Forse non tutti ricorderanno che a ottobre del 2020 fu pubblicato un nuovo documento sugli stili birrari del mondo, sulla falsariga delle Style Guidelines del BJCP e della Brewers Association. L’autore fu l’EBCU, ossia l’Unione Europea dei Consumatori di Birra: un soggetto che racchiude diverse associazioni nazionali, comprese le italiane Unionbirrai – che in realtà non rappresenta propriamente i consumatori – e MoBI. Come analizzammo all’epoca, la pubblicazione dell’EBCU presentava luci e ombre, ma quest’ultime erano giustificate dal fatto di essere un lavoro ancora “in progress”. A distanza di tre anni dalla prima release, oggi è stata annunciata la versione aggiornata di The Beer Styles of Europe and beyond, un sito che “vuole diventare una risorsa imprescindibile per fornire nozioni dettagliate sul crescente assortimento di stili birrari disponibili in Europa e nel resto del mondo”. Sarà riuscita questa edizione a superare i limiti della precedente? Siamo al cospetto di un nuovo punto di riferimento per la cultura birraria internazionale? Scopriamolo insieme.
Prima di addentrarci nei dettagli delle linee guida dell’EBCU, è d’obbligo una premessa. Come tutti i documenti del genere anche questo nasce con un obiettivo e soprattutto con un target a cui è indirizzato. Ad esempio ricordiamo sempre che le Style Guidelines del BJCP, considerate solitamente la Bibbia degli stili birrari, in realtà sono indicazioni per i concorsi birrari e per i relativi giudici, non uno strumento di divulgazione birraria – poi che la loro completezza le renda adatte anche a questo scopo è un altro discorso. Così The Beer Styles of Europe and beyond dell’EBCU si rivolge primariamente ai consumatori di birra, compresi quelli che di cultura birraria sanno poco e niente. È una premessa importante perché ci permette di capire la ratio di alcune scelte, anche quando a prima vista possono sembra incomprensibili o non particolarmente chiare.
Approfittiamone anche per chiarire un aspetto: l’edizione 2023 delle linee guida dell’EBCU non attua un taglio netto con il passato, mantenendo anzi l’impostazione precedente. Rimarrà deluso ad esempio chi si aspettava una drastica ridefinizione dei criteri di suddivisione degli stili. Vedremo come un simile approccio, definibile conservativo, purtroppo non abbia permesso di superare alcuni limiti della prima release. Rispetto all’analisi fatta all’epoca, che si concentrò principalmente sulla suddivisione delle categorie, oggi focalizzeremo l’attenzione anche su altri aspetti della pubblicazione.
La suddivisione degli stili
La versione 2023 del documento dell’EBCU riprende la logica di suddivisione degli stili del passato, ampliandola leggermente. Tutte le tipologie brassicole sono quindi distribuite in sei macro-categorie (prima erano cinque): Industrial lagers, Authentic lagers, Ales, Specific style clusters, Regional specialities e le nuove Flavoured beers. La prima è dedicata alle basse fermentazioni industriali ed è anche la meno interessante per ovvie ragioni. In Authentic lagers rientrano tutte le Lager tradizionali di Germania, Austria e Repubblica Ceca, con queste ultime che ancora una volta mantengono (per fortuna!) la loro nomenclatura originale (SvÄ›tlý, Polotmavý, Tmavý). Come in passato la categoria più ampia è quella della Ales, che ha perso la denominazione pomposa del passato (The World of Ale), ma non la sua suddivisione per facilità di bevuta. In questo gruppo troviamo quindi molti stili diversi ad alta fermentazione, divisi in Session-strenght, Sampling-strenght e Sipping-strenght. Ognuna di queste sottotipologie presenta poi i singoli stili raggruppati per regione di appartenenza: belgi e anglo-americani in primis, ma anche francesi, tedeschi (Kölsch e Altbier), scozzesi (sempre con il riferimento, storicamente errato, agli scellini) e irlandesi. La successiva macro-categoria Specific style clusters esiste perché:
Determinate tipologie di birra sono così differenti da quelle più comuni, e così conosciute, che meritano una considerazione a parte piuttosto che essere considerate semplicemente un tipo di Ale o Lager.
Un’affermazione che non convince pienamente, ma che permette all’EBCU di inserire in questo gruppo le Stout e le Porter (con tutte le varianti del caso), le birre di frumento (Weizen e loro derivate, ma anche Berliner Weisse, Gose, Lichtenhainer, Blanche, Grisette, Grodziskie, American Wheat e Wheat Wine), il Lambic, le birre con altri grani o amidacei, le fermentazioni miste e le altre birre acide, wild e alla frutta.
Ci sono poi le specialità regionali, con sottogruppi incentrati su Belgio, Finlandia, Germania, Italia, Polonia, Mar Baltico e resto del mondo. Torneremo sul capitolo dedicato al nostro paese più avanti. L’ultima e inedita categoria è quella delle Flavoured beers, composta da generiche birre speziate, birre con caffè e cioccolato e birre affinate in botte. Infine c’è una sorta di indice analitico con la lista di tutti gli stili, ordinati secondo un criterio alfabetico.
I criteri di suddivisione
Come forse avrete capito, The Beer Styles of Europe and beyond è molto confusionario in termini di suddivisione delle tipologie brassicole. La loro distribuzione segue contemporaneamente criteri produttivi (alta e bassa fermentazione), criteri regionali, criteri basati sugli ingredienti, criteri residuali, ecc. Ciò che ne consegue è un potpourri nel quale non solo è difficile orientarsi, ma a volte persino impossibile. Le scelte infatti sono spesso opinabili: perché le alte fermentazioni della Renania sono nella categoria delle Ales e non negli stili regionali della Germania? Perché è stato deciso di inserire le Saison nella famiglia delle fermentazioni miste? Perché tra le Flavoured beer ci sono le birre affinate in botte e poi troviamo anche una sottocategoria Oak-aged ales nella famiglia delle Mixed fermented beers? L’idea poi di utilizzare il criterio di bevibilità per le Ales – pensato per guidare i consumatori nella lettura – non trova applicazione nelle altre macro-categorie.
Questo era uno dei limiti più pesanti della prima edizione di The Beer Styles of Europe and beyond e purtroppo non è stata corretto. Si avverte l’assenza di un criterio logico comune con una sensazione di parcellizzazione degli stili che è amplificata dall’inserimento di una nuova macro-categoria (Flavoured Beers). Rispetto al passato ci sono alcune valide correzioni, come lo scorporamento del Lambic in una sottocategoria a parte – prima erano inserite nelle fermentazioni miste – ma questi interventi hanno un impatto minimo e non correggono il problema principale di organizzazione dei contenuti. In tal senso le Style Guidelines del BJCP sono lontane anni luce, considerando anche che nell’appendice propongono suddivisioni alternative in base a diversi criteri.
Le informazioni fornite
The Beer Styles of Europe and beyond è un lavoro significativo e dettagliato, ma non raggiunge neanche lontanamente il livello di approfondimento del BJCP (o anche della Brewers Association). Ogni stile è infatti presentato esclusivamente tramite un paragrafo di qualche riga, privo di informazioni tecniche o statistiche. Dimenticatevi non solo le lunghe descrizioni del BJCP con suddivisione in analisi organolettica, storia, ingredienti tipici e stili comparativi, ma anche gli specchietti con il range di colore, amaro, tenore alcolico, densità iniziale e finale, ecc. Per capirci, provate a confrontare la categoria English IPA del BJCP con quella dell’EBCU, che riportiamo di seguito integralmente:
Gli elementi essenziali delle IPA originali (5,5-7,2%) erano malto Pale, luppoli inglesi e lievito britannico molto attenuante. Questi ingredienti insieme fornirono a carattere pieno e rotondo e note erbacee provenienti dalla luppolatura. L’unico esempio tradizionale, la Worthington White Shield, è notoriamente una birra estemporanea e i birrai britannici in genere non furono in grado di capitalizzare il crescente interesse per le IPA dagli anni ’90 in poi. Anche oggi, quelli che lo fanno più abitualmente tentano di imitare le moderne IPA americane piuttosto che quelle tradizionali britanniche. Alcuni grandi birrifici britannici usano il termine IPA per descrivere una forma più leggera di Pale Ale, creata all’inizio del XX secolo. Ironia della sorte, questa forse è riuscita a sopravvivere al XX secolo molto meglio della sua parente più antica e autentica.
Tutto qui, senza alcun riferimento (a parte quale timido accenno) alla storia, alle caratteristiche organolettiche e agli ingredienti tipici di uno degli stili più importanti di sempre.
Di contro è apprezzabile il tentativo di tutelare lo spirito di molti stili birrari, mantenendo il nome originale (come nel caso delle tipologie ceche) e l’autentica appartenenza regionale delle tipologie brassicole, al di là delle tendenze del mercato. Inoltre l’EBCU spiega espressamente che le sue linee guida sono redatte cercando di mantenere una certa compatibilità con quelle del BJCP e della Brewers Association. Infine c’è una certa attenzione alle più recenti evoluzioni del settore, ma dopo tre anni senza aggiornamenti anche le linee guida dell’EBCU rischiano di rivelarsi presto obsolete.
La presenza dell’Italia
L’Italia è citata in The Beer Styles of Europe and beyond nel capitolo dedicato al nostro paese della macro-categoria Regional specialities. Qui troviamo tre stili di origine italiana: Italian Grape Ale, Birre alle castagne e Italian barley wine. La presenza delle Italian Grape Ale era quasi scontata, ma fa sempre piacere trovare conferma alle proprie aspettative. La descrizione è prevedibilmente molto vaga, mentre perdura la discutibile suddivisione in Red, White e Sour.
Resistono poi le birre alle castagne, una sottocategoria che appariva anacronistica tre anni fa, figuriamoci oggi. Curiosamente la descrizione fa riferimento all’impiego di farina di castagne, mentre sappiamo che questa è solo una delle tante forme in cui il frutto può essere usato nel processo produttivo. La terza sottocategoria è quella degli Italian barley wine, sebbene il plurale in questo caso non sia propriamente corretto. Scrive infatti l’EBCU:
Può una singola birra costituire uno stile? Se sì, allora la Xyauyù e le sue varianti, prodotte dal birrificio Baladin, rappresentano uno stile.
In altre parole l’EBCU ha stabilito un intero stile solo per la Xyauyù. Che è una birra eccezionale, rivoluzionaria e commovente, ma da qui a prevedere una categoria solo per lei ce ne passa. Anche perché la creazione di Baladin è un unicum senza precedenti (né susseguenti) e dunque sarebbe svilente cercare di ingabbiarla in paletti ben precisi.
Infine segnaliamo che nel paragrafo intitolato Emerging blond lagers del gruppo Blond lagers sono citate le Italian Pils. L’EBCU spiega che a partire dal 1996, quando il Birrificio Italiano cominciò a produrre la sua prima Blond Lager con dry hopping (la Tipopils), diversi birrifici in Italia hanno realizzato variazioni impiegando luppolo fresco, sperimentale e in alcuni casi coltivato espressamente per un particolare “terroir”. Una descrizione che sembra abbastanza superficiale.
Conclusioni
Dopo tre anni il documento dell’EBCU mostra gli stessi limiti del passato: organizzazione poco chiara dei contenuti e basso livello di approfondimento per ogni stile. Se questi problemi erano giustificabili tre anni fa, quando le linee guida uscirono in una forma ancora embrionale, oggi invece rappresentano una grave tara. La prima release poteva essere un valido punto di partenza per reimpostare il lavoro successivo, invece l’edizione 2023 di The Beer Styles of Europe and beyond è un aggiornamento quantitativo e non qualitativo, che eredita i problemi del passato senza provare a risolverli davvero. Alcuni aggiustamenti sono molto apprezzabili, ma è chiaro che il lavoro da fare era nell’impostazione generale della pubblicazione, non nei dettagli. Al momento il sito è un’interessante finestra sulla ricchezza della cultura brassicola internazionale, ma sulla cui utilità è comprensibile nutrire dei dubbi.