In questi anni da homebrewer, giudice e frequentatore del web birrario, ho avuto modo di incrociare moltissimi produttori casalinghi. Alcuni li ho incontrati di persona, con altri scambio frequentemente opinioni, chiacchiere e a volte anche birre da remoto. Con il tempo, ho imparato a individuare quelli veramente bravi: i corridori solitari che hanno una marcia in più rispetto alla massa; quelli in grado di analizzare pregi e difetti delle proprie birre, con sincerità e precisione chirurgica. Ho assaggiato alcune birre spettacolari prodotte in casa, da far invidia a birrifici italiani ma anche stranieri (in alcuni casi anche a birrifici del Belgio, che considero outsider in molte categorie birrarie). Questi homebrewer sono per me una fonte continua di ispirazione: da loro imparo sempre cose nuove, anche se in molti casi abbiamo approcci diversi alla produzione, a volte diametralmente opposti. A un certo punto mi sono chiesto: ma cosa hanno di speciale questi personaggi? Cosa li differenzia dagli altri?
L’attrezzatura? No, non direi: ne conosco alcuni bravissimi che rifiutano ad esempio la contropressione o i sistemi in isobarico, altri altrettanto bravi che farebbero in isobarico anche una Tripel. Hanno studiato? Sì, ma non solo. Non tutti sono dei microbiologi in erba, eppure alcune loro birre sono esaltanti. Hanno fatto mille corsi di degustazione? Sì e no: diciamo che la corsa all’attestato non è nelle loro corde, anche se in media almeno un corso di degustazione lo hanno frequentato. Ho dunque provato a rifletterci un po’ su e a mettere nero su bianco quelle che a mio avviso sono le competenze acquisite nel tempo da questi homebrewer, le sfumature sottili che li differenziano davvero dagli altri. Non sono certo le uniche competenze necessarie per fare il salto di qualità, ma forse le più difficili da padroneggiare e allo stesso tempo quelle che ti fanno compiere l’ultimo passo verso il livello avanzato della produzione casalinga. Quello della consapevolezza e delle birre entusiasmanti, per intenderci.
Gestione della fermentazione e del lievito
Avrei volentieri evitato di aprire con il solito mantra “il birraio produce il mosto ma è il lievito che fa la birra”, tuttavia continuo a trovarlo il modo più efficace per introdurre l’argomento. È chiaro che si tratta di un’estremizzazione, per diverse ragioni: anzitutto perché il lievito in alcune birre è protagonista ma in altre molto meno; perché sembrerebbe togliere importanza agli altri ingredienti come acqua, malto e luppolo, anch’essi fondamentali; e infine perché una frase del genere relega il birraio a un ruolo marginale, quasi meccanico e ripetitivo, cosa assolutamente lontana dalla realtà, specialmente nel caso di produzioni casalinghe. Tuttavia, nella mia personale esperienza sia di produttore che di bevitore e giudice, nella maggior parte dei casi una birra difettata presenta problemi imputabili a una non corretta gestione del lievito e della fermentazione. Chiaramente esistono anche ricette non riuscite per un mix sbagliato di malto o una gestione non ottimale della luppolatura o delle IBU, ma è più difficile che errori del genere portino a veri e propri difetti. Se invece si sbaglia lievito, lo si gestisce male o lo si lascia libero di fermentare a temperatura non ottimale, il risultato può essere spesso assai deludente. Un buon homebrewer conosce il lievito e sa come gestire una fermentazione. È consapevole che si tratta della fase più delicata del processo, anche nei casi in cui si scelga un ceppo classificato genericamente come “neutro” e che dunque dovrebbe agire in secondo piano. Ma è proprio questo il punto: se non lo gestiamo bene, anche il ceppo più neutro produrrà difetti che sporcheranno la birra. In alcuni casi in modo evidente, come l’aroma di solvente in caso di fermentazioni a temperature elevate; in molti altri l’azione del lievito sarà subdola, non evidente, ma sufficiente per impedire che la birra susciti l’effetto “wow” quando arriva al naso o attraversa il palato.
Non spaventiamoci, però: non sto affermando che dovremmo essere tutti dei microbiologi e conoscere a memoria tutte le sfumature metaboliche di ogni ceppo di lievito. C’è chi ci arriva, magari più in là, dopo la duecentesima cotta. Ma c’è anche chi non raggiunge mai a un tale livello di approfondimento, e tuttavia è in grado di produrre birre spettacolari gestendo lieviti difficili e peculiari. L’importante è procedere per gradi, partendo dalle basi. Prima cosa fondamentale: le temperature di fermentazione. Va bene seguire le stagioni utilizzando i lieviti più adatti al periodo, se lo si fa con intelligenza. Certo costruire una camera di fermentazione in grado di controllare la temperatura, o usare un vecchio frigo allo scopo, lascia molta più libertà. L’importante è mettere il lievito nelle condizioni migliori per ottenere il profilo di fermentazione desiderato. Ci sono lieviti, come il Belgian Saison, che danno il meglio di sé partendo dai 26°C per arrivare oltre i 30°C. Altri, come l’English Ale della White Labs (WLP003, presumibilmente il ceppo della Fuller’s), devono partire bassi (17-18°C) per limitare la produzione di aromi fruttati ma vanno sostenuti subito, alzando la temperatura a 20°C dopo il primo giorno e poi su fino a 22°C. Come faccio a saperlo, visto che i produttori indicano un range generico? Leggere, cercare, chiedere ad amici e birrai. E, come diceva qualcuno: provare, provare, provare. Se non abbiamo voglia di fare starter e imparare come gestire i lieviti liquidi, usiamo i secchi: ne stanno uscendo tantissimi ultimamente, molto interessanti e versatili. Sono estremamente più facili da conservare e inoculare, oltre a costare meno. Ci sono lieviti secchi che fermentano in modo pulito anche a 30°C, come il Kveik della Lallemand; o a bassa fermentazione molto tolleranti a errori nella gestione della temperatura o della pausa diacetile, come il W34/70 della Fermentis. C’è un po’ di tutto in giro, l’importante è scegliere con intelligenza.
Gestire maturazione e conservazione della birra
La cosiddetta “gestione della cantina” è un aspetto molto spesso sottovalutato, specialmente dai produttori casalinghi, che può invece influire molto sulla qualità del prodotto finito. Maturazione e conservazione possono sembrare a prima vista termini simili, interscambiabili, ma nell’ambito birrario non sempre lo sono. Per alcuni versi si intersecano, perché mentre una birra matura di fatto la si sta conservando da qualche parte, ma a mio avviso stiamo parlando di due processi con obiettivi diversi. L’intento della maturazione, che può avvenire sia a caldo (15-20°C) che a freddo (3-10°C), è di indurre una evoluzione controllata del profilo organolettico della birra. In questo caso vogliamo che la birra cambi, il nostro ruolo è indirizzare questo cambiamento. Un esempio classico è l’evoluzione di un Barley Wine, che nel corso della maturazione acquista sfumature aromatiche di vini fortificati, grazie alla trasformazione dei polialcoli in aldeidi. Ma le birre possono maturare anche a freddo, come avviene durante la lagerizzazione di una bassa fermentazione, se si segue il processo classico. Conservare la birra invece ha l’obiettivo di “congelare” il profilo organolettico, che si ipotizza abbia raggiunto il picco. Ovviamente è impossibile fermare il tempo, ma il freddo aiuta a rallentare i processi di invecchiamento. Quando una birra è pronta e matura al punto giusto, la si tiene in frigorifero a bassa temperatura, in genere sotto agli 8°C. Ovviamente nelle basse fermentazioni maturazione e conservazione si sovrappongono in parte, non possiamo tirare una linea di confine netta e precisa. Ma il concetto dovrebbe essere chiaro: la gestione della maturazione è fondamentale. Una volta pronta, la birra andrebbe messa in frigo. Altrimenti potrà solo peggiorare, e anche velocemente.
Molti homebrewer si limitano a lasciare le birre sugli scaffali del ripostiglio o della cantina una volta imbottigliate, dimenticandole per assaggiarle poi a “fine maturazione”. Ma quando arriva questa fantomatica “fine maturazione”? Qui il tema si evolve nelle sue mille sfaccettature che dipendono dallo stile della birra, dalle condizioni ambientali e da quello che si vuole ottenere. La chimica che governa l’evoluzione organolettica della birra è piuttosto complessa e per molti versi non ancora sufficientemente chiara, nemmeno a chi la studia per professione. Ma alcuni punti saldi esistono ed è bene conoscerli, onde evitare di approcciarsi a questa fase seguendo la famosa indicazione – sbagliata! – che ci suggerisce di lasciar maturare la birra un mese per ogni grado alcolico. Secondo questa stramba teoria, che deriva da una iper-semplificazione di concetti complessi, una birra da 7 gradi alcolici dovrebbe maturare 7 mesi, una da 10 gradi ulteriori 3 mesi. E fin qui l’approssimazione potrebbe anche essere accettabile, sebbene la maturazione non dipenda solo dal grado alcolico ma anche da altri fattori. Se però scendiamo con la gradazione alcolica, questo approccio inizia a scricchiolare. Pensate a una bitter di 3,5 gradi alcolici: che facciamo, la beviamo dopo tre mesi al caldo, quando praticamente avrà perso la maggior parte delle caratteristiche organolettiche che la rendono unica? Direi proprio di no. Fondamentale quindi imparare a riconoscere gli elementi distintivi ai fini della maturazione e dell’evoluzione di una certa birra: il grado alcolico, ma anche la carica aromatica, l’intensità maltata, il livello di acidità, il colore (ebbene sì, anche il colore influisce sui tempi di maturazione). Consiglio di partire da un libretto molto carino, ben fatto e semplice da leggere, che affronta questi aspetti nel dettaglio ma senza entrare troppo nella chimica: Vintage Beer di Patrick Dawson.
Ma ovviamente questo non basta. Il mio consiglio è di fare pratica, tanta pratica. E chi meglio di noi homebrewer può fare pratica con la maturazione? Dopo ogni cotta abbiamo a disposizione decine e decine di bottiglie della stessa birra, a differenza di chi acquista birra commerciale che difficilmente ne prende più di tre o quattro insieme. Abbiamo la possibilità di assaggiare una birra ogni due-tre settimane per mesi, annotando variazioni, evoluzioni e involuzioni organolettiche, per poi spostare di corsa le bottiglie in frigo quando sentiamo che la birra è arrivata dove speravamo che arrivasse. Seguire e saper guidare la maturazione, grazie al controllo delle condizioni al contorno, è un’arte. Tanto quanto produrre il mosto e imbrigliare il lievito. Un’arte che richiede conoscenza ma anche, e forse in maggior misura, esperienza. Assaggiare, assaggiare, assaggiare.
Imparare ad assaggiare
Se il nostro obiettivo è “salire di livello” come homebrewer, non possiamo trascurare la fase di assaggio. Che è molto complicata e richiede abilità, conoscenza e attenzione. Forse è più facile all’inizio, quando si hanno meno competenze ma si commettono errori più grossolani in produzione: non è molto difficile riconoscere una birra palesemente infetta, o una belga piena di solvente. L’assaggio diventa più difficile quando si migliora come produttori, perché il livello delle birre prodotte sale e bisogna andare a spaccare il capello in quattro. A volte il problema è nel bilanciamento complessivo, nella varietà di luppolo, nel lievito fatto lavorare a temperatura più bassa di appena un paio di gradi. O nell’infezione subdola, quella che non si avverte netta ma sporca il profilo organolettico. Sfumature che solo un assaggiatore abile riesce a cogliere, per poi risalire alla causa grazie alle conoscenze acquisite. Ma l’assaggio resta fondamentale, e va fatto con tutti i crismi del caso.
Non c’è bisogno di essere dei giudici birrari certificati, ma fare qualche esperienza in giura di concorsi per homebrewer aiuta. Oppure più semplicemente assaggiare le proprie birre insieme ad amici e conoscenti esperti, magari proprio al fianco di qualche giudice. Non c’è bisogno di seguire tutti i corsi di degustazione del mondo per mostrare certificati di partecipazione: di per sé non servono a nulla, se non ci si applica. Di corso ne basta uno, scelto tra quelli più quotati, che possa indirizzare sulla strada giusta. Il resto si può – anzi si deve – fare da soli: studiare, poi di nuovo assaggiare e ancora studiare. È importante conoscere i difetti, saperli individuare, ma anche saper descrivere il profilo organolettico di una birra. Può sembrare ridondante, ma quando ci si sforza per trovare i descrittori (che non siano i soliti “fruttato”, “sa di lievito”, “cereale”) si entra “dentro” la birra, la si viviseziona, facendo emergere eventuali difetti, sia di produzione che di equilibrio complessivo. Non occorre sacrificare tutte le bottiglie per un assaggio scrupoloso, se la birra è buona le bottiglie meritano di essere condivise con amici e parenti a cuor leggero, accompagnate da risate e magari qualcosa da mettere sotto i denti. Ma un paio di bottiglie devono essere sacrificate per l’assaggio meticoloso in solitaria, in un bicchiere adatto a esaltare gli aromi, senza scolarsene una pinta intera. Magari compilando una scheda, che può essere un semplice foglio bianco con qualche appunto o una più strutturata scheda BJCP. All’inizio sembrerà noioso e forse troppo impegnativo, ma con il tempo ci si prende la mano e questo passaggio diventerà parte integrante del processo produttivo. Perché deve esserlo, se vogliamo fare il salto di qualità. Non esiste un bravo homebrewer che non sia anche un bravo assaggiatore, o almeno io non ne ho ancora incontrati.
Conoscere gli stili
Chiudo con il solito, pallosissimo, pippone sugli stili. Eh, sì: vi tocca. Non posso nemmeno pensare che si possa diventare ottimi homebrewer senza conoscere gli stili. Senza avere la curiosità di assaggiare, provare e sperimentare. Non c’è bisogno di ottenere certificati o passare esami, è sufficiente seguire la propria curiosità e studiare. Documenti in rete sugli stili birrari ne esistono a bizzeffe, dalle linee guida del BJCP a quelle della Brewers Association, ma anche tanti approfondimenti su singoli stili e sulla loro storia. Anche di libri ne esistono moltissimi, soprattutto in inglese, dai classici di Michael Jackson che gli stili birrari li ha inventati (interessantissimi per gli stili classici, meno efficaci su quelli moderni) fino alle opere più contemporanee come “The Beer Bible” di Jeff Alworth.
Perché è così importante conoscere gli stili birrari per produrre birra? Molto semplice: perché ogni stile è un esempio di equilibrio perfetto tra gli ingredienti di una ricetta. Questo non significa che alcuni stili non siano sbilanciati a livello organolettico (come le IPA sull’amaro o le Gueuze sull’acidità), ma che quella particolare ricetta di stile ha passato anni di evoluzioni prima di trovare il perfetto equilibrio anche nel suo intrinseco e apparente squilibrio. Da qui si deve partire per progettare una ricetta, anche se si vuole uscire dai confini stilistici e osare. Altrimenti, si procede a tentoni inseguendo il colpo di fortuna. Che una volta su 100 potrebbe anche arrivare, ma per le altre 99 berrete birre orripilanti. Io vi ho avvisato.