Da quando esiste Cronache di Birra (quindi da almeno 8 anni) sento ripetere sempre la stessa domanda: “In Italia non ci sono troppi microbirrifici per un mercato così di nicchia?”. Il timore che stiamo vivendo una bolla economica è forte, ma l’aspetto curioso è che tale considerazione esisteva già diversi anni fa, quando il numero di birrifici in Italia era un terzo di quello attuale. Paradossi dell’evoluzione di un settore, che tuttavia non è tipico solo del nostro paese: nel ben più solido mercato degli Stati Uniti, ad esempio, vengono poste esattamente le stesse domande. E un recente articolo dell’economista Bart Watson, apparso sul sito della Brewers Association, non solo tenta di sfatare per sempre questo falso mito, ma addirittura arriva a dichiarare che c’è ancora spazio per molti nuovi birrifici.
L’affermazione di Watson pare fin troppo ottimistica, ma è lo stesso autore a definirla una mezza provocazione. Egli però crede davvero che ci siano ancora ampi margini di crescita per la birra craft negli USA, nonostante il numero di nuove aperture che procede a ritmi impressionanti. Attualmente, infatti, sull’intero territorio sono attivi più di 4.000 produttori, motivo per il quale diversi analisti da tempo si stanno chiedendo se è stato raggiunto il punto di saturazione del mercato. Una situazione che presenta diverse analogie con il mondo della birra artigianale italiana.
Le convinzioni di Watson partono dall’analisi di vere e proprie bolle speculative, come quella immobiliare che colpì gli Stati Uniti nella seconda metà degli anni 2000 (crisi dei subprime). In parole povere, queste solitamente partono da un’euforia (razionale o irrazionale) di soggetti economici convinti che un nuovo segmento potrà garantire cospicui guadagni e prosperità nel futuro, innestando un circolo vizioso che porta in breve tempo a una situazione di rottura. Quando la bolla scoppia per condizioni ormai non più sostenibili, si verifica un crollo del mercato che ne riporta i valori sostanzialmente a quelli di inizio ciclo.
Watson ci tiene a precisare che il crollo conseguente lo scoppio della bolla deve essere realmente traumatico per essere definito tale – e dunque per identificare, a posteriori, l’esistenza di una bolla. Ma su questo torneremo più avanti, perché prima è utile capire quando si realizza una fase speculativa. Secondo l’autore, essa avviene nel momento in cui gli investimenti diventano decisamente superiori alla domanda, che dunque non sarà più in grado di sostenere tutta l’impalcatura. Watson prende in considerazione due parametri del mercato della birra craft: il numero di birrifici attivi (investimenti) e la produzione di birra artigianale (domanda). Sulla seconda scelta avrei qualche perplessità, ma andiamo avanti.
Confrontando i dati storici delle due voci, si scopre che la curva dei birrifici attivi è pressoché uguale a quella della produzione totale. Quest’ultima rimane sempre al di sopra della prima, poiché i loro tassi di crescita sono praticamente identici. Dunque non solo non saremmo in una fase speculativa, ma ci sarebbero persino margini per un ulteriore aumento di produttori pur con una domanda inalterata.
Ancora più interessante è analizzare il grafico tornando indietro nel tempo e verificando cosa accadde a fine degli anni ’90. Come spiegai in un post del 2014, dopo il 1998 il mercato della birra craft negli USA subì un brusco stallo e rimase pressoché stabile per quasi un decennio, dopo ritmi di crescita davvero impressionanti. Dal grafico di Watson si nota che proprio in quel momento le curve del numero di birrifici attivi e del totale della produzione di birra craft si toccarono: si raggiunse quindi una vera saturazione del mercato, che lasciò praticamente inalterato il numero di produttori fino al 2008. Poi la domanda (produzione) ripartì e dopo qualche anno anche i birrifici tornarono a farsi più numerosi. La crescita esponenziale degli ultimi anni è storia recente.
Watson però ci tiene a precisare che quel passaggio a vuoto durato un decennio non coincise con lo scoppio di una bolla, perché non vi fu alcun crollo del mercato, ma semplicemente una fase di stallo. Nella peggiore delle ipotesi ciò che egli prevede è che la curva del numero di birrifici raggiunga nuovamente quella della produzione, decretando un’altra fase di stanca come quella già sperimentata in passato. Dunque parlare di speculazione e di bolla economica sarebbe completamente sbagliato.
E per quanto riguarda l’Italia? Ancora una volta sarebbe interessante un parallelo, ma il problema è che per il mercato artigianale mancano dati consolidati. Abbiamo quelli sul numero di birrifici operanti, ma siamo privi di statistiche storiche sulla produzione. I consumi generali nel settore non sono aumentati negli ultimi anni, ma neanche ci spiegano com’è cambiato il modo di bere birra. Quindi per il momento dovremo limitarci a seguire i nostri istinti o a vivere sulla nostra pelle l’evoluzione del mercato.
Voi cosa ne pensate?
beh, secondo me la bolla speculativa è molto più probabile in mercati per l’appunto speculativi.
mi spiego meglio: dove abbiamo strumenti non reali e fortemente volatili (mercati finanziari), è molto più semplice creare situazione ad hoc, basate spesso su dati gonfiati o addirittura falsi, o su strutture simil scatole cinesi, che poi una volta scoperchiate portano ad una reazione a catena distruttiva da valle a monte.
Il mercato della birra, come quello di tutti i beni materiali e di consumo (direi anche di prima necessità), a mio avviso fatica ad essere oggetto di vere e proprie speculazioni, a maggior ragione visto che stiamo parlando del mercato craft, dove non ci sono strutture immense come le grandi banche protagoniste del crack del 2007.
L’unico vero rischio è nelle acquisizioni da parte dell’industria, che poi possono gonfiare e potenzialmente decidere di distruggere il mercato. Oppure della creazione di una Borsa della birra… 😀
inoltre, io non guarderei tanto alla produzione quanto al consumo pro capite: se per effetto della cultura che si sta creando non aumenta, l’unica possibilità è che i birrifici craft erodano quote di mercato ai grandi, in un classico ma clamoroso travaso dei consumi: una cosa che vedo comunque ancora difficile, il divario economico è troppo, sia in termini di investimenti che in termini di prezzo finale al cliente.
Kevin ha ragione. I consumi in Italia non stanno crescendo e l’unico modo per crescere, che ha la birra artigianale, è quello di rosicare quote agli industriali. Per farlo c’è bisogno di un’inversione di tendenza. Cioè deve ingolosire i consumatori di industriali. Prezzi più contenuti, immagine più da birra, birre meno di nicchia. mentre in Italia le artigianali, sono ancora intese come prodotto di nicchia, per via dei fattori descritti. Per avvicinare le masse, deve scendere dal piedistallo e diventare un prodotto di massa. Senza per forza competere con le industriali sullo stesso piano, ma deve perdere quell’odiosa patina che la offusca.
Esattamente. In Italia è e resterà sempre un prodotto di nicchia per il semplice motivo che ha un prezzo abnorme.
Tra l’altro del tutto ingiustificato.
Anch’io sono d’accordo con Kevin.
Poi, però, vorrei sollevare una provocazione: il vero problema è in numero in ascesa dei birrifici o dei vespasiani? Mi spiego: a settembre sono stato a Torino, all’evento di Baladin che ha introdotto la novità 1 birrificio = 1 birra (nelle edizioni passate era 1 birrificio = 3 birre, tranne un paio di ovvie eccezioni). Orbene: su 200 birrifici/birre, avevo selezionato circa 25 tra “stili nuovi” che non fossero le solite Ipa clonate e, solo poi, “nomi noti”.
Avevo voglia di novità, come prima cosa, di stili e nomi. E’ stato un disastro: birre che definire orripilanti è dir poco. Dopo la terza vomitevole oscenità, mi sono rivolto ai “nomi noti” ed ho fatto pace con la giornata che era iniziata su di un irritante crinale.
Ergo: c’è spazio sul mercato se sai cosa produci, negli altri casi meglio tornare Homebrewer ed avvelenare solo gli amici (incompetenti) e lasciare il mercato libero.