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I 150 anni del birrificio Schneider, custode dello stile delle birre Weiss

Dubito che ne siate a conoscenza, ma lo scorso fine settimana si è tenuta a Kelheim, in Baviera, la festa per i 150 anni del birrificio Schneider. L’evento è cominciato venerdì con il cabaret di “Mamma Bavaria” e la musica dei Blechzipfl, è proseguito sabato con uno spettacolo per bambini e il concerto di LaBrassBanda e si è concluso domenica con la messa presso la parrocchia dell’Assunzione della Vergine Maria e una colazione a base di weisswurst. Un programma dal profilo non propriamente internazionale, penserete. E allora perché ne scriviamo oggi su Cronache di Birra? Il motivo è semplice: la ricorrenza non è che il pretesto per parlare di un birrificio che ha scritto la storia di uno degli stili birrari più diffusi al mondo, nonché dei più odiati – chissà poi perché – dagli appassionati di birra. Il nome Schneider è infatti strettamente legato all’evoluzione delle Weiss (o Weizen), le classiche birre di frumento della Baviera e del resto della Germania. Una tipologia che oggi troviamo dappertutto, ma che fino a qualche decennio fa era poco più di una sfortunata specialità locale.

Sebbene siano considerate un simbolo brassicolo della Baviera, presumibilmente le Weizen (o comunque le loro antenate) si diffusero in Boemia tra XII e il XIII secolo, per poi “sconfinare” verso sud-ovest. Si può immaginare che le birre di frumento fossero considerate quasi un prodotto quasi a sé stante, tanto da continuare a essere prodotte anche dopo la promulgazione del Reinheitsgebot: nonostante nel 1516 l’Editto della Purezza avesse vietato ai birrai il ricorso a cereali diversi dall’orzo, solo quattro anni più tardi il governo bavarese concesse, a fronte di una tassazione sull’attività, la licenza esclusiva ed ereditaria della produzione di Weizen alla famiglia nobile Degenberg. L’idea dei duchi della Baviera, i Wittelsbach, era di ottenere una rendita fissa dalla presenza sul mercato di quella specialità di grano.

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Il successo delle Weizen però faceva gola ai Wittelsbach ben oltre l’accordo raggiunto con i Degenberg. Così quando nel 1602 l’ultimo discendente di questi ultimi morì senza un erede diretto, per il duca Massimiliano I fu possibile reclamare il diritto esclusivo di produzione delle birre di grano. Le aspettative intorno a questa specialità erano tali che solo cinque anni dopo il duca di Baviera, già proprietario dell’Hofbräuhaus di Monaco, inaugurò in città un birrificio completamente dedicato alla produzione di Weizen, battezzandolo Weisses Bräuhaus. Mai investimento fu più sbagliato. Le previsioni di Massimiliano I furono totalmente smentite: invece di prendere definitivamente la via del successo, le birre di frumento iniziarono ad arrancare sul mercato, entrando presto in un periodo di crisi senza precedenti. Qualcosa infatti stava velocemente modificando il gusto dei consumatori.

Quel “qualcosa” erano le Lager, che si stavano diffondendo con una certa costanza in tutta la Baviera. Le caratteristiche delle birre a bassa fermentazione, limpide e “pulite” a livello aromatico, andavano in una direzione completamente diversa da quelle delle Weizen. La loro fetta di mercato si ridusse sempre di più, finché per i duchi della Baviera la loro produzione non fu più economicamente interessante. La naturale conseguenza fu la liberalizzazione delle licenze, che furono vendute ai birrifici interessanti a produrre birre di frumento. La mossa non risollevò le sorti della tipologia, che anzi continuò nel suo inesorabile declino tanto da portarla quasi all’oblio. Nel 1855 Ludwig II di Baviera decise di cedere in affitto la Weisses Bräuhaus al birraio Georg Schneider, che continuò a produrre Weizen. Qualche tempo dopo insieme al figlio Georg Schneider II acquistò il birrificio ottenendo, nel 1872, il cambio di nome in G. Schneider & Sohn.

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Nonostante fossero un prodotto di nicchia, le Weizen permisero alla famiglia Schneider di ampliare il loro business. Nel 1927 Georg IV aprì un nuovo impianto di produzione a Kelheim, che a differenza di quello di Monaco sopravvisse ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Nel dopoguerra le Weizen rappresentavano soltanto il 3% della produzione locale di birra, eppure a partire dagli anni ’60 avvenne qualcosa che ancora oggi non si riesce a spiegare del tutto: senza un vero motivo apparente, le birre di frumento cominciarono un’improvvisa scalata, rosicchiando fette di mercato a velocità impressionante. Uno stile quasi scomparso tornò di moda e cominciò prima a diffondersi in tutta la nazione, poi a essere replicato dai birrifici del resto del mondo. In questa fase di rinascita il ruolo del birrificio Schneider fu assolutamente fondamentale.

Schneider è riuscita negli anni a rimanere al passo coi tempi, tanto da apparire oggi un marchio molto più moderno rispetto a tanti birrifici familiari tedeschi. Nonostante le dimensioni importanti (oltre 100 dipendenti e una produzione annua che si aggira sui 300.000 hl) è un’azienda ancora del tutto indipendente, guidata dalla discendenza Schneider: dal 2000 il proprietario è Georg Schneider VI. Come avrete notato tutti i primogeniti della famiglia di chiamano Georg, quindi c’è sempre stato un Georg Schneider alla guida del birrificio. L’unica eccezione è stata rappresentata da Mathilda Schneider, alla redini dell’azienda tra il 1877 e il 1905.

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Fedele alla sua linea da sempre, il birrificio Schneider realizza solo birre di frumento ad alta fermentazione. Il prodotto di punta è la Tap 7, in passato chiamata Unser Original: sarebbe prodotta seguendo l’antica ricetta del 1872. Un altro prodotto iconico dell’azienda è l’Aventinus Eisbock, che appartiene alle particolarissime “birre del ghiaccio” tedesche: l’elevato tenore alcolico dipende dal processo produttivo che prevede il congelamento della birra. Abbastanza scalpore creò nel 2011 il lancio della Tap X con luppolo Nelson Sauvin: era la prima volta che la varietà neozelandese diventava protagonista di una Weizen, o quantomeno di una Weizen proveniente da un birrificio così grande e importante. Ma già qualche anno prima Schneider aveva strizzato l’occhiolino al mondo della craft beer, con l’annuncio della sua Hopfenweisse creata in collaborazione con la storica Brooklyn Brewery di New York.

Schneider forse è uno dei pochi birrifici, non solo in Germania, che ha scritto la storia di un famoso stile birrario e che, a distanza di decenni, è rimasto indipendente e coerente con le proprie tradizioni. Ma che nel frattempo è riuscito a rinnovarsi un minimo, impegnandosi per seguire le evoluzioni del mercato e sperimentare qualcosa di diverso. Non è un approccio scontato, tanto meno in un panorama così granitico come quello tradizionale tedesco. Auguri allora a Schneider per i suoi primi, fondamentali 150 anni.

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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3 Commenti

  1. I tedeschi, e i bavaresi forse in particolar modo, saranno forse anche “troppo” attaccati alle tradizioni e un po’ monotoni nei gusti, ma è proprio questo che ad oggi gli ha permesso di avere ancora una marea di birrifici storici a conduzione famigliare strettamente legati al paese/zona in cui producono, i quali sono ancora oggi indipendenti.
    Altrove, ad eccezione di quelli artigianali, sono praticamente tutti in mano alle solite multinazionali…e trovare ancora oggi birre “industriali” di tutto rispetto a soli 2 euro litro o anche meno (i tedeschi che ne bevono a litri di solito comprano le casse da 24 bottiglie nei getränkemarkt, pagandole anche solo 80-90 centesimi l’una), scusate se è poco. Anche perchè non di rado sono meglio di certe artigianali.
    Viva i tedeschi attaccati alle loro tradizioni 😀 e mi auguro che non cambino approccio per altri 150 anni.

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