Come forse saprete, oggi si chiude a Verona la 47a edizione del Vinitaly e, come forse saprete, per la prima volta vi ha partecipato anche Assobirra con alcuni dei microbirrifici che rappresenta. L’associazione degli industriali della birra ha sfruttato l’importante kermesse veronese per anticipare alcuni dati del prossimo Annual Report, documento che ogni anno offre una panoramica del mercato in Italia. Ne approfitto allora non solo per illustrarvene il contenuto – piuttosto sorprendente – ma anche per gettare uno sguardo all’andamento della birra (artigianale e non) in altre importanti nazioni: USA e Austria. Come detto però partiamo dalla nostra nazione, dove i numeri testimoniano l’ottima salute del mercato: la birra in Italia rappresenta senza dubbio uno delle specifiche produttive più immuni alla crisi economica.
La prima notizia positiva arriva dai volumi di produzione, che nel 2012 sono rimasti pressoché uguali a quelli del 2011 (oltre 13 milioni di ettolitri). Lo stesso discorso vale per le vendite, che non hanno mostrato sostanziali variazioni. Il terzo dato fondamentale – e forse il più positivo tra tutti – riguarda l’occupazione: il settore ha registrato un +4,4% di occupati, per un totale di circa 4.700 impieghi diretti – considerate che il tasso di disoccupazione in Italia è cresciuto del 15,6% su base annua. Il comunicato di Assobirra specifica che il saldo positivo dei posti di lavoro è da ascrivere sostanzialmente ai microbirrifici, visto che l’industria è rimasta ai livelli del 2011.
La morale quindi è che in Italia nell’ultimo anno la birra è riuscita a tenere botta alla crisi, mostrando addirittura segnali di crescita grazie al comparto artigianale. Il dato occupazionale è molto interessante, perché probabilmente testimonia un processo di consolidamento e ulteriore crescita per quei microbirrifici già affermati. In un periodo economico simile, sono notizie davvero rassicuranti.
Se qui in Italia possiamo dunque sorridere, negli USA possono direttamente brindare a tutto spiano. Nonostante le previsioni di saturazione del segmento artigianale, la “craft beer” americana continua a crescere a ritmi impressionanti: l’ultimo comunicato della Brewers Association riporta un eloquente +15% su base annua alla voce volumi prodotti e un +17% per quanto riguarda il valore di mercato. Penserete che sono numeri clamorosi, ma aspettate di leggere quelli della rispettiva fetta di mercato: nella “guerra” con gli industriali, i microbirrifici hanno rosicchiato altri punti percentuale, raggiungendo il 6,5% in termini di ettolitri prodotti e – udite bene – il 10% del valore totale del mercato.
Pensate che nel solo 2012 a livello occupazionale i microbirrifici statunitensi hanno creato la bellezza di 4.857 posti di lavoro, cioè più di quanti la birra ne garantisca in Italia – non nell’ultimo anno, ma in generale! E le dichiarazioni di Paul Gatza, direttore generale della Brewers Association, sono molto ottimistiche anche per il futuro. Ecco come le riporta Beverfood:
In media, stiamo assistendo all’apertura di un nuovo birrificio artigianale per ogni giorno dell’anno da qualche parte negli Stati Uniti, e ci aspettiamo ancora di più per il prossimo anno. C’è chiaramente una forte domanda nel mercato per la birra artigianale prodotta, come indicato dalla crescita continuativa anno dopo anno. Queste piccole fabbriche di birra stanno facendo grandi cose per le loro comunità locali, per la nostra cultura alimentare e per l’economia globale.
E concludiamo questa carrellata di buone novelle con l’Austria, che non sarà certo una superpotenza birraria, ma che rimane un paese molto interessante da monitorare. Soprattutto se i dati del mercato della birra appaiono in netta controtendenza rispetto a quelli della vicina Germania, nazione di riferimento per la cultura brassicola austriaca. Così mentre i tedeschi devono accusare una contrazione delle vendite che li riporta a livelli pre-riunificazione, in Austria si vive una situazione simile alla nostra: rispetto al 2011 il consumo interno è rimasto pressoché invariato. Con l’aumento della popolazione, invece, il consumo pro capite ha subito un piccolo calo, non abbastanza alto tuttavia da far perdere alla nazione il secondo posto in Europa in questa speciale classifica – non lo sapevate che gli austriaci sono i più grandi bevitori di birra dopo i cechi, eh?
Positivo il dato sull’export, che ha registrato un +2,8% su base annua; interessante notare come il più importante paese per le esportazioni sia proprio l’Italia. Altri due dati curiosi: l’Austria è, dopo Danimarca e Lituania, la nazione europea con il maggior numero di birrifici attivi, mentre il formato di bottiglia più diffuso è lo 50 cl.
Le parole di Alberto Frausin, presidente di AssoBirra:
“AssoBirra rappresenta ormai a pieno titolo tutto il mondo birrario, dai grandi industriali ai piccoli produttori, agli artigiani. Siamo ormai “la casa della birra”, uniti da un prodotto che è lo stesso da migliaia di anni: naturale, senza conservanti e coloranti, fatta con cereali, acqua, lieviti e luppolo. Senza dimenticare l’accortezza dell’uomo e di mastri birrai che da sempre la producono con la stessa passione”.
Facciamoci due risate…
La cosa bella è che negli USA la Brewers Association riunisce sia industriali che craft, ma questi ultimi non solo non si fanno problemi a sottolineare la differenza tra birra commerciale e artigianale, ma fanno di questa dicotomia il loro cavallo di battaglia a livello di comunicazione
Andrea, credi facciano bene o che sbaglino in questo?
E a cosa potrebbe essere dovuta questo diverso comportamento tra il movimento italiano e quello americano?
Secondo me sbagliano. O meglio: il problema non è stringere la mano all’industria, il problema è annichilire completamente la dicotomia industriale-artigianale mentre lo si fa. La mia sensazione è che in Italia i birrai non parlino più della differenza tra birra commerciale o di qualità. Anzi, lo continuano a fare ma solo a livello didattico e in termini didascalici, evitando di farne un cavallo di battaglia per non “fare uno sgarbo” all’industria. Ripeto, è una mia sensazione e spero di sbagliarmi.
Da cosa dipende la differenza? Sicuramente dal fatto che i microbirrifici italiani sono più deboli (perché più piccoli) di quelli USA, nonché dalla mancanza di una vera associazione di categoria in Italia. E poi, forse soprattutto, perché noi siamo italiani e loro americani.
Sottoscrivo in pieno la prima parte della risposta.
Non dovrebbero avere un complesso di inferiorità e contemporaneamente esultare per le sempre maggiori potenzialità del settore craft italiano.
Questi due comportamenti cozzano tra loro, a mio parere.