Un articolo pubblicato qualche giorno fa su Munchies racconta la bella storia del sessantaduenne Clement Djameh, il proprietario dell’unico microbirrificio del Ghana, chiamato Inland Brewery. Definirlo birrificio non rende l’idea, perché siamo ovviamente lontani da qualsiasi concezione occidentale del termine: come ben visibile sul relativo sito web, l’impianto di produzione sembra uscito dalla cantina di un homebrewer e l’edificio che lo ospita è semi diroccato e apparentemente abbandonato. Ciò non impedisce a Clement (e al suo socio Fash Sawyerr) di raccontare la propria mission con espressioni roboanti: “Trasformiamo le tradizionali bevande locali in birre di livello internazionale”. Un claim che fa tenerezza solo a una lettura superficiale: difficilmente potranno essere prodotti di qualità eccelsa, ma la visione ambiziosa di Inland è tutt’altro che ingiustificata.
Se seguite Cronache di Birra da un po’ di tempo, vi sarete imbattuti in alcuni articoli sulla scena birraria africana. Che chiaramente è molto varia – stiamo pur sempre parlando di un intero continente – ma che possiede alcuni punti chiave piuttosto solidi. Il primo è che, a parte alcune realtà  economicamente più avanzate (tipo il Sud Africa), la birra artigianale è praticamente sconosciuta e a dominare sono i marchi della grande industria. Il secondo riguarda invece la lunga tradizione (direi quasi ancestrale) di bevande africane fermentate da cereali diversi dall’orzo, come il miglio che è largamente diffuso in alcune aree del continente.
Non è dunque un caso che entrambe le dinamiche abbiano trovato un punto d’incontro nel birrificio Inland. Oltre a essere il primo produttore artigianale di tutto il paese, Clement è interessato a utilizzare colture locali e a far rivivere in forma brassicola le antiche bevande del Ghana. Per le sue birre egli utilizza diverse varietà di sorgo al posto del malto d’orzo e l’unica materia prima che importa è il luppolo. Sempre sul suo sito afferma di produrre diverse bevande (anche analcoliche), tra cui basse fermentazioni con il sorgo e il Pito, una specie di birra realizzata con miglio o sorgo, tipica del Ghana settentrionale e della Nigeria.
Ciò che ai nostri occhi può sembrare una vicenda poco più che folkloristica, nasconde in realtà un percorso molto professionale e dei risvolti economici importanti. Dietro all’attuale birrificio c’è infatti un lungo studio effettuato da Clement su oltre 70 varietà di sorgo al fine di trovare quelle più adatte alla birrificazione. L’analisi fu possibile grazie a una sovvenzione proveniente dalle Nazioni Unite e con il supporto dell’Istituto di Ricerca alimentare del Ghana. Seguirono un’infinità di esperimenti brassicoli, spesso realizzati in condizioni non proprio agevoli: quando nel paese la fornitura di energia elettrica non era ancora stabile, Clement era costretto a bruciare gusci interni di noci di cocco come fonte di calore. Da non trascurare poi i suoi anni di studio birrario in Germania e l’esperienza decennale acquisita in un grande birrificio del Ghana.
Ma, cosa più importante, l’utilizzo di colture locali per la birrificazione può avere un impatto positivo sull’economia dell’intera nazione e in particolare sulle aziende agricole locali che producono sorgo e non solo. A differenza del grano, questa graminacea può sopravvivere in aree con temperature alte e piogge scarse, rivelandosi fondamentale in previsione dei cambiamenti climatici del prossimo futuro. Il sorgo può diventare quindi una coltura cruciale non solo per la birra, ma anche per l’alimentazione.
Chiaramente il percorso è ancora molto lungo, ma in un’economia così fragile come quella dell’Africa occidentale anche un piccolo cambiamento può essere importante. Al momento la sfida maggiore è nella possibilità di diffusione delle birre Inland, perché il suo pubblico rimane costituito di turisti (magari appassionati di birra) e della ristretta borghesia bianca locale. Non è un caso che l’attività principale di Clement sia la fornitura di birra e materiale di spillatura per festival, cerimonie ed eventi privati.
D’altro canto la passata occupazione tedesca del Volta ha alimentato una certa predisposizione della popolazione ghanese (almeno di quella orientale) nei confronti del consumo di birra. Una situazione molto simile a quella della Namibia, paese che ho visitato la scorsa estate e che è tra i primi in assoluto in termini di consumo pro capite di birra. Curiosamente anche lì è presente un solo microbirrificio: il Camelthorn di Windhoek, le cui birre non sono riuscito ad assaggiare per un soffio.
A quanto sembra la rivoluzione internazionale della birra artigianale sta cominciando a far sentire i suoi pur timidi effetti anche in Africa. L’aspetto più interessante però è che qui il fenomeno potrebbe essere il pretesto per favorire politiche di sviluppo locali basate sullo sfruttamento di materie prime e colture presenti in maniera naturale. A tal proposito, è giusto concludere con le parole di Mawuena Akyea, uno scrittore e regista americo-ghanese:
Ciò accrescerà il profilo e l’orgoglio del Ghana. La gente può pensare che sia una cosa di poco conto, ma la birra locale è qualcosa che possiamo rivendicare come nostra e nessuno ce la può togliere.