Anche chi non è super appassionato di birra avrà sentito sicuramente parlare di “birra trappista”. Questo concetto è in grado di alimentare fantasie e ridestare improvviso interesse, sebbene in pochi sappiano esattamente cosa significa: in generale è associato vagamente all’idea di una birra prodotta da monaci, cosa che peraltro è vera in termini assoluti. Tuttavia in pochi conoscono i dettami della definizione e ancor meno tutte le sfaccettature di un mondo che, nonostante tutto, mantiene ancora oggi la sua aura tradizionale ed evocativa. Quello della birra trappista è infatti un universo a sé stante, che vive sulla base di regole specifiche e che offre alcuni tra i migliori capolavori dell’arte brassicola mondiale. Scrivere di questo argomento mi appassiona da sempre, quindi nel pezzo di oggi riporto sia le nozioni alla base della definizione, sia alcune curiosità statistiche e storiche.
Cos’è la birra trappista?
Innanzitutto non è uno stile, come invece lo sono le Blanche, le Pils o le IPA. Con l’espressione “birra trappista” si intende piuttosto una birra che, indipendentemente dalle sue caratteristiche intrinseche, rispetta 3 criteri fondamentali:
- È prodotta all’interno di un’abbazia trappista, cioè appartenente all’ordine dei Cistercensi della Stretta Osservanza. L’impianto deve essere fisicamente presente all’interno della struttura.
- La birra deve essere prodotta direttamente dai monaci. Il birraio può anche essere un laico, ma la supervisione deve comunque rimanere appannaggio dei monaci.
- Non deve sussistere lo scopo di lucro. In altre parole i ricavi delle vendite della birra devono essere destinati alle esigenze ordinarie e straordinarie della comunità monastica oppure a opere di carità.
Fatte salve queste prerogative, una birra trappista può dunque appartenere a qualsivoglia stile birrario. Un errore che si commette spesso è pensare che qualunque birra monastica sia trappista: fondamentale è invece l’ordine di appartenenza dei monaci. Birre realizzate ad esempio da frati benedettini (in Italia abbiamo Cascinazza e Nursia) o da frati minimi (in origine la tedesca Paulaner) non possono essere considerate trappiste proprio per questo motivo. Comunque a scanso di equivoci una birra trappista è identificata dal bollino esagonale presente in etichetta, che contraddistingue un Authentic Trappist Product.
Quanti sono i birrifici trappisti al mondo?
Pochi, pochissimi. Attualmente i birrifici trappisti attivi al mondo sono dodici, divisi in sei nazioni diverse. La maggioranza è concentrata in Belgio – motivo per cui la cultura brassicola locale è considerata modello di riferimento in tal senso – dove operano 6 birrifici trappisti, tutti piuttosto antichi: Chimay, Orval, Westvleteren, Westmalle, Achel e Rochefort. In Olanda ne troviamo due: La Trappe e il più recente Zundert. Gli altri sono suddivisi uno per ogni nazione restante: Engelszell in Austria, Spencer negli Stati Uniti, Mount St. Bernard in Inghilterra e, dal 2015, Tre Fontane in Italia (a Roma). Curiosamente per decenni il numero dei birrifici trappisti è rimasto fermo a sette (i sei belgi più La Trappe in Olanda), ma il loro numero è aumentato considerevolmente a partire dal 2012.
Tra i marchi trappisti va aggiunto anche il francese Mont des Cats, che tuttavia produce presso Chimay.
Quante birre produce ogni birrificio trappista?
In questo caso esiste un’ampia variabilità da birrificio a birrificio. Tra quelli storici, il caso più celebre è rappresentato da Orval, che da sempre commercializza una sola birra battezzata allo stesso modo e considerata leggendaria da molti appassionati. All’estremo opposto troviamo La Trappe, che produce nove birre fisse più altre edizioni limitate: nella gamma troviamo sia stili di stampo prettamente trappista, sia prodotti più particolari fino ad affinamenti in legno. In linea di massima comunque i birrifici trappisti tradizionali producono due o tre birre disponibili tutto l’anno, come Westmalle (Dubbel e Tripel), Rochefort (6, 8 e 10) e Westvleteren (Blond, 8 e 12).
Tra i birrifici trappisti di nuova generazione si distingue il caso dell’americano Spencer, che in pochi anni ha lanciato molte birre diverse, spesso travalicando i confini della cultura brassicola del Belgio. Sua infatti è stata la prima IPA trappista, ma nella gamma troviamo anche un’Imperial Stout, una Vienna, una Pils e addirittura una Juicy IPA; senza dimenticare una linea parallela dedicata alle birre con frutta. Gli altri birrifici trappisti sparsi per il mondo sono sicuramente più misurati dei fratelli statunitensi: ad esempio l’italiana Tre Fontane ha annunciato la sua seconda birra solo qualche mese fa.
Infine è consuetudine per i birrifici trappisti (soprattutto quelli più antichi) produrre una o due birre destinate al consumo interno e non disponibili sul mercato. Gli esempi celebri non mancano, come la Petite Orval di Orval, la Chimay Dorée di Chimay (ormai però regolarmente disponibile a livello commerciale), la Westmalle Extra di Westmalle. Tutte queste birre sono sostanzialmente più leggere delle loro sorelle “ufficiali” e in molti casi è possibile assaggiarle solo in loco, nei caffè adiacenti ai monasteri.
Esistono degli stili trappisti?
Sebbene come spiegato la birra trappista non sia uno stile, esistono degli stili birrari tipicamente trappisti perché nati all’interno di questo affascinante mondo. Sono sostanzialmente tre: Dubbel, Tripel e Quadrupel. Le Dubbel, di colore ambrato carico (fino al marrone) con un profilo ricco e complesso, nacquero nei monasteri del Medio Evo e furono riscoperte solo dopo l’era napoleonica: il birrificio responsabile della loro rinascita fu Westmalle. Lo stesso Westmalle contribuì alla diffusione delle Tripel, birre chiare forti e complesse, ma anche bilanciate e secche. La Westmalle Tripel arrivò sul mercato nel 1934 col nome di Superbier, poi sostituito dall’attuale nel 1956. Le Quadrupel infine sono le più forti della famiglia trappista, nonostante non ci sia accordo nel considerarle uno stile birrario a sé stante. Rientrano in questa tipologia la Westvleteren 12, la Rochefort 10 e La Trappe Quadrupel.
Sono birre facili da reperire?
Anche qui dipende. Alcuni birrifici trappisti sono da anni disponibili regolarmente nei canali mainstream, compresa la GDO, come Chimay e La Trappe. Proprio l’accordo di distribuzione stretto in passato da quest’ultimo con la multinazionale Bavaria spinse l’Associazione Internazionale Trappista a revocargli il bollino esagonale (si ipotizzò il venir meno dell’assenza di scopo di lucro). Il caso si risolse qualche anno dopo con il ritorno a una situazione compatibile con il disciplinare.
Con la recente comparsa di tanti birrifici trappisti è difficile oggi affermare quale sia il più complicato da reperire, ma probabilmente il primato spetta sempre a Westvleteren. Il birrificio fiammingo ha costruito su questo aspetto gran parte della propria fama, perché leggendaria è la difficoltà nel reperire i suoi prodotti, anche in loco: bisogna contattare telefonicamente il monastero (sperando che qualcuno risponda), lasciare la targa della propria automobile e quindi recarsi all’abbazia con la possibilità di acquistare non più di sei bottiglie a persona. Anche per questa ragione la Westvleteren 12 fu considerata dagli utenti di Ratebeer la migliore birra del mondo, alimentando un fanatismo che spinse appassionati da tutto il mondo a recarsi al monastero e obbligando di conseguenza i monaci a rendere ancora più ferreo il filtro d’acquisto. Comunque tutta questa impalcatura venne momentaneamente meno nel 2010, quando le birre di Westvleteren furono disponibili nella catena di supermercati Colruyt: una decisione che i frati assunsero per finanziare importanti interventi di ristrutturazione nell’abbazia.