Come avrete notato se seguite i canali social di Cronache di Birra, ieri ho partecipato a una degustazione organizzata dall’Unione Degustatori Birra presso la Città del Gusto di Roma. La serata è stata incentrata sul (quasi) stile delle Italian Grape Ale, riconosciuto ufficiosamente dal BJCP nel 2015 come prima tipologia di origine italiana. Ne abbiamo parlato spesso su queste pagine, quindi ormai dovreste conoscerne le caratteristiche principali, che possono essere riassunte con un solo criterio: rappresentare una sorta di anello di congiunzione col mondo del vino, impiegando l’uva in forma di frutto o (più comunemente) di mosto. Delle numerose peculiarità di questo stile ho scritto quasi un anno fa, ma ogni volta che partecipo a una degustazione come quella di ieri rimango meravigliato dalla profondità e dalla varietà che la famiglia delle Italian Grape Ale è in grado di garantire. Alla faccia di tutti coloro che continuano a muovere perplessità nei loro confronti.
Purtroppo siamo un paese esterofilo, questo lo sappiamo da sempre. Se le Italian Grape Ale fossero nate negli Stati Uniti probabilmente avrebbero attirato una mandria di beer geek italiani pronti a svenarsi pur di assaggiarne l’ultima incarnazione. Ma purtroppo c’è nel nome quel riferimento al nostro paese che modifica completamente le aspettative degli appassionati. Ci strappiamo i capelli per delle IPA del New England che – incredibile innovazione! – appaiono torbide come un succo di frutta, ma se in Italia viene creato uno stile birrario con aggiunta di mosto di vino, allora ecco che viene bollato come una fantozziana “cagata pazzesca”. Senza magari conoscerlo approfonditamente.
Eh sì, perché conoscendole un po’ meglio si scopre che le Italian Grape Ale rappresentano davvero un universo a sé stante, con una dignità tale da creare senza dubbio uno stile a parte. Una fetta del merito è da ricercarsi nella straordinaria eterogeneità legata all’ingrediente principe, l’uva: l’Italia può vantare un patrimonio sconfinato di cultivar destinate alla vinificazione, ognuna con peculiarità ben precise. Potete trovare Italian Grape Ale che giocano con l’acidità, altre che puntano a esaltare determinati caratteri aromatici, altre ancora che virano sui toni speziati. Inoltre l’immensa ricchezza di cultivar permette ai birrifici non solo di utilizzare tante varietà diverse, ma soprattutto di sfruttare vitigni della zona realizzando così un vero legame col territorio. È un concetto che sentiamo spesso ripetere nel mondo della birra, spesso a sproposito. Con le Italian Grape Ale invece ha decisamente più senso.
Un altro elemento di straordinaria variabilità risiede nelle tecniche produttive scelte da ogni birrificio. Banalmente significa, ad esempio, decidere quale percentuale di mosto di vino utilizzare: c’è chi si limita a quantità relativamente limitate (10%) e chi invece sale su cifre ben più consistenti. Ma significa anche capire come gestire gli altri ingredienti: alcune Italian Grape Ale sono fermentate con normale lievito di birra, altre usano lieviti per la vinificazione, altre ancora non prevedono inoculo alcuno. Esistono Italian Grape Ale che prevedono l’impiego di luppoli aromatici e altre che usano suranné, proprio come i Lambic del Belgio. Italian Grape Ale create con una base di birra progettata appositamente e altre che si innestano su prodotti già nella gamma del birrificio. A un livello estremo, esistono persino Italian Grape Ale che seguono il metodo classico, quello tipico dello Champagne.
Gli elementi di variabilità sono in effetti infiniti e lo stesso ingrediente principe può essere impiegato in maniera diversa. Come abbiamo già accennato può essere usato come uva, ma anche quando è impiegato in forma di mosto – cosa che avviene generalmente – lo stesso può essere normale, parzialmente fermentato, concentrato o persino cotto. Possono sembrare variazioni minime, ma in realtà influenzano pesantemente tutta la ricetta e le scelte che il birraio è chiamato a compiere in fase produttiva. Insomma, come avrete capito le caratteristiche di questa famiglia di birre sono tali da rendere ogni Italian Grape Ale profondamente diversa dalle altre: così si spiegano i confini molto labili con i quali il BJCP ha voluto identificare lo stile.
Ovviamente non tutte le Italian Grape Ale raggiungono lo stesso livello qualitativo: i margini di errore sono tantissimi e il birraio deve dimostrare talento e sensibilità specifici. Anche a causa del crescente interesse nei confronti di questo nuovo stile, negli ultimi tempi molti birrifici si sono voluti confrontare con le Italian Grape Ale, non sempre con prodotti degni di attenzione. Questo ha alimentato un certo grado di diffidenza nei loro confronti, che però – come accennato – nasce secondo me da quel fastidioso approccio snob verso tutto ciò che proviene dal nostro ambiente brassicolo. Immagino cosa sarebbe successo se le NE IPA fossero nate in Italia: nella migliore delle ipotesi sarebbero state considerate una furbata per vendere birra senza prendersi l’onere (e il tempo) di chiarificare il prodotto finale.
Quello che vi consiglio quindi è di avvicinarvi a questo stile con curiosità e scevri da tutti i pregiudizi che talvolta lo accompagnano. Ma chiaramente fate lo stesso con le New England IPA, così vi farete un’idea circa l’opportunità di considerarle uno stile a sé stante 🙂 . L’unico aspetto negativo delle Italian Grape Ale è che costano più della media delle altre birre artigianali, a causa di motivi ampiamente comprensibili. Per fortuna però si stanno moltiplicando degustazioni come quella di ieri sera, che permettono di crearsi una visione d’insieme sullo stile a un prezzo sicuramente competitivo. Partecipate a iniziative del genere e probabilmente vi innamorerete di queste birre.
Chiudo con un giochino. Ieri abbiamo assaggiato nell’ordine Bifuel di Birradamare, Genesi di Birra dell’Eremo, BB7, BB9 e BB10 di Barley e Settembre e Ottobre di Birrificio del Ducato. Citando le scelte produttive che si possono compiere con questo stile, ne ho riportate alcune proprie di queste birre nello specifico. Sapreste associarne ognuna alla rispettiva birra?
Giusto per fare il precisino: “A un livello più estremo” non va bene, “estremo” è un superlativo. Ma nella sostanza sono d’accordo con tutto ciò che hai scritto sulle IGA 😉
Giusto Michele, grazie correggo
Gran bella invenzione le IGA, e chi meglio di noi italiani poteva miscelare con così tanta bravura il mosto d’uva e il mosto d’orzo!!! conosciute con la bifuel che non manca quasi mai nel mio frigorifero…..
Complimenti ai birrai che hanno saputo cimentarsi in uno stile così complicato.
ciao
Premessa: non abito in Italia e non conosco le IGA, purtroppo.
Sono contrario alle IGA come stile birraio. Non sono d’accordo che vengano riconosciuti stili studiati e forzati a tavolino. Spesso mi sembrano iniziative da mastri birrai e pubblico con bassa autostima che sentono il bisogno di essere riconosciuti da altri.
Sono convinto che per uno stile essere riconosciuto ci deve essere sì, il birrificio che lo propone, ma più importante un pubblico che ne fa domanda. Così sono nati gli altri stili: per offerta, restrizioni di vario tipo, per sperimentazioni, ecc, ma sopratutto perché c’erano consumatori che ne chiedevano di più. Non dubito che iniziative come quella che hai partecipato mirano a creare questo pubblico, per esempio. Ma, in quel caso, ritengo riconoscere le IGA una mossa affrettata.
Detto ciò, non dubito che sia interessantissimo e addirittura importante le ricerche in questa direzione per trovare prodotti, sapori, aromi, e condizioni di consumo nuovi. In quest’ottica, forse le IGA sarebbero da considerare non proprio un nuovo stile brassicolo, ma un nuovo prodotto da bere.
Io ho iniziato a bere birra perché il sapore del vino non mi piaceva (e non mi piace tutt’ora). Quindi dal mio punto di vista le IGA sono pessime: e non è una questione di esterofilia, visto che anche i Lambic come il Vigneronne di Cantillon non mi piacciono affatto (affermazione censurabile dai più, ne prendo atto…).
Più in generale credo che questa deriva del “famolo strano” stia prendendo derive che, praticamente, portano a snaturare il concetto stesso di birra per spingersi verso sapori tipici di altre bevande.
Le Fruit IPA, ad esempio, le trovo altrettanto discutibili.
OK le note fruttate date dai luppoli nelle IPA classiche (adoro la “frutta tropicale” che trovo, per dire, nella Koral Pacific IPA di Hammer): ma se in una IPA metti la frutta, dal punto di vista organolettico praticamente la stai trasformando (estremizzo) in un succo di frutta alcolico e non ci trovo davvero senso visto che gli stessi aromi di frutta li puoi ottenere anche senza aggiunte (ben diverso dal caso delle Kriek o delle Framboise, dove l’aggiunta della frutta risponde all’esigenza di strutturare le qualità organolettiche del prodotto, fermo restando l’inoculo dei lieviti presenti sulla buccia).
Sulle NE IPA sospendo ogni giudizio: questa estate andrò a Boston – con annessi giri nel Maine e nel Vermont – e le proverò direttamente sul posto (per il momento mi sono astenuto dal bere i cloni europei proprio perché voglio “sverginarmi” con il prodotto originale).
Vivendo e birrificando nella regione Toscana territorio del vino non potevamo prendere in considerazione tale stile
Da poco ripreso e rivisto il progetto di birra Cudera nata a Bolgheri la patria del vino
Credo molto nelle IGA stile tutto italiano
Siamo unici
Come possono essere definite stile le IGA? Perché uno stile sia tale, bisogna che vengano prima definiti ingredienti e metodo per produrre tale stile. Per le IGA quale metodo esiste e quali ingredienti esitono. Qual’è la birra base? Una Ale, una Lager? E quale mosto di vino s’impiega? Se ognuno fa la birra base come gli pare e mette il mosto di vino che gli pare, come possono definorsi stile? Chiunque parli delle IGA come uno stile, di stili ci capisce poco. Inoltre è abbastanza deludente che i birrai Italiani oltre ad impiegare tecniche, bottiglie, tappi, etichette e prezzi da vino, ora impieghino anche gli ingredienti del vino. Va bene siamo il apese del vino e allora facciamno il vino. Se poi qaulcuno cominciasse a priodurre vino, con il mosto di birra, cosa ne pensereste? Questo non è snobbare, questo è realismo.
“Chiunque parli delle IGA come uno stile, di stili ci capisce poco.”
Peccato che a parlare di IGA come stile sia il BJCP
Infatti BJCP si è inventato diversi stili nella sua ultima edizione, comprensi alcuni sud americani. Comunque confermi o smentisci che un stile per essere tale deve avere degli ingredienti ed un metodo produttivo ben definito oppure credi che basta che un britannico scriva che esiste per essere vero?
I confini di alcuni stili sono molto labili, dovresti saperlo. Quali sono gli ingredienti ben definiti in una Saison, per dire? Quale il metodo produttivo ben definito in una Berliner Weisse?
Una cosa è avere un certa libertà d’interpretazione , un’altra è avere come unica indicazione la presenza di mosto di vino, senza specificare quale e sopratutto senza specificare la birra che farà da base. Trattasi di semplice aromatizazzione come la birra al basilico, al tartufo e a qualsiasi altra cosa. O sono tutti nuovi stili?
Eh ma non hai risposto alle mie domande 🙂
Nemmeno tu, ma rifletti ce lo puoi mettere il cocholate o l’amarillo in una Berliner Weizen?
Ok, non vuoi rispondere alla mia domanda. Va bene così.
Bel sistema per non rispondere e per non fare la figura di quello preso in castagna.
Stefano ti ho fatto una domanda, hai ribattuto in mille modi tranne che dandomi una risposta.
Ti ripeto, va bene così.
Ciao.