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Caratteristiche e possibili evoluzioni della birra artigianale (e agricola) in Italia

L’ascesa della birra artigianale in Italia si misura non solo con il numero di nuovi birrifici che aprono ogni settimana, ma anche tramite altri indicatori. Tra questi uno molto curioso riguarda il moltiplicarsi di tesi di laurea incentrate sul nostro ambiente, che ci fanno ben sperare sull’evoluzione della prossima generazione di consumatori e professionisti del settore. Non vi nascondo che non di rado vengo contattato da giovani laureandi in cerca di informazioni, diventando talvolta per loro una sorta di tutor 😉 . Tra di essi nel 2014 mi contattò Matteo Fastigi, all’epoca all’ultimo anno del Dottorato presso la Facoltà di Economia di Ancona. Il suo obiettivo era portare avanti una ricerca sul settore della birra artigianale in Italia, che ora ha finalmente visto la luce come articolo pubblicato sulla rivista economica Argomenti. La ricerca è molto interessante e permette di conoscere più a fondo il mondo italiano dei microbirrifici.

Per onore di cronaca il lavoro (consultabile qui) non è solo a firma di Matteo Fastigi, ma anche di Roberto Esposti ed Elena Viganò. L’indagine si è svolta nel corso del 2014 somministrando un questionario a circa 600 produttori artigianali italiani, con un tasso di risposta superiore al 50% (325 elaborazioni). È un dato di eccezionale valore per il nostro settore, che dimostra un’attenzione impensabile in partenza, segno che finalmente l’ambiente sta maturando da questo punto di vista. L’obiettivo della ricerca è di individuare le caratteristiche del settore della birra artigianale italiana e di capirne le possibili evoluzioni, confrontando i dati con la fattispecie dei birrifici agricoli.

Un primo dato molto interessante riguarda il profilo professionale degli imprenditori brassicoli in Italia. Il 77,4% di loro infatti afferma di essere (stato) un homebrewer, confermando la tesi secondo la quale la stragrande maggioranza dei nostri birrai evidenzia una formazione da autodidatti tra le mura domestiche. Solo il 22,6% dichiara la sua estraneità alla pratica dell’homebrewing, spiegabile probabilmente con un accesso alla professione solo dopo un percorso didattico specifico. Non meraviglia quindi che i dati relativi alle precedenti esperienze lavorative nel settore del beverage (alcolico) siano praticamente complementari: solo il 23,7% degli intervistati dichiara di aver operato nel mercato prima di entrare nel mondo della birra.

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La passione è la motivazione principale per l’apertura di un birrificio (43,5%) e precede di gran lunga altre considerazioni legate alla ricerca della qualità (20,2%), al desiderio di sperimentazione (18,9%) e ad altre cause (17,5%). Qui si nota una decisa distinzione nei confronti della realtà dei birrifici agricoli, poiché per questi ultimi la passione scende al 32,1%, ma soprattutto entra in gioco una risposta mai data dai birrifici “normali”: la diversificazione della produzione, fondamentale per un intervistato su quattro (25%).

Cosa significano questi primi risultati? Che fondamentalmente birrificio artigianale e birrificio agricolo sono due realtà piuttosto diverse. In particolare i secondi nascono all’interno di aziende già costituite, che operano nel settore agroalimentare e che vedono nella produzione della birra la possibilità di diversificare la propria offerta sul mercato. Se vogliamo sono progetti di più ampio respiro e meno passionali, come confermato dai dati relativi alle prime due domande: la quota degli homebrewer tra i birrifici agricoli scende al 55,2%, mentre sale quella di coloro che hanno già avuto esperienze lavorative tra birra, vino e distillati (34,5%).

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Anche analizzando le caratteristiche economiche delle due fattispecie si notano interessanti divergenze. La prima riguarda le classi di fatturato, elaborata considerando quattro scaglioni (meno di 50.000 €, tra i 50 e i 100.000 €, tra i 100 e i 250.000 € e sopra i 250.000 €. I birrifici agricoli si distribuiscono in maniera abbastanza omogenea tra questi vari step, ma la stessa cosa non succede con i microbirrifici. Nel loro caso quasi la metà (42,7%) ha un fatturato molto contenuto (< 50.000), confermando ancora una volta come queste realtà spesso partano “da zero”. Per i fatturati superiori ai 250.000 € si nota come i birrifici agricoli superino di 10 punti percentuale i microbirrifici (31,8% vs 21,3%): quasi un agricolo su tre rientra nello scaglione più alto di fatturato.

Di conseguenza anche la produzione media di birra è assai diversa (i dati sono calcolati sul 2013). Per i birrifici “normali” si attesta a 564,6 hl annui, praticamente la metà di quella dei birrifici agricoli (1.357 hl).

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La ricerca non ha solo rilevato i numeri del settore, ma anche chiesto agli intervistati di esprimere la loro opinione su vari temi. Uno dei più sentiti nell’ambiente è quello sui prezzi e una domanda era espressamente rivolta a questo argomento: è stato chiesta quale fosse l’aspettativa sul prezzo delle birre artigianali per il futuro. Mentre i microbirrifici hanno mostrato una certa omogeneità tra le risposte (in aumento, stabile, in diminuzione), tra gli agricoli si nota una certa convinzione sul futuro abbassamento dei prezzi (67,9%). Sinceramente non so spiegarmi questa differenza, voi avete qualche idea?

Tra i birrifici agricoli non c’è totale accordo sui vantaggi relativi al proprio status. Secondo il 62% questa condizione porta vantaggi economici, ma il restante 38% ha un’idea completamente opposta. Da notare che per un microbirrificio “normale” su tre essere agricolo può compromettere la qualità della birra.

Come chiusura a questo post cito alcune delle conclusioni espresse dal lavoro in questione, che mi sembrano davvero lucidi e meritevoli di attenzione:

Il dato forse più intrigante, in questo senso, è l’apparente paradosso alla base del successo dei microbirrifici in Italia: un consumatore alla riscoperta delle produzioni e delle tradizioni locali che incontra un’offerta di birra sostanzialmente priva di storia e tradizioni ma ricca di competenze, creatività
e passione. […]

Da un’origine quasi hobbistica, basata sull’autoconsumo e l’home making, il comparto diventa un vero e proprio business e la sua crescente natura imprenditoriale prende anche la strada dell’impresa agricola e delle sue strategie di diversificazione. […]

Accanto a questi indiscussi vantaggi, la declinazione “agricola” della craft beer revolution italiana presenta anche evidenti limiti per lo sviluppo del comparto che meritano, a loro volta, uno specifico sforzo di analisi. A questo proposito, il presente lavoro ha voluto fornire un primo contributo per individuare i principali nodi (tra i quali, ad esempio, la relazione tra approvvigionamento delle materie prime e qualità del prodotto e le implicazioni economiche della creazione di una filiera regionale/nazionale) che ricerche future dovranno approfondire e ampliare.

A voi eventuali commenti.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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8 Commenti

  1. Articolo interessante, grazie.
    Ultimamente in effetti sento di diversa gente che si butta sulla produzione artigianale di birra, e non solo come passatempo.. però non so che tipo di ritorno economico abbiano, spero che col tempo queste birre alternative vengano valorizzate.
    Ho visto anche che adesso addirittura puoi produrti la birra in casa con una macchina, ma se ci improvvisiamo tutti birraioli non si rischia di danneggiare i produttori stessi e le feste della birra?

  2. Riguardo la maggior distribuzione dei birrifici agricoli nelle diverse classi di fatturato, credo ciò dipenda anche dalla conversione di birrifici consolidati che hanno deciso di strutturarsi come azienda agricola. Un esempio su tutti Baladin.

  3. Esatto Gianluca, è così.
    Inoltre, per quanto riguarda la convinzione dei birrifici agricoli circa un futuro abbassamento dei prezzi della birra artigianale, credo che ciò dipenda dal fatto che essi sono (in media) più strutturati e di maggiori dimensioni rispetto ai birrifici ‘normali’.
    Essendo mediamente di maggiori dimensioni, quindi, è quasi logico che pensino di abbassare il prezzo delle loro birre (dato che se lo possono permettere) e magari mangiare quote di mercato agli altri.
    Ma è una mia idea, nessuno hai mai risposto così nel questionario

  4. Mi sembra tanto forzata questa distinzione dei birrifici agricoli. Insomma io non credo che birrifici come Baladin possano produrre effettivamente il cinquantun percento delle materie prime che usano. E io nel settore agricolo ci vivo…senza contare le necessità al crescere dell’azienda di rendere sempre più standard la qualità del prodotto.

  5. Gian Luca, qualunque birrificio agricolo deve produrre almeno il 51% delle proprie materie prime per legge, dire che si dubita che producano almeno il 51% è come dire che sono fuorilegge (non è una critica al tuo post, voglio semplicemente affermare che se sono agricoli devono per forza sottostare a questa regola). Come si può leggere dal suo sito, Baladin coltiva (o fa coltivare a terzi) i propri cereali, che poi userà per la sua produzione, in Basilicata (www.baladin.it/it/birrificio/il-birrificio)

  6. Penso che si debba distinguere chi affitta terreni in Basilicata per far produrre orzo distico e terreni in Friuli per la produzione di luppolo e poi brassa in Piemonte.
    Ed altre piccole realtà agricole che seguono direttamente tutta la filiera.

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