Quando bisogna parlare di birra artigianale c’è un escamotage a cui i media generalisti ricorrono spesso: evidenziare le produzioni con aromatizzazioni bizzarre o insolite. Ridurre il fenomeno a questo unico particolare è assolutamente riduttivo e talvolta pericoloso, ma d’altro canto anche comprensibile: è il modo più facile ed efficace per catturare l’attenzione dell’utente medio che non possiede alcuna nozione di cultura birraria, senza considerare che spesso sono gli stessi birrifici italiani a offrire il fianco a certe conclusioni superficiali. Il risultato è che purtroppo tra la gente comune si sta diffondendo l’idea che la birra artigianale è necessariamente quella “strana”, allontanandola quindi da un consumo quotidiano. Ma la verità è che le aromatizzazioni, più o meno consuete, esistono da sempre e diversi stili birrari le prevedono tra le loro caratteristiche fondamentali. Anche qui, come per altri temi, è dunque opportuno fare chiarezza.
La presenza di un ingrediente insolito per il concetto comune di birra può avere due origini: o la creatività estemporanea del birraio, oppure una regola ben definita per quella tipologia, tramandata di generazione in generazione. Se nel primo caso, in situazioni estreme, può essere considerata un capriccio del momento, è chiaro che nel secondo caso non c’è alcun motivo per meravigliarsi: non è la moda a dettare quell’aromatizzazione apparentemente assurda, ma una ricetta che spesso affonda le radici in secoli passati. Facciamo qualche esempio.
Ostriche
Aggiungere ostriche in fase produttiva può sembrare una delle scelte più eccentriche che può compiere un birraio, peccato che esista uno stile che le preveda esplicitamente. Sto chiaramente parlando delle Oyster Stout, variazione delle classiche birre scure britanniche prodotte con il prezioso bivalve. Ma da dove nasce questo folle sottostile? Come racconta il mitico Michael Jackson, all’inizio dell’epoca vittoriana le ostriche erano uno snack molto diffuso nei pub, così come le Porter e le Stout. Bere un boccale e accompagnarlo con tali molluschi era dunque abitudine diffusa, al punto che l’abbinamento resistette anche quando le Pale Ale cominciarono a soppiantare in popolarità le tipologie più scure. Tra il XIX e il XX secolo il birrificio Colchester realizzò una Stout speciale per il raccolto delle ostriche, ma per la prima testimonianza di una Oyster Stout bisogna aspettare il 1929, quando un birrificio neozelandese aggiunse ostriche alla sua Stout. Nel 1938 il produttore londinese Hammerton seguì la stessa idea, che poi si diffuse tra altri birrifici inglesi.
Oggi quella delle Oyster Stout è una tipologia abbastanza diffusa, con il birrificio Porterhouse di Dublino a farsi maggior rappresentante del sottostile – la sua Oyster Stout è bevuta in tutto il mondo. In Italia il primo a confrontarsi con lo stile fu Leonardo Di Vincenzo di Birra del Borgo (Perle ai Porci), con pochi seguaci: citiamo la Litor Ale di Eastside, la Black Diva di Birrapulia per Inofficina e la Crauza de Ma di Birstrò + La Dama. In molti casi alle costose ostriche si aggiungono altri molluschi tipici dei nostri litorali. Comunque la morale l’avete capita: quando sentite parlare di una birra alle ostriche non pensate che sia l’ennesima incarnazione del “famolo strano”, ma semplicemente l’omaggio a una tipologia inventata secoli fa.
Sale
Il salato non è un sapore semplice da trovare in una birra, eppure esiste uno stile di nicchia che prevede espressamente l’aggiunta di sale. Per scovarlo dobbiamo andare fino a Lipsia, in Sassonia, dove resiste quell’antico genere brassicolo denominato Gose. Come vi ho raccontato più volte si tratta di una tipologia realizzata con una percentuale di frumento e con l’impiego di coriandolo e il già citato sale. Inoltre l’inoculo di lattobacilli ne amplifica la componente acidula. È forse la birra più strana che esiste nell’immenso patrimonio brassicolo mondiale, eppure la sua storia risale addirittura al XVI secolo, quando cominciò a diffondersi nella città di Goslar – non lontano da Lipsia. In questa sede ci interessa l’uso del sale, che probabilmente si è tramandato di generazione in generazione per imitare il gusto delle prime Gose, realizzate con la locale acqua salina.
Sebbene lo stile delle Gose abbia realmente rischiato di scomparire – nel 1945 chiuse l’ultimo produttore – oggi è uno stile che gode di buona salute. Non solo delle simil-Gose sono create da birrifici di tutto il mondo, ma qualche anno fa abbiamo assistito persino a un loro ritorno di fiamma. Per quanto riguarda il sale, invece, oggi tanti produttori ne stanno sperimentando l’impiego in stili diversi, con risultati spesso molto interessanti. Insomma, quello delle birre salate non è poi un fenomeno così contemporaneo.
Frutta
Fa sorridere quando la gente comune rimane sconvolta di fronte a una birra che prevede l’impiego di frutta. Fa sorridere perché questo ingrediente, al pari delle spezie, è usato nell’arte brassicola praticamente da sempre: i primi rinvenimenti di proto-birre mostrano proprio l’aggiunta di diverse tipologie di frutta alla base fermentabile. L’usanza è talmente radicata nella storia della bevanda che ci sono alcuni stili caratterizzati proprio in questo modo: pensiamo alle storiche Blanche belghe, ad esempio, dove l’aromatizzazione deve essere eseguita con bucce di arancia amara, oltre che coriandolo. Se vogliamo fare riferimento a tipologie ancora più ancestrali, ci basta affidarci a tutte le varianti di Lambic realizzate con frutta: Kriek (ciliege), Framboise (lamponi) e altre ancora.
Oggi l’uso di frutta nella produzione brassicola sta vivendo una nuova primavera, affrancandosi dagli stili classici che ne prevedono esplicitamente l’impiego. Pensiamo al trend rappresentato dalle (Grape)fruit IPA, oppure dalle moderne Berliner Weisse brassate con frutta. Fuori da queste categorie, esistono birre alla frutta di eccezionale livello e noi italiani siamo tra i migliori birrai al mondo in questa specialità. In conclusione non esiste un solo motivo per strabuzzare gli occhi di fronte a una birra alla frutta, fatevene una ragione.
Affumicato
Qui non parliamo di un ingrediente particolare, ma di un gusto specifico. Non è facile incappare in birre affumicate, ciononostante esiste una regione tedesca alle quali sono tradizionalmente associate: la Franconia. Qui diversi birrifici (come Schlenkerla e Spezial a Bamberga) producono ancora birre affumicate, usando legna di faggio per essiccare l’orzo. È un’usanza antica, che in quella terra è rimasta intatta e che ci permette di comprendere, con un ragionevole margine di sicurezza, quale doveva essere il sapore della birra tanti secoli or sono. Oggi l’affumicato è usato anche per altre tipi di produzioni, spesso molto diverse dalle Rauchbier della Franconia: mi viene in mente ad esempio la Don Zaucher di Stavio, con malto affumicato e bucce di arancia amara.
Se la vostra birra è affumicata e ha un gusto che ricorda la provola o lo speck, non pensiate che sia la pessima trovata del birraio di turno. È in realtà una tradizione che è sopravvissuta nei secoli e che oggi ci viene riproposta sia in maniera classica, sia con interpretazioni più moderne. E che in ogni caso non giustifica alcuna invettiva contro le eccentriche tendenze contemporanee della birra artigianale.
Questi quattro esempi dimostrano quindi che non sempre la presenza di un ingrediente inusuale denota la voglia di sorprendere a tutti i costi. Esistono stili che sono nati “strani” e sono stati tramandati così nei secoli: oggi riproporli significa omaggiare lo sconfinato patrimonio brassicolo mondiale. Ci sono altri casi che aggiungereste a quelli elencati? Tipo, che so, il miele…
Quindi tutto normale? In quali stili è previsto il tartufo? In quali il melograno? D’accordissimo su gli stili da te descritti, ma il resto? Questo articolo è non solo una forzatura, ma anche un sistema per giustificare l’incapacità di molti birrai di fare una birra buona ed interessante, che ricalchi un vero stile e che sia interessante di suo e non per l’ingrediente X.
Stefano secondo me ti sei limitato a scorrere l’articolo superficialmente. Rileggilo con attenzione e poi magari ne parliamo.