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Birrifici italiani in fermento: forse il settore è davvero maggiorenne

Come forse saprete il 2014 è l’anno della maggiore età per la birra artigianale in Italia, ricorrenza di cui abbiamo parlato su queste pagine poco più di un mese fa. Si potrebbe pensare che questo dei 18 anni sia un traguardo puramente simbolico, eppure ci sono alcuni indizi che ci fanno credere che il settore sia vicino a una svolta, al definitivo salto verso la completa maturità. In particolare in questo preciso momento storico c’è un gran numero di microbirrifici italiani che sta ingrandendo o spostando la propria sede produttiva, che in soldoni si traduce in un ampliamento aziendale più o meno marcato in base alla fattispecie. Questi produttori stanno compiendo un passaggio fondamentale per loro stessi, ma non solo: è chiaro che in maniera indiretta le loro scelte si ripercuoteranno su tutto l’ambiente. La birra italiana sta quindi diventando realmente maggiorenne oppure è un discorso puramente anagrafico? Proviamo a capirlo.

Credo che molti saranno d’accordo con me nel considerare la scena nazionale della birra di qualità ancora in veloce evoluzione. I birrifici continuano a spuntare come funghi e nuovi modelli di business cercano di farsi strada, concretizzandosi nelle diverse versioni di beer firm. I locali seguono lo stesso vertiginoso trend e percorrono proposte di consumo diverse, offrendo dei canali di vendita privilegiati in costante aumento. I distributori, che fanno da collante tra produzione e somministrazione, stanno acquistando una forza sempre maggiore, in grado di influenzare pesantemente tutto il settore. Nel frattempo aumentano le iniziative legate alla birra artigianale e l’interesse da parte dell’opinione pubblica generalista. Insomma, sono gli effetti di un successo entusiasmante quanto repentino.

Fino a oggi abbiamo misurato questo successo con il numero di microbirrifici operanti sul territorio, capace di crescere a dismisura nel giro di pochissimi anni. Di fronte a cifre spaventose – secondo Microbirrifici.org attualmente in Italia sono operativi 505 impianti, per un totale di circa 630 aziende brassicole attive (tra birrifici e beer firm) – il primo e più naturale pensiero è per la saturazione del mercato: quanto ancora il settore sarà in grado di sostenere queste continue aperture? Qualche mese fa ho abbozzato i classici conti della serva, che se non totalmente probanti restituiscono comunque il senso della situazione. E il verdetto non è dei più ottimistici: nonostante la base dei consumatori italiani sia in aumento, l’impressione è che abbiamo già ampiamente superato il limite massimo di birrifici che il mercato può al momento – e sottolineo al momento – sostenere.

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In parole povere sembrerebbe che in Italia, da un punto di vista puramente economico, ci siano troppi birrifici, opinione che credo sia condivisa da molti. Questo tuttavia non sta impedendo il fiorire continuo di nuove realtà brassicole, probabilmente perché il settore ha le apparenze di un porto sicuro in cui investire – o, detta in modo più romantico, perché semplicemente la passione supera ogni valutazione pessimistica. D’altro canto esiste una discrepanza temporale tra la realizzazione degli investimenti e ciò che essi sono in grado di restituire, nel bene e nel male. Probabilmente siamo ancora in questo cono d’ombra cronologico per capire l’attuale efficienza del settore per chi vi si avvicina oggi.

La conclusione è che sarà il tempo a mostrare cosa resterà di questo incredibile fermento. Direi che è un ragionamento che non fa una piega, ma non siamo qui per confutarlo. Più che altro bisogna capire quanto ancora bisognerà attendere per una risposta da parte del mercato. E, ricollegandomi a quanto scritto inizialmente, è possibile che il processo venga notevolmente accelerato dalle ultime vicende brassicole.

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Ho accennato ai tanti birrifici che a breve si ingrandiranno o si sposteranno, oppure che hanno da poco compiuto questo importante passo. Per loro significherà ampliare la produzione, consolidare la propria solidità aziendale e, soprattutto, allontanarsi ulteriormente da una dimensione “micro”, tipica di molti tra coloro che si lanciano in questo mondo. La distanza tra loro e le piccole realtà brassicole sarà ancora più evidente, lasciando presumibilmente a queste ultime l’onere di scannarsi per le briciole nella speranza di emergere sul mercato (o sui mercati, se vogliamo volgere lo sguardo anche all’estero).

In altre parole sarà sempre più difficile aprire un birrificio che non sia destinato a chiudere o semplicemente a sopravvivere. Ritengo che sia finito il tempo per i progetti campati per aria, per gli impianti lillipuziani, per le conduzioni dilettantistiche. Il mercato della birra italiana diventerà sempre meno accessibile, lasciando spazio solo a chi può permettersi investimenti importanti e idee chiare. E questo discorso non riguarderà solo i birrifici, ma anche le beer firm.

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E chi non avrà a disposizione fondi sufficienti per partire alla grande? Dovrà essere bravo a inventarsi qualcosa di diverso, chiaramente rischiando qualcosa in più. Oppure potrà provare a lanciarsi comunque sul mercato, poiché la base di consumatori aumenta di anno in anno. Ma abbastanza velocemente per tutti? È questo il punto…

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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9 Commenti

      • ahahahahah 😀 No appoggio il suo approccio lucido alla cosa….lui ha seguito il movimento fin dagli albori e come qualunque persona ricca di onestà intellettuale sa che adesso il movimento è nettamente migliore di prima. Quanti birrai prima viaggiavano, andavano a scoprire le tradizioni, i posti, si confrontavano con altri birrai? certo poi in un calderone enorme ci finisce dentro di tutto, ma poi tanto ci pensa il mercato a scremare gli incompetenti 🙂

  1. Sono un “niubbo” di questo settore, ma vorrei esprimere le mie personali idee.
    Il consumo difficilmente crescerà di pari passo rispetto all’offerta, per cui confidare nella crescita della domanda a livello paritario è speranza vana (secondo me!).
    Piuttosto, condivido le difficoltà crescenti che i nuovi entranti dovranno affrontare, e la necessità di inventarsi – o reinventarsi – per emergere rispetto ai competitors.
    Infine, una domanda a bruciapelo: se queste crescenti difficoltà di successo favorissero – piuttosto che penalizzassero – le beer firm?

  2. Spostandoci dalle grandi città e dai grandi numeri, nessuno vede possibile lo sviluppo parallelo della cultura birraria (in italia ad oggi siamo molto indietro) con quello di tanti piccoli birrifici/brewpub locali/comunali che vivano principalmente del consumo degli abitanti del territorio, un pò come è stato per la germania in passato(se non sbaglio)?
    Dalle mie parti c’è un brewpub che lavorando in questo modo funziona molto bene….e a roma/milano/fiere ecc non arriva una bottiglia.

  3. Se la soluzione per allargare il mercato è vendere all’auchan e co. (cosa che fanno già in molto purtroppo) siamo messi veramente male…

    • Non vedo il problema visto che lo fanno serenamente orval, duvel, chimay, brooklyn brewery, dupont ed altri attori di altissimo livello qualitativo.
      Mai messo piede in un supermercato statunitense? Corsie intere di Craft Beer (rogue, lagunitas, dogfish etc etc) a prezzi concorrenziali. Magari!!

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