Inghilterra, punk rock, gli albori del panorama birrario italiano, gluten free, passando per territorio e soprattutto, tante, tantissime birre di qualità. Queste alcune delle tematiche toccate nella chiacchierata a 360° con Vittorio “Vicky” Ferraris di Birrificio Sant’Andrea. BSA, con sede a Vercelli, da anni si distingue per birre che mediano tra lo stile anglosassone e la nuova generazione dei luppoli, dando vita a prodotti di estrema qualità. Un consiglio prima di iniziare la lettura? Stapparvi una Fog e mettere su un bel disco dei Ramones!
Ciao Vittorio, partiamo dall’inizio con il racconto del tuo percorso nel mondo della birra. Cosa ti ha portato ad aprire BSA nel 2010?
Beh, come tu sai già noi siamo piuttosto vecchiotti (ride, ndr). Piuttosto vecchiotti rispetto all’età media di chi apre oggi un birrificio. Quello che ci ha spinto ad aprire BSA non è altro che la voglia di cimentarci in un mondo di cui facevamo parte già dalla metà degli anni ’80. All’epoca eravamo un gruppo di appassionati di birre di un certo tipo: prodotti che andavamo a cercare da tutte le parti, chiaramente all’estero, soprattutto nel mercato belga e inglese. E’ stato un modo di avvicinare la birra che per noi era assolutamente particolare, aiutati da un sommelier che ci diede una spinta a ricercare sempre nuovi prodotti. Il problema è che in Italia questi prodotti non esistevano, dunque abbiamo iniziato a farcela noi la birra, dapprima con i kit e poi cercando progressivamente di crescere.
Il vostro avvicinamento alle birre di matrice inglese era dovuto esclusivamente alla vostra passione brassicola?
Un punto sicuramente interessante è legato al fatto che noi siamo sempre stati attratti dal mondo anglosassone, poiché tutti suonavamo in gruppi o comunque eravamo appassionati di punk-rock. Questo ci ha permesso di maturare una grande esperienza nel campo delle birre inglesi e scozzesi. Volevamo vivere quel mondo, quello del punk-rock anglosassone, e dunque ci siamo spinti e avvicinati al modo di vedere la birra più tipico dei britannici.
Dunque già prima del ’96, anno zero della movimento in Italia, vi siete approcciati alle birre di qualità. Come avete vissuto l’arrivo di Birrificio Italiano, Baladin e Lambrate?
Il loro arrivo è stata una roba dell’altro mondo. Bisogna tenere in conto che la mia passione per le birre inglesi è ben precedente alla nascita del mondo della birra artigianale italiana. Avevamo quindi un problema enorme. Quello del reperimento di queste birre. Lambrate, Baladin e Birrificio Italiano hanno risolto in parte questa problematica.
Ricordo ancora le prime bevute al Lambrate con le birre fatte grazie ad un impiantino da 50 litri situato dietro al bancone. Era una roba fuori dalla grazia di dio per noi. Dove potevi trovare birre di quel tipo in Italia? All’epoca non c’era la possibilità di reperire birre come potevano essere quelle di Lambrate o di Birrificio Italiano, o ancora di Baladin. I pub che nascevano erano tutti in stile irish o tedesco, ma con all’interno prodotti commerciali. Eravamo felici che nascessero pub, perché prima la birra in Italia la servivano solo pizzerie o bar sgangherati, con la spina ossidata di brutto.
Non ti sei spinto, tuttavia, a produrre sin da subito. Hai aspettato più di un decennio dal fatidico 1996.
Esatto. Possedevamo una grande cultura birraria per l’epoca, ma eravamo piuttosto scarsi in termini di produzione. Abbiamo visto crescere i grandi birrifici italiani nel ruolo di fruitori (ride, ndr). Ci siamo fatti parecchie bevute e abbiamo accumulato una grande esperienza come homebrewers, prima di dirci nel 2009 “dai, partiamo anche noi”.
Non che nel 2009 il panorama fosse estremamente diverso rispetto ai primi anni del 2000. Si può dire, forzando, che dal 1996 al 2009 vi siano state meno evoluzioni che dal 2009 al 2016?
Attorno al 2009 possiamo dire che la birra artigianale italiana era ancora piuttosto “tradizionale”. Perché intendo tradizionale? Diciamo era legata ad un modo di intenderla che definirei “celtico”, che considerava la birra una serie di prodotti provenienti da quel tipo di tradizione. L’ambiente era un po’ una nicchia, fatto di intenditori che avevano voglia di condividere una passione insieme, rimanendo in una cerchia tuttavia piuttosto ristretta. Non erano in molti quelli che consideravano la birra artigianale un prodotto potenzialmente popolare.
Questo, invece, è stato sin da subito il nostro obiettivo. Il nostro slogan “Birra al Popolo” significa proprio questo. Uno slogan che ha raccolto il nostro spirito di voler portare a tutti la birra artigianale in quanto “prodotto buono”. Cosa che poi è realmente accaduta. Se pensiamo che dal 1995-96 al 2009 sono nati 300 birrifici, mentre dal 2010 ad oggi ben 700, possiamo capire come la rivoluzione abbia avuto decisamente successo.
Quando siamo nati, nel 2009, con birrifici come Brewfist ed Elav, l’idea era quella di spingere sulla tradizione anglosassone e puntare sul concetto forte di “birra a tutti”. A livello di birrificazione la fonte d’ispirazione si è spostata chiaramente verso gli Stati Uniti, mentre sull’idea di “birra a tutti” abbiamo centrato l’obiettivo.
Qual è stata la vostra ricetta per rendere la birra artigianale un prodotto più accessibile?
Un esempio su tutti: noi abbiamo da subito prodotto in bottiglie da 33 cl. Nel 2009 non era così scontato. Tantissimi ancora producevano solo le 75 cl, cosa che impediva a un fruitore giovane di avvicinarsi al prodotto, spaventato dal costo, ma anche dagli stili, tendenzialmente complessi.
Cerchia ristretta, birre complesse e un po’ fuori dalle corde dei potenziali consumatori. C’era ancora difficoltà ad avvicinarsi a questa élite per via di costo, competenze, scarsità di locali. Noi, insieme a tutta un’altra serie di birrai, publican e commercianti, abbiamo provato a colmare questo gap. Birra al popolo, dunque. Più accessibile, più bevibile, più comprensibile.
Un’altra caratteristica del vostro birrificio è legata al mondo della musica. Lo stesso che vi ha permesso di viverlo a metà degli anni ’80. Le vostre etichette lo testimoniano.
Il legame musica-birra è stato lo stimolo che ci siamo portati dietro fino al giorno in cui abbiamo deciso di aprire il birrificio, quasi 20 anni dopo. Per caratterizzare le nostre birre le tematiche principali sono state quelle del territorio, della musica e della birra popolare.
Le nostre prime due birre la Leone (Pils, 5.3%) e la Rossa del Gallo (Strong Bitter, 6.9%), sono celebrative del nostro territorio. La prima è legata alla nostra storica squadra la Pro Vercelli, e la seconda è l’emblema della Cattedrale di Sant’Andrea. Così come la Fog (Witbier, 4.4%) , dedicata alla nostra nebbia. Identificarsi e farsi identificare con una determinata zona geografica è importante come tendenza, benché sia accompagnata dalla voglia di esportare il prodotto anche fuori da quei confini.
La Hey Ho! To Go! (India Pale Ale, 6.2%) ha questo nome perché abbiamo contribuito alla creazione di alcuni pozzi d’acqua in Togo, ma già ricorda “Hey Ho! Let’s Go” dei Ramones. Da quel momento abbiamo iniziato a identificarci nel nostro filone musicale: la Riot (Belgian Strong Ale, 8.1%) rimanda ai Clash, Funky (Porter, 6.6%) all’omonimo genere, la Blitz (Double Grab APA, 7.7%) ancora ai Ramones e la Wot (Black IPA, 5.7%) a Capitan Sensible. La Mozkito (Golden Ale 4%) invece no, è ancora un riferimento al territorio e alle nostre mosche (a ridere questa volto sono io, ndr).
Il vostro legame con la musica è sempre stato compreso?
Ricordo una delle critiche che ci hanno fatto quando siamo nati. Ci tacciavano di non dare mai troppe descrizioni della birra se non per le caratteristiche essenziali. Com’è fatta, come va bevuta, con quali piatti va abbinata, addirittura come andasse interpretata. Noi chiaramente per provocare abbiamo messo, accanto alla descrizione, i gruppi musicali da ascoltare per degustare le nostre birre.
Gli altri due punti: territorio e birra al popolo. Quanto sono importanti per voi?
Fondamentali. La nostra cattedrale è il nostro emblema e l’abbiamo ripresa, anche con la croce, presente in ogni nostra etichetta. Poi non dico che Sant’Andrea sia un simbolo birrario ma quasi, e ad ogni modo per noi era fondamentale identificarci con un emblema di questo tipo.
Lo stesso vale per “birra al popolo”. Il nostro obiettivo è stato da subito battagliare affinché la birra di qualità arrivasse a tutti. Un discorso che comunque possiamo definire in parte anche economico, nel senso che abbassando i costi di confezionamento e facendo le 33 cl, abbiamo dato la possibilità a tutti, soprattutto ai più giovani, di potersi confrontare con la craft beer. Scelta voluta e percorsa con determinazione.
Parlaci del vostro prodotto più recente, la SorRiso.
Quello della SorRiso è un progetto che dura circa due anni . L’abbiamo voluto inizialmente per un discorso territoriale, siamo a Vercelli una delle città che produce maggior quantità di riso in Europa. Abbiamo fatto due esperimenti prima, la Hell Rice, un Barley Wine con il 20% di riso, e la Crock, una “bitterina” con un po’ di riso.
Parallelamente abbiamo cercato di fare qualcosa che fosse solo esclusivamente riso. Prima per un discorso di gluten free, che non ci dispiaceva affatto – soprattutto perché così non avremmo dovuto estrarre la proteina dall’orzo, evitando di intaccarne le caratteristiche organolettiche. Non sapendo fare altro che birra, abbiamo preso il riso e lo abbiamo inserito direttamente nel processo produttivo, esattamente come facciamo con l’orzo. Abbiamo visto che c’erano dei problemi per l’estrazione degli zuccheri, dunque ci siamo fatti aiutare da alcuni tecnici per trattare la materia prima a monte, non lavorando solamente sul processo di ammostamento per estrarre gli zuccheri. Facciamo l’ammostamento, facciamo la bollitura con luppolatura e infine lasciamo fermentare con lieviti da birra. E’ uscita una bevanda fermentata al riso, così come è stata definita dall’Agenzia delle Dogane, che risulta molto simpatica. Una prodotto simile al Prosecco, sia come aspetto che per un certo senso per caratteristiche organolettiche.
Il luppolo che abbiamo usato è moderno: i sentori ricercati sono molto agrumati anche per contrastare leggermente i sapori del riso, che non sono sempre estremamente piacevoli durante la fermentazione. Dopo qualche test abbiamo deciso di mettere in commercio un prodotto che può ancora crescere con ulteriori studi.
Nel nostro territorio ha avuto un impatto notevole, come ogni cosa che è legata al riso. Ma sono arrivati anche apprezzamenti da fuori, che ci hanno fatto molto piacere. L’unico problema purtroppo è che non possiamo chiamarla birra, perché se la ricetta non prevede almeno il 60% di malto d’orzo per legge non puoi usare quella denominazione.
In ogni caso non è una birra, è una cosa molto particolare, fresca, che tra l’altro si presta benissimo nell’utilizzo dei cocktail, con dei contributi addirittura diversi, per via del sapore fruttato e dei luppoli, e la presenza di esteri. Non l’ho ancora provata alla spina, ma qualora l’esperimento andasse a buon fine, si potrebbe senza dubbio cercare di far partire un prodotto complementare al mondo della birra come sono i sidri in Inghilterra. La cosa sarebbe molto intrigante.
Quali sono i birrifici italiani che preferisci? Hai da poco rinnovato il tuo pub in Vercelli, portandolo da sei a quattordici vie; quali sono i birrifici che hai più piacere a lavorare nel panorama birraio nostrano?
Io sono molto legato ai birrifici con i quali ho iniziato a bere in Italia: Birrificio Italiano e Lambrate. Oltre a essere tra i migliori birrai nonché un esempio per molti, Agostino Arioli è ancora un punto di riferimento per chi voglia intraprendere questo mestiere. Il Birrificio Italiano è situato non lontano da Vercelli, dunque il contatto è sempre stato frequente nel corso dell’ultimo ventennio.
Poi il Lambrate, che mi è anche affine di spirito. La loro ironia, le loro provocazioni, aggiungono alle loro birre un ulteriore carattere. Birrificio Italiano e Lambrate sono senza dubbio i due birrifici che lavoro maggiormente tra quelli ospiti, sebbene poi nel pub attacchi tutto quello che sono riuscito ad apprezzare in giro per l’Italia. Ad esempio lavoro con Birranova, che ritengo faccia birre di altissimo livello, e Canediguerra, che si misura benissimo con stili non convenzionali.
Dopodiché si passa all’estero. Apprezzo molto le birre scandinave, le sour del Belgio, ho sperimentato cose spagnole, Naparbier ad esempio. Per non parlare delle produzioni inglesi, chiaramente. Le migliori India Pale Ale sono ancora le loro! In generale come offerta ci diamo da fare parecchio.
Per concludere, quali saranno le novità di BSA per il 2016?
Stiamo mettendo a punto una Saison. Non ci eravamo mai cimentati nell’utilizzo di quei lieviti, che tra l’altro abbiamo utilizzato per la SorRiso; siamo molto curiosi di scoprire il risultato. Voglio cominciare a confrontarmi con le spezie, poiché seguendo noi la tradizione inglese non abbiamo una grande esperienza da quel punto di vista. Dunque sperimenteremo molto, essendo quello delle Saison uno degli stili più interessanti dell’intero panorama birrario. Probabilmente proveremo qualcosa con il peperoncino, che utilizzato cautamente, concentrandoci sugli aromi e non sulla piccantezza, che è l’aspetto meno appassionante del prodotto. L’obiettivo è di poter far assaggiare ai nostri consumatori queste nuove birre per la fine della primavera!
Ma al popolo quanto viene a costare esattamente una bottiglia da 33? Il prezzo è davvero più basso rispetto alla media, o parliamo di slogan buoni solo per il marketing?
Parlo a livello esperienziale: Sette, otto anni fa, quando ho iniziato a bere le birre artigianali mi trovavo ancora al liceo. La possibilità di spendere era quella che era. Le birre da 33cl mi hanno realmente dato l’occasione di avvicinarmi a questo mondo, poiché si aggiravano ad un prezzo di 4/5 euro, cifre che in media i birrifici italiani mantengono tutt’ora nella penisola.
Quando ti stai costruendo un tuo gusto, non è sempre facile “steccare” una 75cl con un amico, che magari vuole bere tutt’altro.
Personalmente, quindi, le 33cl sono state fondamentali. E Vicky di BSA si riferiva proprio a questo nella sua intervista.
Se Vicky la birra vuol farla arrivare al popolo deve farla pagare 3.5 o 4 euro al massimo. Se non ci riesce, eviti di tirar fuori la storiella della birra per tutti.
I prezzi che citi secondo me sono già troppo alti. Spesso si dimentica che con 3 euro si possono acquistare Orval, Westmalle,e Rochefort, e scendendo a 2,50 vengono via Duvel o Chimay. Non parliamo poi del misero 1,10€ per la Salvator di Paulaner o 1,50 € per la Weizen di Weihenstephaner. Ormai i miei benchmark per l’acquisto in Italia sono quelli e se qualche micro vuole che tiri fuori la Visa deve scendere a quei livelli (sia di qualità che di costo), altrimenti prodotti più particolari continuerò a procurarmeli con ordini on line all’estero. Anche perché è tutto da dimostrare che una Bitter italiana venduta anche a 15€ al litro sia più buona di una Bittter britannica che – spese di spedizione comprese – mi costa meno della metà…
Enrico, hai perfettamente ragione. Ma se provassi a dire a un birraio italiano che dovrebbe venderti una 33 a 3 euro, probabilmente ti metterebbe le mani addosso 🙂