Nell’articolo di ieri abbiamo sottolineato come le mode birrarie possano avere effetti positivi, permettendo ad esempio di riscoprire gusti o stili quasi dimenticati. L’altra faccia della medaglia è però rappresentata dalla diffusione ossessiva di alcuni temi, che finiscono talvolta per caratterizzare il settore al punto da mortificare ogni tentativo di proporre qualcosa di diverso. L’esempio più evidente è incarnato ancora una volta dalle moderne IPA: una tipologia che ha avuto il merito di trainare la rivoluzione internazionale della birra craft, ma che proprio a causa del suo successo tende a omogeneizzare un mercato che invece potrebbe essere molto più vario – basti pensare all’enorme ricchezza della cultura brassicola mondiale. Questo fenomeno non si evidenzia solo con i numeri, ma anche con la propensione delle IPA a cannibalizzare le nuove tendenze, che in realtà nascono da presupposti completamente diversi. Per spiegare meglio questo concetto analizziamo tre esempi relativamente recenti.
Kveik IPA
È da circa quattro o cinque anni che in Italia si parla di Kveik, un termine che indica il lievito tipico delle antiche birre delle fattorie norvegesi chiamate Maltøl. L’argomento ha improvvisamente conquistato la scena internazionale grazie alle proprietà del suo lievito “magico” – o meglio, di alcuni suoi ceppi – che permette di fermentare il mosto a temperature molto alte (anche sopra i 40° C), mantenendo un profilo aromatico intenso e pulito con note di agrumi, frutta secca e terroso. Inizialmente molti appassionati sono venuti a contatto con il Kveik grazie a birrifici norvegesi come Voss e Eik & Tid, che in gamma hanno produzioni che si ispirano alle tradizioni brassicole del loro paese. Poi però qualche birraio ha pensato di applicare le proprietà del lievito Kveik ad altre tipologie birrarie, in particolare – e come poteva essere altrimenti – alle American IPA. Oltre a sfruttare i vantaggi forniti in fase di produzione, l’idea è di arricchire il profilo aromatico tipico dei luppoli moderni con le sfumature conferite dal lievito.
Così in poco tempo sul mercato internazionale sono comparse diverse Kveik IPA, spesso declinate in chiave “hazy”. Questi esperimenti sono interessanti, ma secondo me non aggiungono molto al panorama delle birre luppolate, già ampiamente saturo. Di contro hanno finito per appiattire e banalizzare un tema strettamente legato alla storia di un’intera cultura brassicola, esattamente come succede quando una nuova corrente artistica, nata spontaneamente dal basso, viene assorbita dall’industria culturale mainstream. Anche volendo prescindere da produzioni di nicchia – le Maltøl tradizionali non sono facilissime da bere – il lievito potrebbe avere effetti interessanti su molte tipologie diverse, mentre alla fine si parla quasi esclusivamente di Kveik IPA.
Grape IPA
Le Italian Grape Ale rappresentano senza dubbio uno dei trend più importanti degli ultimi anni nel panorama nazionale. Sebbene già da qualche anno fossero presenti sul mercato prodotti a cavallo tra il mondo della birra e quello del vino, fu con l’inserimento della tipologia nelle Style Guidelines del BJCP che il fenomeno scoppiò in maniera evidente. Oggi in Italia si contano più di un centinaio di Italian Grape Ale, tutte molto diverse tra loro. Lo stile infatti è definito da confini molto labili in termini di colore, gradazione alcolica, caratteristiche organolettiche. La base può essere rappresentata da qualsiasi tipologia: la pionieristica BB10 è ad esempio una Imperial Stout, ma spesso il mosto si inserisce su intelaiature più leggere e realizzate senza malti speciali.
In tempi recenti proprio la possibilità di “italiangreppizzare” qualsiasi stile ha spinto molti birrifici ad aggiungere mosto su una base luppolata. Così prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo ha cominciato a diffondersi la variante delle Grape IPA, in cui le sfumature aromatiche del vitigno prescelto si fondono con i toni tipici dei luppoli di nuova generazione. È un trend interessante e in crescita, ma che rischia di sviluppare gli stessi effetti negativi delle Kveik IPA: banalizzare una tipologia che invece offre possibilità virtualmente infinite. Chiaramente il discorso prescinde dalla qualità dei singoli prodotti, che possono rivelarsi molto intriganti. Nelle ultime settimane in Italia abbiamo registrato il lancio di diverse Grape IPA: un indizio – o forse no – di una tendenza in crescita anche nel nostro paese.
Session IPA
Da ormai diversi anni le IPA hanno addirittura cannibalizzato il concetto di “session beer”, riuscendo a stravolgere i principi stessi che lo definiscono. Questa espressione è nata originariamente per indicare quelle birre che puoi bere “in sessione” perché mostrano caratteristiche tali da renderle un accompagnamento ideale ad altre attività, come passare la serata a chiacchierare al pub o leggere un libro. Perché una birra sia considerabile “sessionabile” deve non solo essere leggera in termini di tenore alcolico, ma deve anche essere equilibrata, economica e capace di mantenersi come un piacevole sottofondo mentre si è impegnati in altro (non ti deve distrarre, gustativamente parlando). Trovo che il concetto sia molto affascinante e che si sposi meravigliosamente con molti stili “quotidiani”, come le Bitter inglesi.
L’espressione avrebbe molto da insegnare a tanti bevitori, ma purtroppo è stata totalmente mortificata dalle IPA. Oggi con il termine Session IPA si indicano semplicemente American IPA molto leggere, tralasciando tutti gli altri elementi richiesti a una session beer. Il significato viene totalmente ribaltato, perché le Session IPA sono tutt’altro che “discrete”: a causa dei loro intensi aromi di luppolo e di un amaro deciso, non passano certo inosservate. Sono birre che richiedono attenzione, che sono volutamente lontane da un concetto di equilibrio. Chiariamoci, se ben realizzate sono spesso un toccasana specialmente nelle giornate estive, ma chiamarle “session” è un’aberrazione a cui ci siamo abituati troppo velocemente. Personalmente all’inizio ho cercato di usare espressioni più calzanti come Light IPA, poi mi sono arreso all’uso ormai comune. Le IPA dominano il mercato anche da questo punto di vista e a distanza di anni sono ancora capaci di infilarsi in ogni piega della cultura brassicola internazionale.