di tutte le differenze che volgiamo trovare sulle
definizioni di prodotti artigianali, rispetto agli stessi in versione
industriale, sarebbe più utile ed interessante, cosa ben più difficile,
cosa è buono e cosa no.
Non che piace o meno, cosa del tutto soggettiva, ma cosa intende con la
definizione di birra buona.
Rispetto delle tipologie? Valore intrinseco dell’inventiva del birraio?
Grattatina di maroni, come ingrediente segreto?
Buone seghe mentali a tutti. CIAO.
@Walter
Perché la birra prodotta tramite estratto di malto, non dovrebbe essere chiamata artigianale, quando l’estratto di malto è ciò che si ottiene dalla fase di ammostamento, meglio conosciuta come fase di estrazione, prima di essere cotto e luppolato e diventare quindi mosto?
In pratica tutte le birre sono prodotte con estratto di malto, da non confondersi con estratto di mosto e cioè quello dei kit, visto che l’estratto di malto e un sottoprodotto di qualsiasi produzione di birra: malto in grani – frantumazione: farina di malto – inserimento nell’acqua: impasto o miscela – riscaldamento e filtrazione tramite letto di trebbie: estratto di malto – cottura e luppolatura: mosto di birra – fermentazione: birra acerba – maturazione: birra pronta.
Niente quindi di chimico, innaturale e/o artificioso. Perché un artigiano non può decidere se produrre l’estratto da solo e rischiare, visto che il malto, come prodotto agricolo è soggetto alle condizioni climatiche, da lui non controllabili e quindi è un prodotto instabile, la qui stabilizzazione non è certo semplice e non può invece optare per l’impiego di estratto di malto, si spera di qualità , già stabilizzato da professionisti, che deve essere ancora molto lavorato e quindi anche molto personalizzato, prima d’arrivare al prodotto finito?
E che cosa dovrebbe esserci contro l’impiego di estratto di luppolo che non è altro che luppolo in forma fluida. Che può essere impiegato per il dry-hopping in modo più efficace e meno rischioso rispetto ai coni, pellet e fiori pressati.
Consideriamo poi che il malto in grani ed il luppolo in granuli non sono certo materie prime, ma semilavorati. Secondo questo ragionamento si dovrebbe riservare la denominazione solo ai birrifici dotati di malteria propria, si ma quali? CIAO.
@ Cerevisia
Perchè, se fossi re, farei come mi pare a me…
A parte gli scherzi, l’elenco delle restrizioni e delle indicazioni che ho buttato giù è puramente indicativo, e ci si potrebbe ragionare per degli eoni. Trovo giusta la tua nota sugli estratti di malto e luppolo: non sono certo equiparabili ad additivi chimici e conservanti che vanno invece banditi, così come le pratiche orripilanti della diluizione del mosto concentrato etc. etc. Mi piacerebbe sapere comunque se qualcuno trova sensata l’idea di una denominazione “birra tradizionale” riservata a prodotti che usano ingredienti e metodi tradizionali, ma realizzate oggi con sistemi tecnologicamente avanzati.
@ Walter
Ho visto un re, ah be si be….
Per me ha un senso, metodologie classiche con l’odierna tecnologia. D’altronde penso che sui metodi classici siamo tutti d’accordo e chi oggi si sognerebbe di tornare alle sale cottura internamente in rame o ai tini in legno. La tecnologia se ben applicata comporta innegabili vantaggi e la chimica riservata ai soli scopi igienici. CIAO
@walter
L’idea di una denominazione “birra tradizionale” potrebbe tradursi in un bollino da assegnare a chi rispetta determinati principi, il problema è che ormai anche nell’opinione pubblica generalista si è diffuso l’appellativo “birra artigianale”, con il quale necessariamente siamo costretti a scontrarci. Non è il miglior epitero possibile, perché il termine “artigianale” poco si addice a ciò che solitamente si vuole intendere. Secondo me i discorsi su denominazioni, bollini e simili dovrebbero entrare in gioco successivamente, prima bisogna capire cosa si intende con birra artigianale, al di là del suo senso letterale.
forse la denominazione “birra tradizionale” è un po’ forzata in italia…
credo che la massa sia convinta che la birra tradizionale sia quella gialla, limpida, superfrizzante.
Paradossalmente si farebbe prima a trovare un definizione per le birre largo consumo perchè sono molto più definite e standardizzate.
Ciao,
mi sono piacevolmente imbattuto in questo sito perchè cercavo una definizione esatta di birra artigianale 🙂
Strano che in Italia/Europa dove ci sono sempre molte leggi sulle etichette e denominazioni non ce ne sia una che regolamenti questa. Pensavo che ero io l’ignorante sulla definizione e invece non esiste!? Mi chiedo come sia tutelato il consumatore che non si informa sul prodotto prima di acquistarlo. Forse dico una bischerata ma… se una delle tante birre industriali decidesse di scrivere artigianale in etichetta potrebbe farlo???
Dio salvi la birra, quella buona!
Non vorrei sbagliarmi, ma credo che la risposta alla tua domanda sia tristemente sì