Eduardo Villegas è un beersommelier messicano, direttore di AMEG, presidente e fondatore della Fraternidad Cervecera e collaboratore per varie riviste e magazine di settore. Alcuni appassionati italiani lo conoscono perché da diverse edizioni è anche una presenza fissa tra i giudici di Birra dell’Anno, il più importante concorso birrario d’Italia, organizzato da Unionbirrai. È anche un caro amico, dei tanti distanti migliaia di chilometri che la passione per la birra è stata in grado di regalarmi in questi anni. Qualche giorno fa Edu mi ha spontaneamente inviato un “manifesto” della birra artigianale italiana, cioè la sua visione del nostro movimento craft che egli ama particolarmente. In casi come questi credo che certe considerazioni siano importanti, perché provenienti da occhi esterni e lontani dalle dinamiche nelle quali siamo quotidianamente coinvolti.
Ecco quindi di seguito lo scritto di Eduardo in forma integrale, dove troviamo qualche interessante spunto di riflessione.
La birra è una bevanda che fa compagnia all’essere umano da migliaia di anni, attraverso numerosi scambi è diventato il liquido multicolore e pieno d’aromi che oggi tutti noi conosciamo bene.
La bellezza più importante di questa bevanda è proprio quella di essere diversa, non solo rispetto alle altre bevande, ma anche tra le sue varie incarnazioni. Ecco che la birra è diventata diversa e anche originale negli Stati Uniti, in Belgio, in Giappone, in Germania, in Inghilterra e senza dubbio in Italia.
La ricchezza culturale italiana accanto alla passione gastronomica danno forma alla nuova birra italiana: la birra italiana artigianale (o indipendente).
La birra italiana artigianale è il risultato della magia creativa che non si ferma alle frontiere dello stile. Gli stili classici sono solo l’ispirazione per imparare e prendere le basi su cui è stata creata la nuova birra.
La diversità della birra italiana è data dall’uso creativo delle spezie, dei fiori, della frutta, delle botti, del miele e di tanti altri ingredienti tipici del luogo dove viene elaborata. Questo bel mosaico, apre infinite posibilità di piacere.
La birra italiana deve salvaguardare e proteggere questo inestimabile valore: l’originalità (risultato chiaro della creatività). É proprio la creatività il valore che la rende diversa e unica tra le tante altre scuole di birra (per esempio quelle menzionate sopra). La birra belga si distingue per la sua originalità, lo stesso vale per la birra tedesca, ecc. Ecco perché il birraio italiano deve fomentare l’originalità, non si deve fermare alla quadratura dello stile, deve rompere le catene di ciò che è già stato fatto, e iniziare (o continuare) a creare birre uniche.
La buona notizia è che questo cammino è già stato avviato, ma non si deve abbandonare, e nemmeno andare dietro alla ricerca di imitazioni. Non ne vale la pena di diventare una fabbrica nazionale che produce imitazioni di birre straniere.
Il birraio italiano ha la responsabilità di trasmettere quest’idea e passione ai suoi clienti, così che anche i consumatori possano chiudere questo circolo virtuoso.
La birra italiana artigianale è una bevanda lontana dello snob, ma vicina alla raffinatezza, alla qualità, alla creatività, all’amicizia, ma sopratutto alla sua terra e alla sua gente. Non è una moda, ma uno stile da vivere.
Finalmente dobbiamo essere consapevoli che la scuola italiana della birra è arrivata!
Nonostante la birra artigianale italiana abbia più di vent’anni, in molti osservatori stranieri resiste la visione di un movimento che si caratterizza per la creatività dei suoi birrai. Come sapete è un’arma a doppio taglio, perché in passato abbiamo più volte visto come un simile assioma presti il fianco a sperimentazioni discutibili, soprattutto nell’uso di ingredienti strani. I concetti di chilometro zero e di legame col territorio non di rado sono stati sfruttati per elaborare ricette dal discreto ritorno in termini di comunicazione, ma abbastanza inconsistenti (se non peggio) una volta tramutate in birra.
Inoltre il mito della creatività può spingere molti birrai a sperimentare senza conoscere a fondo le basi dell’arte brassicola. Per creare prodotti innovativi è fondamentale possedere altissime competenze negli stili tradizionali, perché la “botta di culo”, diciamolo chiaramente, nella birra non esiste. Sono pochissimi i birrai italiani che cominciano questa professione dopo aver concluso studi specifici o aver acquisito sufficiente esperienza: il mito della creatività può far credere loro che si possono bruciare le tappe o posizionarsi sul mercato solo sperimentando.
Di contro però il discorso della creatività ci offre un credito da sfruttare al meglio. È una potenzialità da non sottovalutare, purché venga sviluppata nel giusto modo. Alcune birre italiane sono pietre miliari nell’uso di tecniche particolari, come gli affinamenti in legno, le aromatizzazioni con frutta e l’impiego di cereali alternativi. Tuttavia la creatività può esprimersi anche in maniera più sottile, prendendo ricette classiche e modificandole con piccole variazioni, ma fondamentali. Ricordo sempre che la Tipopils del Birrificio Italiano è una birra estremamente innovativa, pur nella sua apparente semplicità.
Il contributo di Eduardo è quindi interessante perché conferma quali sono le caratteristiche che gli esperti stranieri associano alla nostra birra artigianale. Sta a noi utilizzare al meglio questo patrimonio.
Rimango dell’idea che non esisterà mai uno stile di birra italiano, riconosciuto nel mondo, finchè si continuerà solo ad aggiungere ingredienti. Credo convenga investire su varietà di luppolo/malto/lievito nostrane, e partire da lì. In particolare la selezione/incrocio di luppoli. Che sia qualcosa di fattibile per un HB medio?
Beh uno stile italiano “quasi” ufficiale già esiste, come espresso dall’ultima release delle Style Guidelines del BJCP
Di sicuro “l’appunto” sulle IGA del BJCP è un buon inizio per il nostro paese. Per certi versi le IGA sono più vicine ad uno stile vero e proprio rispetto, ad esempio, alle NE IPA, in particolar modo in Italia. Per altri versi no. Se un pizzaiolo di Sydney ordina farine, lievito, pomodoro e mozzarella dall’Italia e poi ci fa la pizza con sopra il ragù di canguro, ha senso secondo te parlare di Australian Pizza? Più in generale, quando sei costretto ad utilizzare 3/4 degli ingredienti che il tuo paese non produce, ha senso associare il prodotto al tuo paese? Non è retorica. Me lo sono chiesto più volte. A volte credo sia solo pura strategia di marketing, e a tal proposito proporrei le French IGA, con vini francesi e una sigla sull’etichetta di sicuro effetto! 😀
Ma è il bello della birra (e se vogliamo anche il brutto): poter prendere un qualsiasi stile e riproporlo nel proprio birrificio. Quasi sempre nella birra il riferimento territoriale nel nome degli stili non fa riferimento agli ingredienti utilizzati, ma al luogo a cui tale stile era legato. Le India Pale Ale non sono nate in India, così come le Italian Grape Ale non sono appannaggio solo dei birrifici italiani, poiché il nome indica semplicemente un modo “italiano” di fare birra.
Sono in parte daccordo con te, ma per me, un’American IPA (stracolma di simcoe/amarillo e co.) è American anche se è fatta in Norvegia. Chiamarla Norwegian IPA, ha poco senso. E’ American in almeno uno degli ingredienti di base, non è American perchè ci aggiunge i marshmallow in dry hop. Credo si possano fare ottime birre aggiungendo una miriade di ingredienti oltre a “quelli di base” ma se ad ogniuna diamo un nome ed uno stile, il BJCP ne dovrà aggiungere una dozzina al giorno.
Sulla prima parte mi pare che concordiamo, sulla seconda non è come dici tu, altrimenti ci troveremmo con una miriade di Chestnut Ale, Cherry Ale, Chili Ale, ecc. invece che con categorie generiche come Spicy o Herb/Vegetable. Di base per la codifica di uno stile c’è un motivo storico (pensiamo alle Pumpkin Ale, meno diffuse di altre “speziature”). Con l’Italia sono stati particolarmente generosi considerando che esistiamo solo da 20 anni ed è comunque stato l’omaggio a una dei movimenti emergenti più importanti in assoluto.