Il cambio di identità visiva per un birrificio è un passaggio delicato e importante, figuriamoci quando accade a uno dei pionieri della rivoluzione craft americana. Recentemente lo storico birrificio Anchor ha infatti deciso di lanciarsi in un massiccio rebranding per celebrare il suo 125mo anniversario, modificando pesantemente le grafiche che lo avevano contraddistinto nel corso della sua fortunata “seconda vita”. Il marchio californiano fu infatti fondato nel lontano 1896, ma assunse un ruolo determinante solo a partire dal 1965, quando Fritz Maytag ne acquisì il controllo trasformandolo in un simbolo della rinascita della birra artigianale statunitense. Da allora l’azienda era rimasta pressoché fedele a sé stessa, mantenendo dal punto di vista estetico un filo conduttore ben preciso in quasi tutte le sue etichette. Questa costanza aveva aumentato nel tempo la brand awareness di Anchor tra i consumatori, contribuendo ad alimentare quell’aura di leggenda – o quantomeno di rispetto reverenziale – nei confronti delle sue birre. Una dote immensa, che ora rischia di andare perduta a causa del recente restyling.
Se avete presente le vecchie etichette di Anchor, non potrete non restare di stucco di fronte al nuovo look sviluppato dal birrificio. Il produttore californiano ha evidentemente deciso di compiere una svolta radicale da un punto di vista estetico, virando su uno stile che va completamente in controtendenza con il passato. Probabilmente troppo. In operazioni del genere non è raro protendere verso scelte di rottura, ma occorre mantenere qualche legame con gli elementi precedenti. Altrimenti si corre il rischio di disorientare i consumatori, con gravi conseguenze in termini di riconoscibilità del marchio e di disaffezione da parte del mercato. E sembra che Anchor abbia proprio compiuto un errore del genere, come dimostra l’ondata di critiche ricevute dai clienti più affezionati. Il birrificio è stato investito dal classico shitstorm da social, che poi si è riverberato sulla stampa più o meno specializzata.
In effetti la nuova identità visiva di Anchor è sconvolgente e non certo con un’accezione positiva. Le bellissime etichette dal gusto vintage sono state abbandonate per un’impostazione minimalista e di immediato impatto visivo. Gran parte dello spazio è occupato dal nuovo logo, ideato recuperando e adattando ai tempi moderni una vecchia versione dell’ancora, segno distintivo dell’azienda. Nella parte restante delle etichette compare solamente il nome della birra: il risultato finale è un’illustrazione bicromatica decisamente anonima e impersonale. Una scelta non solo lontana dai disegni del passato, pieni di stupendi dettagli e font originali, ma che sembra uscita da quei siti gratuiti che ti permettono di creare un logo personalizzato in cinque minuti. L’impressione è che il nuovo design sia stato sviluppato per ottenere determinati risultati visivi, sacrificando però l’identità di Anchor e il suo legame con il passato.
È bene sottolineare che sulla carta la nuova identità visiva non nega la storia dell’azienda, anzi ricerca un legame con il passato. Ma lo fa in maniera banale, rivisitando appunto un vecchio logo e ricorrendo a font dal gusto vintage. Il problema è che lo stile finale è ormai ampiamente abusato: in assenza di elementi identitari, la resa risulta a dir poco scialba. Le nuove etichette di Anchor sembrano “fake vintage”: restituiscono una sensazione di finto e artificioso, soprattutto se confrontate con le vecchie che invece apparivano autenticamente old style. Ed è proprio questo che i consumatori rinfacciano al birrificio californiano, cioè di aver abbandonato il suo tratto iconico e molto personale a vantaggio di un’insignificante immagine stile Ikea. Il paragone è calzante e molto triste.
Nei giorni successivi al lancio della nuova identità visiva, Anchor ha voluto rilasciare alcune dichiarazioni a difesa della propria scelta. In particolare ha affermato che:
Dopo anni di lotte per invertire la rotta del consumo di birra, ci siamo trovati di fronte a una scelta molto impegnativa: prendere una decisione drastica per preservare le nostre ricette e la nostra eredità o permettere che Anchor venisse dimenticata. La nostra storia è alla base della nostra azienda, ma andrà persa se nessuno ci vede.
La sensazione però è che sia la stessa nuova grafica a rinnegare la storia dell’azienda, peraltro in una maniera incredibilmente evidente e pacchiana. Com’è stato possibile dunque arrivare a una situazione del genere? Forse per trovare una risposta bisogna tornare indietro all’estate del 2017, quando Anchor fu acquistata dal colosso giapponese Sapporo. È allora fin troppo facile trovare in questo evento la radice di un restyling che oggi sembra totalmente indifferente ai valori fondanti dell’azienda e alla sua storia più autentica. La spersonalizzazione del marchio non sarebbe altro che la conseguenza della vendita a una multinazionale distante dalle origini di Anchor e da ciò che ha rappresentato per tutti i bevitori di birra artigianale.
Ma a nostro parere c’è di più. Dietro la nuova scelta grafica c’è probabilmente la necessità di assecondare i nuovi mezzi di comunicazione, in particolare Instagram e tutti i social che puntano alle immagini. Immagini che stanno assumendo, ancor più che in passato, un ruolo dominante in termini di marketing. Le vecchie etichette di Anchor, seppur bellissime, erano forse poche adatte a certi strumenti: le illustrazioni piene di dettagli e molto diverse da prodotto a prodotto probabilmente risultavano poco “visibili” per il tipo di interazione promossa da Instagram e simili. Da questo punto di vista non c’è partita con la nuova identità visiva, ma il limite è proprio questo: per assecondare le nuove regole del mercato, si è cercato uno stile troppo funzionale e poco emozionante, con i risultati che tutti possiamo (non) apprezzare.
Nel pasticcio di Anchor probabilmente convivono i due fattori. Da una parte la perdita di identità conseguente a quella dell’indipendenza, con la multinazionale controllante poco sensibile ai valori più profondi dell’azienda. Dall’altra una ricerca spasmodica e strumentale di un look capace di risultare efficace sui social, ma che in realtà risulta controproducente perché nega l’identità del marchio. Sono entrambi fenomeni che in questo momento caratterizzano l’ambiente internazionale della birra artigianale e che rappresentano problemi non certo secondari.