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Le birre italiane più influenti di sempre – Parte II

Nella ventennale storia della birra artigianale italiana è possibile individuare delle birre particolarmente rilevanti, capaci di influenzare l’intero movimento e ricoprire il ruolo di apripista per mode e tendenze? Sicuramente sì, come abbiamo raccontato nella prima parte di questo “reportage” a puntate che ripercorre le produzioni più importanti per l’ambiente birrario nazionale. In quell’occasione parlammo di Tipopils (Birrificio Italiano), Super (Baladin), Malphapana (Soci dea Bira) e Utopia (Troll + Bi-Du). Ora possiamo riprendere il tragitto presentando altre birre fondamentali per l’evoluzione del mercato italiano. Come vi avvisai all’epoca, l’elenco è composto da etichette famose e semi sconosciute, regolarmente disponibili e ritirate da tempo, di riconosciuto valore e qualitativamente trascurabili. L’elemento in comune è solo uno: aver lasciato il segno nell’ambiente della birra artigianale italiana.

BB10 – Barley

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Le Italian Grape Ale rappresentano la prima tipologia italiana di birra a essere stata inserita nel 2015 dal BJCP tra quelle candidate a diventare stile ufficiale. Dovreste ormai sapere che rappresentano l’anello di congiunzione con il mondo del vino, perché prodotte con uva in forma di frutto o, più frequentemente, in forma di mosto. Dal momento del loro riconoscimento ufficiale, il numero di IGA prodotte in Italia è aumentato considerevolmente, facendo impennare un trend comunque già in ascesa da anni. Risalire alla prima Italian Grape Ale significa dunque identificare una birra dal valore simbolico straordinario, capace di fare da apripista come poche altre.

Gli esperimenti nell’uso di mosto di vino cominciarono in Italia all’inizio degli anni 2000, ma bisognò attendere il 2007 per trovare sul mercato quella che oggi possiamo considerare la madre di tutte le Italian Grape Ale: la BB10 del birrificio sardo Barley. D’altra parte il birraio Nicola Perra aveva cominciato a testare ricette analoghe già intorno al 2003: come riporta Fermento Birra compì dei primi tentativi con uva Nuragu, che tuttavia non lo soddisfecero pienamente. La quadratura del cerchio arrivò anni dopo con il Cannonau utilizzato in forma di sapa, cioè come mosto cotto, tra l’altro ampiamente utilizzato nella cucina della Sardegna per la creazione di dolci. La sapa fu aggiunta su una base di Imperial Stout (10%), dando vita a un prodotto eccezionale, che ancora oggi rappresenta il top della categoria. In questi anni Barley si è specializzato sulle IGA come nessun altro birrificio al mondo, tanto che in gamma conta quasi una decina di produzioni del genere.

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Panil Barriquée – Torrechiara

Tra i birrai più visionari del movimento nazionale va sicuramente inserito Renzo Losi, che cominciò la sua avventura nel Birrificio Torrechiara, in provincia di Parma. Nato nel 2001, questo produttore può essere considerato tra i pionieri della birra artigianale italiana e in quanto tale partì con una linea abbastanza ordinaria, ispirata agli stili del Belgio e battezzata Panil. Niente di innovativo, dunque, se non fosse che Renzo Losi decise di utilizzare alcune barrique dell’azienda vinicola della famiglia per creare una birra affinata in legno. Nacque così la Panil Barriquée, che possiamo oggi considerare apripista delle birre italiane maturate in botte, assolutamente di moda in questo momento. Il prodotto divenne rapidamente famoso in tutta Italia e la sua fama riecheggiò fuori dai confini nazionali: negli USA specialmente diventò ricercatissima e per anni rimase la migliore birra italiana secondo Ratebeer.

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Della Panil Barriquée furono prodotte due versioni: una base “liscia” e una acida (Panil Barriquée Sour), realizzata con inoculo di lattobacilli. A seguito di alcuni divergenze familiari, nel 2012 Renzo Losi lasciò il birrificio Torrechiara e si trasferì a Torino, dove aprì il marchio Black Barrels: una sorta di affinatore di mosti, dove mettere in campo tutta l’esperienza acquisita con la Panil Barriquée. Per saperne di più su questo progetto vi rimando all’intervista che Renzo rilasciò a Niccolò Costanzo a fine 2015.

Pioneer Pale Ale – Rome Brewing Co.

All’inizio degli anni 2000 la scena birraria romana era molto diversa da oggi. Non c’era un beershop degno di questo nome e i pub meritevoli di una visita si contavano sulle dita di una mano. Eppure nel quartiere Balduina c’era un locale, lo Starbess, che aveva la peculiarità di proporre birre realizzate in loco (o meglio, nell’edificio limitrofo). Il birraio era un americano di Philadelphia, trasferitosi a Roma e rispondente al nome di Mike Murphy. Le sue creazioni rappresentavano qualcosa di assolutamente innovativo, non solo per l’ambiente capitolino, ma anche per il resto d’Italia: in un periodo storico in cui i birrifici si concentravano su basse fermentazioni di stampo tedesco o stili originari del Belgio, Mike cercò di riproporre a Roma le tipologie tipiche degli Stati Uniti. Inutile dire che fu il primo a cercare di esaltare al massimo i luppoli, in particolare quelli provenienti dagli USA – sebbene proprio nello stesso periodo Beppe Vento di Bi-Du stesse sperimentando qualcosa di simile con la sua Artigianale.

La birra più rappresentativa di Mike Murphy fu senza dubbio la Pioneer Pale Ale (5,1%), un’APA che vide la luce nel 2001 e la cui ricetta prevedeva l’impiego di luppoli Cascade e Chinook. Come il nome suggerisce, fu pionieristica in tutto, anche troppo: i tempi probabilmente erano ancora acerbi per una produzione del genere, sebbene eccellente. Qualche anno dopo Mike lasciò l’Italia e si trasferì in Danimarca presso GourmetBryggeriet, ma la Pioneer e le altre birre dello Starbess continuarono a essere prodotte per un breve tempo da un giovane birraio. Che ci crediate o no il suo nome era Leonardo Di Vincenzo e la famosa Reale di Birra del Borgo – che a sua volta ha contribuito alla moda del luppolo americano in Italia – trae ispirazione proprio dalla ricetta dell’APA di Mike Murphy. Oggi Mike lavora in Norvegia presso il birrificio Lervig, mentre Leonardo… beh la storia di Birra del Borgo dovreste conoscerla tutti 🙂 .

Ghisa – Lambrate

Probabilmente la Ghisa non è stata una birra particolarmente influente per l’evoluzione del movimento nazionale, ma presenta alcune caratteristiche organolettiche e simboliche che mi hanno suggerito di inserirla in questo elenco. Dal punto di vista puramente gustativo, può essere considerata una Stout affumicata, forse la prima birra italiana in assoluto a presentare questa spiccata peculiarità. Possiamo affermare che ha sdoganato il carattere “rauch” nelle produzioni italiane, anticipando altri esempi che si sarebbero affacciati sul mercato negli anni a venire, pur con frequenza molto rada. L’aspetto interessate è che aggiungeva questo aspetto affumicato su una base scura ad alta fermentazione, proponendo quindi qualcosa di nuovo rispetto alle classiche Rauch della Germania: possiamo considerarla il primo esempio di innesto creativo di un elemento aromatico in uno stile completamente diverso.

Ma la Ghisa, così come altre flasgship beer del Lambrate, porta con sé dei valori simbolici ancora più evidenti. Al pari della Montestella, della Porpora o della Sant’Ambroeus, la Ghisa ha contribuito a creare un forte legame tra il birrificio meneghino e la sua comunità di clienti, che gli ha permesso di crescere negli anni fino a diventare uno dei produttori artigianali più grandi e importanti d’Italia. Questa stretta simbiosi con il quartiere ha mostrato le potenzialità dei brewpub cittadini, che solo in pochi sono stati in grado di comprendere – o semplicemente di replicare. È probabile che parte del futuro della birra artigianale italiana si giocherà proprio su questo aspetto e finalmente qualcuno sembra averlo compreso, nel tentativo di emulare la formula Lambrate – con le dovute proporzioni – anche in altre grandi città italiane. Per riuscirci però bisogna creare birre riconoscibili e di carattere, proprio come lo è sempre stata la Ghisa.

La seconda parte di questa rassegna di chiude qui. Siete d’accordo nel considerare queste quattro birre nel novero delle più influenti d’Italia?

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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3 Commenti

  1. Pienamente d’accorso nella scelta delle quattro birre, nulla da eccepire. E soprattutto, hai fatto benissimo a inserire la Pioneer Pale Ale, riconoscendo a Mike Murphy (pioniere della situazione) i giusti e sacrosanti meriti.
    Nel caso la bottiglia della Pioneer ritratta in foto fosse tua, ti faccio i complimenti. Un vero e proprio cimelio di cui esser fieri 😀

    • Eheh no magari, quella l’ho trovata sul web. Credo di aver avuto in cantina, per un certo periodo della mia vita, una bottiglia di Maelstrom, il Barley Wine che Mike produceva sempre a Roma

  2. Alcune di queste birre le conosco, altre no per cui mi è difficile dare un parere: altra cosa è l’esperienza personale per aver bevuto, ad esempio, birre particolari come quella speciale prodotta dai Soci dea Bira per la festa che si è tenuta anche quest’anno a Cavaso del Tomba (TV); oppure quella che mi ha spinato parecchi anni fa Paolo de Martin direttamente dal maturatore…
    Sono solo alcuni esempi che hanno fatto di me, homebrewer, un appassionato di birra artigianale.
    La mia personale top ten? Non necessariamente nell’ordine

    – Sun Flower di Valcavallina
    – Anarkica del Birrificio Acelum
    – Vai Zen, Cibus e Gerica del Birrone
    – Sisma di SognandoBirra
    – Tipopils del Birrificio Italiano (una pietra miliare)
    – Hopfelia di Foglie d’erba

    Poi ci sono alcuni birrifici storici (sempre a mio parere) che si sono rivelati una grande delusione. Come in tutto, l’aggettivo artigianale non è sempre sinonimo di qualità.

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