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Macro mangia micro: Goose Island acquistata da AB-Inbev

Se siete soliti consultare i siti di notizie birrarie, specialmente in lingua inglese, saprete benissimo qual è l’argomento che sta tenendo banco in questi giorni: l’acquisizione del birrificio americano Goose Island da parte del colosso AB-Inbev. La novità è arrivata come un fulmine a ciel sereno un paio di giorni fa, quando i principali organi d’informazione del settore hanno rivelato che Goose Island ha scelto Anheuser-Busch come partner per una strategia di ampliamento. In parole povere: ha ceduto il proprio controllo alla principale multinazionale birraria del mondo, nata a luglio 2008 dalla fusione tra Inbev (controllante) e Anheuser-Busch. A suo tempo predissi che l’operazione avrebbe avuto importanti ripercussioni per i marchi controllati dai due giganti. Ebbene, non è un caso che AB-Inbev è stata fino a pochi giorni fa partner commerciale per la distribuzione delle birre griffate Goose Island.

I dettagli dell’acquisizione rivelano cifre di tutto rispetto, che offrono un chiaro indizio sui numeri che è in grado di muovere il mercato artigianale negli States. AB-Inbev verserà infatti ai fondatori del birrificio di Chicago la bellezza di 22,5 milioni di dollari per ottenere il controllo del 58% della società, più altri 16,3 milioni di dollari per rilevare il restante 42% attualmente detenuto dalla Craft Brewers Alliance. 100% delle quote, quindi controllo totale di uno dei microbirrifici pionieri in America e largamente apprezzato per la qualità dei suoi prodotti.

In realtà ci sarebbe qualcosa da dire sul termine “microbirrificio”, non propriamente attribuibile a un’azienda che nel 2010 ha raggiunto i 127.000 barili di birra prodotta. Ma abbiamo imparato che il mercato statunitense è molto diverso dal nostro, al punto che il concetto di birra artigianale è (per definizione) associato anche a produttori di dimensioni davvero considerevoli. Più che una valutazione sulle quantità, conta allora la filosofia produttiva; su questo non ci sono dubbi: è la prima volta che la più grande multinazionale birraria del mondo ottiene il controllo di un esponente del segmento “craft”.

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La notizia ovviamente apre scenari inediti non solo per Goose Island, ma anche per il panorama brassicolo generale degli Stati Uniti, e forse non solo. Appassionati ed esperti si sono scatenati in questi giorni, proponendo diverse letture di quanto accaduto. La prima preoccupazione è naturalmente per il futuro dell’azienda di Chicago: in particolare ci si chiede quanto tempo passerà prima che il controllo di AB-Inbev avrà completamente snaturato alcune tra le birre più apprezzate in America. E’ un quesito che emerge in modo naturale tutte le volte che si verificano operazioni di questo tipo e purtroppo i precedenti non sono incoraggianti: nella migliore delle ipotesi le birre di ex-microbirrifici perdono di personalità, si trasformano in blande copie di se stesse; nella peggiore delle ipotesi vecchie aziende piene di gloria diventano irriconoscibili così come i loro prodotti.

Per la verità AB-Inbev sembra voler mantenere lo status quo all’interno di Goose Island, senza rivoluzionare l’assetto societario, a tutti i livelli. Unica eccezione, ma di importanza notevole, riguarda la figura del birraio: non sarà più Greg Hall (militante da lungo tempo nel birrificio), ma Brett Porter (in nomen omen 😉 ) . Porter, che inizierà la sua nuova avventura da maggio, proviene dal birrificio Deschutes, un altro grande protagonista della scena americana. Vanta una carriera dedicata alla birra ed è conosciuto per la sua grande preparazione tecnica, aspetto che credo sia molto apprezzato da una multinazionale come AB-Inbev.

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Quale significato nasconde la scelta di AB-Inbev? Andy Crouch sul suo blog offre una visione piuttosto interessante, sottolineando il cambio di strategia da parte del colosso del settore. Dopo anni passati a controllare marchi pseudo-artigianali, finalizzati a rubare consumatori ai microbirrifici scimmiottando le vere birre di qualità, ora la tattica è differente: si va dal birrificio artigianale col valigione pieno di dollari e si acquista l’intero controllo dell’azienda. Una mossa ben più onerosa, ma in grado di offrire ampie garanzie e ritorni ben diversi. Questo secondo Crouch è un dettaglio che segna la vittoria del comparto artigianale, ma a mio modo di vedere non si può dire la stessa cosa per i suoi consumatori.

Oltre alle osservazioni pessimistiche, è curioso notare che più di un commentatore attende gli esiti senza sbilanciarsi troppo. Alan McLeod si chiede ad esempio come accogliere la vicenda se in futuro le birre Goose Island saranno disponibili con la qualità di sempre, ma a prezzi decisamente più bassi. Interessante anche chi, tra i commenti, propone un parallelo tra il mondo delle nuove tecnologie e quello della birra, accomunati dalla tendenza alla convergenza.

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Conoscendo le strategie di Inbev, in molti prevedono che quella della Goose Island sarà solo la prima di una serie di future acquisizioni nel mondo “craft” americano. Gli appassionati più radicali stanno già tremando…

Andrea Turco
Andrea Turco
Fondatore e curatore di Cronache di Birra, è giudice in concorsi nazionali e internazionali, docente e consulente di settore. È organizzatore della Italy Beer Week, fondatore della piattaforma Formazione Birra e tra i creatori del festival Fermentazioni. Nel tempo libero beve.

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20 Commenti

  1. La goose era già una delle “mirco” più compromesse con le major a livello commerciale.
    Ho molta paura per le loro “seasonal” (le birre che ancora la legano maggiormente agli appassionati) più che per le birre di maggior vendita

    CMQ è una cosa che succederà sempre più spesso, rassegnamoci.
    Son tante le craft brewing company che ultimmente tagliano addirittura la distribuzione perché incapaci di ampliarsi e reggere il mercato in usa e l’esportazione

  2. chi vivrà vedrà, si preparino al massacro mediatico se qualcuna delle loro birra avrà solo un difetto in più prima.
    Sento già lo scrocchiare di nocche dei ditini accusatori di tutto il mondo birraio.

    • @ SR: stai a vedè pesci ovunque…anche il bir&flut, ti garantisco che non è un pesce, chiama al fisso del negozio e chiedi 😛

      Secondo me Goose vende e alla grande, magari poi ne apre un altro e intasca per bene.

      • urca! ma dici sul serio? la locandina faceva così schifo che sembrava realizzata in pausa pranzo… è robba tua spero o li denunci? fantasia al potere?

        che Goose non è un pesce, avendolo per primo postato io rilevando la notizia da bloomberg lo sapevo… era per bruciare quello che il Turco ci propinerà nel giro di una settimana :-p

        • Ammazza addirittura schifo, allora te fa schifo pure il nostro di logo che è uguale su arancio, de gustibus…ma c’hai de gusti da schifo pure te 😛
          Cmq si è roba anche mia 😀 io sto su venerdì se vuoi passare ci facciamo una chiacchera e ci beviamo qualcosa (che non manca di certo).
          Ariciao m.

          • schifo nel senso che il fondo marrone non è il massimo e il font è sgranato, con aliasing… quindi schifoso nel senso della qualità dell’immagine postata che sembrava lo scherzone realizzato con gimp in pausa pranzo, il logo è un logo come un altro… una scritta alla fine della fiera

          • “il logo è un logo come un altro… una scritta alla fine della fiera”

            credo che designer e creativi vari apprezzeranno molto la tua affermazione 🙂

          • ommioddio… adesso non vorrei sconfinare, diciamo che mi pare un lavoro onesto ma non trascendentale, come qualche altro migliaio (milione?) di insegne che si vedono in giro. 150 euri, non di più (a esser generosi, ma conoscete i miei parametri…)

            lo schifo è la realizzazione tecnica che, nell’immagine postata nel bloggo, mi pare veramente di bassissima qualità (da lì l’idea dello scherso)

            ma il Turco che è un professionista mi smentirà

          • beh, ci capirai cmq un po’ più di me di come gira il fumo in queste cose… forse ne gira un po’ troppo ahimé

          • Se parli della sgranatura del logo, quella è evidente e sicuramente dipende dallo script del blog atto a ridimensionare le immagini quando si esegue l’upload. Per quelle che sono le mie conoscenze in materia, il logo di suo non presenta problemi particolari in senso oggettivo, poi sul piacere o meno entra in gioco la soggettività.

  3. Effettivamente la notizia che una multinazionale, si “abbassi” a comprare una micro fa senso.. e fa riflettere molto..
    Il mercato artigianale americano ha avuto così grande successo da cambiare le quote di mercato al gigante?
    oppure hanno i margini troppo bassi laggiù che cercano birre che possano migliorare o bilanciare le possibilità di guadagno..?
    o lo avranno fatto davvero per “amore della birra..”??
    mah… certo è che questa cosa apre scenari e riflessioni commerciali nuovi…

    • il mercato americano ha effettivamente avuto una espansione notevole. Non tale da giustificare ancora reali preoccupazioni per le multinazionali ma, si sa, per loro un solo punto di % perso sul mercato comporta perdite considerevoli

  4. Qualche giorno fa John Ansell parlava del fenomeno grandi VS piccoli, applicato maggiormente alle microdistillerie ma con riferimenti al mercato birrario americano, e vedeva piu’ aspetti positivi che negativi del fenomeno, ragionando su un mercato gia’ maturo. L’ultima frase ho faticato un po’ a capirla spero di averla interpretata/tradotta bene.

    http://www.whatdoesjohnknow.com/2011/03/23/the-lines-between-established-distillers-and-small-craft-distillers-are-becoming-blurred/

    http://www.angelshare.it/news.php?extend.456

  5. Non vorrei dire cose sbagliate, ma mi pare che Goose Island non fosse più “accettata” dalla Brewers Association da un bel po’ sia per i suoi accordi distributivi con i genitori della BUD e per il fatto che una quota del capitale sociale fosse di proprietà di una multinazionale. Mi sa che valeva lo stesso discorso anche per CBA (che comprendeva anche Kona)

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